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Quando l'obiettivo diventa vincere una partita…

di Thomas Bertacchini

Per una squadra che non vince (quasi) più, non ci possono essere altri pensieri se non quelli di ragionare partita dopo partita, nella speranza di smuovere la classifica con una vittoria. Non limitandosi, nonostante la soddisfazione della società (complimenti per il commento post Livorno-Juventus nel sito), soltanto a qualche pareggio.
Il ridimensionamento c’è stato, le cause sono sotto gli occhi di tutti. Elencare gli aspetti che non funzionano vorrebbe dire girare il coltello nella piaga. Per l’ennesima volta. Anche se, ormai, non provoca neanche più dolore: ci si è abituati alla rabbia; il "non gioco" finisce con l’evitare che nascano illusioni; il confronto con il passato provoca sconforto.
L’importante è che non si sconfini nella rassegnazione.

Quella che si sta avvicinando pericolosa, ma che va allontanata con forza: è il nemico peggiore, quello che non si sconfigge. Ti spezza il morale e ti taglia le gambe. Anche a chi ha vinto mondiali o palloni d’oro. Certo, ci sono persone che non hanno bisogno di obiettivi per essere stimolati: basti pensare all’impegno che Nedved mise nell’incontro a Bari contro il Martina, nel 1° turno eliminatorio della Coppa Italia nell’agosto del 2006, poco dopo il terremoto scoppiato con Calciopoli. Allenamento, amichevole, gara di campionato o di Champions League: per lui non faceva differenza alcuna. Ma di calciatori di quel calibro ne nascono uno ogni chissà quanto: basterebbero anche un po’ di Torricelli o Di Livio.

Sfumati gli obiettivi prestigiosi, stanno volando via leggeri anche tutti quelli al loro seguito. I giocatori avvertono la sfiducia, cercano di rimediare con una "partita perfetta", quella della svolta. Quella che, con uno stato d’animo simile, difficilmente adesso arriverà. Quando guardi l’orizzonte e pensi di essere in grado di raggiungere l’irraggiungibile, diventa difficile accettare di non riuscire ad ottenere più nulla. In quei momenti anche una sola e semplice vittoria diventa una montagna difficile, se non impossibile, da scalare.

Allora si tratta di trovare l’umiltà per ammettere i propri limiti, di personalità prima ancora che di natura tecnica o atletica, anche verso se stessi. E di ripartire dalle cose più elementari: un passaggio ad un compagno; riuscire ad arrivare per primo sulla palla rispetto all’avversario; correre per 90 minuti senza avvertire la fatica che (anche) lo stress contribuisce ad aumentare. Soltanto dopo i muscoli iniziano a sciogliersi, i movimenti diventano più elastici, naturali. La testa torna ad essere libera da pensieri e condizionamenti. Ed accetta anche un errore commesso con meno ansia, riuscendo ad estraniarsi dalla critiche. Comprese quelle provenienti dagli spalti.

La maglietta torna ad essere un’armatura, l’avversario un contendente, il campo un’arena. La vittoria come unico obiettivo. Raggiungibile. Perché a chi non è (quasi) più in grado di vincere, non si può chiedere di più. E’ dura da accettare, ma ora è così.

La Juventus tornerà ad essere la Vecchia Signora. Non con queste persone che la stanno distruggendo. Ci vorrà tempo, quantificarlo non è possibile. Ma se la serie B sembrava dovesse essere il punto di partenza per una nuova strada, in realtà ha rappresentato la terz’ultima tappa verso l’inferno. Quello che si sta vivendo in questi giorni. C’è da tenere duro e sostenerla in questa infausta stagione, come e quanto è sempre stato fatto. Se non di più. Ma soltanto quando i giocatori verranno scelti da persone competenti, utilizzando come criteri la classe, la personalità e (solo dopo) l’aspetto economico, allora si potrà tornare a vincere. Non soltanto una partita.
 


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