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I problemi nascono a monte. Puntare (solo) Pirlo è come guardare il dito che indica la Luna

di Ivan Cardia

La sconfitta contro il Benevento è di quelle che non passano più. Che lasciano scorie e creano fratture. A Torino c’era un tecnico bravo, una volta, che spiegava come la cosa importante per lui fosse arrivare nella miglior condizione possibile a marzo e aprile. La Juventus ha inaugurato il mese pazzerello facendosi buttare fuori dalla Champions dal modesto Porto e l’ha chiuso rimediando una scoppola allo Stadium dal Benevento che non vinceva da undici giornate. Tutto quello che ha fatto nel mezzo conta zero: ha sbagliato l’unica partita che non doveva sbagliare ed è rovinata su una domenica che doveva essere scontata. Lo scudetto era già nel regno dei sogni, ora neanche in quelli più belli. All’amico Inzaghi, Pirlo ha concesso quattro puti su sei disponibili in due partite: da questo punto di vista è una batosta che può diventare una lezione significativa, per quello che sono state le rispettive carriere da allenatori. Sta di fatto che la Juve non soltanto saluta l’Inter e il decimo tricolore di fila, ma guarda con preoccupazione al futuro. Tra il 7 e il 18 aprile sfiderà Napoli e Atalanta: il quarto posto è tutto fuorché scontato. Andare fuori dalla Champions sarebbe un bagno di sangue e un disastro economico, oltre che un fallimento sportivo. Chi esce agli ottavi in Champions guadagna 80 milioni di euro, chi vince l’Europa League non arriva a 25: basta questo. Già il fatto che la Signora debba preoccuparsene, la dice lunga sul giudizio, inevitabile, di una stagione che positiva non potrà diventare. E non tirate fuori la Coppa Italia.

Le responsabilità di Pirlo ci sono. Forse ha accettato un’offerta arrivata prima del tempo, ma di questo è difficile seriamente fargli una qualche colpa. Ha commesso errori perdonabili a un tecnico alle prime armi, ma non all’allenatore della Juventus. Anche contro il Benevento non ha sfruttato nel migliore dei modi le (poche, va detto) armi a propria disposizione. E poi ha chiuso nella peggiore delle maniere: rimarcare gli errori individuali, peraltro ripetuti, è un passo falso nei confronti della squadra prima di tutto. E in secondo luogo un controsenso: chi deve correggerli, se non lui? Ha 14 punti in meno di Sarri un anno fa e 20 rispetto all’ultimo Allegri: sono freddi numeri, ma da qui non si scappa. La responsabilità più grande è forse quella di aver ceduto in più di un’occasione all’anarchia tattica dei suoi protagonisti individuali. Al caos organizzato. Che ha dato risultati ogni tanto: è il rischio del caos. Detto questo, nelle quaranta partite da allenatore che ha avuto modo di allenare, ha fatto vedere cose interessanti. Ha rivitalizzato Danilo, uno che sembrava passato da Torino per caso. Ha proposto un’idea, e ha anche fatto giocare alla sua squadra alcune grandi partite. S’è visto qualcosa. I suoi sono errori perdonabili, fisiologici addirittura, per un allenatore agli esordi. Non possono esserlo per l’allenatore della Juve, e nello specifico di una Juve che da nove anni a questa parte vince lo scudetto. Ma l’esserlo non è certo colpa sua.

Puntare Pirlo è come guardare il dito che indica la Luna. Il dito c’è, ma il tema è la Luna. E i problemi nascono a monte, in maniera decisamente meno elegante si potrebbe dire che il pesce puzza sempre dalla testa. Le colpe del tecnico bresciano si fermano davanti a quelle di chi ha costruito la Juve che oggi sbanda. E per ammissione dello stesso Paratici non può attraversare una stagione di transizione, come in realtà nel migliore dei casi è quella che sta vivendo. Il ciclo d’oro sta lì, i cicli d’oro se (suona meglio definirli così) stanno lì. Non si toccano. Ma è il bello di una società che punta sempre a una cosa: vincere. Conta il risultato che ottieni domani, quello che hai vinto ieri è storia e bacheca: orgoglio da non dimenticare, ma nemmeno da trasformare in un bel paravento dietro cui nascondere le difficoltà odierne. Dall’addio di Allegri in poi, la Juventus ha voluto cambiare tutto e troppo in fretta. Di più, dall’addio di Marotta in poi: quali che siano state le cause, è una figura che oggi manca. Nel calcio, soprattutto di vertice, non ci si improvvisa. Alla Juve la sensazione è che sia successo: che si sia dato per scontato che Marotta potesse anche non essere sostituito, che le vittorie di Allegri fossero scontate. Si è scommesso su un investimento planetario (Ronaldo) che non va discusso in sé ma per le conseguenze che ha portato. Si è cercato di replicare il modello (Rabiot, Ramsey) senza grossa fortuna. Si sono fatte scelte contraddittorie: il calcio associativo di Sarri e l’individualismo di Ronaldo. Dybala quasi svenduto e poi miglior giocatore della stagione successiva. Ci si è infatuati di un’idea, costruirsi in casa un Guardiola o uno Zidane, senza considerare che Guardiola e Zidane non sono nati per caso ma dopo programmazione e (sia pur corta) una qualche gavetta. Si è costruito un circolo magico in cui diventa davvero difficile capire cosa non sta funzionando. In tutto questo, sono state anche fatte ottime cose: sono arrivati De Ligt e Chiesa, per dirne due. Mica tutto è da buttare: questa non è mai la soluzione. Ma se la Juventus, ai massimi livelli, non si inizierà a interrogare sul perché oggi ci sia bisogno di domandarsi se domani Pirlo sarà ancora l’allenatore o meno (e la risposta è sì, ma a fine stagione chissà: il gol di Gaich ha rimescolato tutte le carte), allora non troverà alcuna risposta a questa stagione. Brutta e di transizione.