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LA JUVE, MORGANTI, TAGLIAVENTO E LE MANETTE

di Thomas Bertacchini

Adesso il rischio che il cammino della Juventus da qui alla fine del campionato possa diventare un martirio è veramente concreto. Tutto ha avuto inizio il giorno dell’Epifania, in occasione della sconfitta interna contro il Parma (1-4), allorquando si materializzarono i peggiori incubi dei sostenitori bianconeri: dall’infortunio del miglior attaccante nella rosa a disposizione di Del Neri (Quagliarella) al ritorno del fratello "cattivo" di Felipe Melo (espulsione e successive tre giornate di squalifica); dai goals subiti per opera degli "ex" dal dente avvelenato (Giovinco e Palladino) alla rete segnata da Hernan Crespo, la punta che ha scelto la Vecchia Signora come uno dei suoi bersagli preferiti sin dal momento dell’approdo in Italia.

Il 2011 doveva essere l’anno del rilancio juventino. Bene, se il "buongiorno si vede dal mattino" la speranza è che arrivi presto "sera": su sei gare disputate in campionato ci sono state ben quattro sconfitte, un pareggio ed una sola vittoria (contro il Bari). I punti accumulati in classifica, in questo momento, sono gli stessi dell’era Ferrara-Zaccheroni. Per rimanere in linea con la passata stagione è giusto considerare anche l’eliminazione dalla coppa Italia per opera della Roma, così come l’anno scorso la Juventus uscì dal trofeo nazionale ai quarti di finale contro l’Inter, sconfitta che segnò il cambio in panchina tra il giovane allenatore bianconero ed il "traghettatore" di Meldola. Quello che non riuscì ad evitare il naufragio di una nave che stava imbarcando acqua ovunque, finendo - di fatto - anche lui sul banco degli imputati. In molti lo giudicarono un "bollito", prossimo alla pensione, baciato dalla fortuna in occasione della vittoria dello scudetto alla guida del Milan nel lontano 1999. Recentemente ha conquistato la Coppa d’Asia come commissario tecnico della nazionale giapponese, facendo ricredere - forse - qualcuno che lo criticava pesantemente al tempo della sua (breve) permanenza a Torino. Un episodio più o meno simile a quello capitato a Fabio Cannavaro nel momento in cui venne ceduto dall’Inter alla stessa Juventus senza troppi rimpianti, salvo poi vederlo vincere due scudetti, un pallone d’Oro e diventare campione del mondo con la maglia azzurra da protagonista assoluto.

L’infortunio di Quagliarella ha causato un contraccolpo psicologico fortissimo nell’ambiente bianconero. Ma questo non può (e non deve) servire come alibi nei confronti di quei giocatori che sino a quel momento si erano resi protagonisti di un buon campionato con ottime prospettive per il futuro prossimo, legate alla speranza che la società riuscisse ad acquistare nel mercato di gennaio (quello che una volta veniva definito di "riparazione") un attaccante da affiancare alla punta di Castellammare di Stabia. Così come la follia di Melo, che ha finito con l’autoescludersi per tre gare, non basta per giustificare un crollo verticale nel gioco juventino che non si è fermato nonostante il suo rientro in campo.
I fantasmi del passato, a conti fatti, non se ne sono mai andati da Vinovo: hanno solo aspettato il momento giusto per ripresentarsi. Il famoso "cantiere" aperto lo scorso mese di luglio è stato "chiuso" troppo presto; l’obiettivo dichiarato a inizio stagione del raggiungimento di un posto in Champions League non doveva cambiare nonostante le pressioni dell’ambiente (così come la parola "scudetto" doveva essere bandita, almeno per quest’anno); guardando il bicchiere "mezzo pieno" non bisogna dimenticare che ne esiste anche una sua parte "vuota"; la Vecchia Signora vista dal Presidente Agnelli come macchina da "Formula 1" con la benzina sbagliata ha un problema legato sia alla "qualità" del rifornimento che alla sua "quantità".

Regalati i primi due goals (ed i venti minuti iniziali) al Palermo, la Juventus ha dimostrato una reazione che fa ben sperare per le prossime partite. Fermo restando che la storia bianconera insegna che quella rabbia, in passato, i suoi giocatori l’avevano nel momento stesso in cui indossavano la maglia a strisce verticali prima di mettere il piede sul terreno di gioco, quando ancora si trovavano negli spogliatoi. Reagire quando hai preso due ceffoni, il più delle volte, non ti consente di rimettere in sesto un incontro. Mantenendo d’ora in avanti l’atteggiamento positivo della seconda parte della gara di mercoledì sera, Madama dovrà cercare assolutamente di raddrizzare una stagione diventata, col trascorrere delle giornate, negativa. Non si parli più di obiettivi: qui c’è da riprendere la confidenza con la vittoria, guardando la classifica soltanto nel momento in cui i recuperi delle gare non ancora disputate da altre squadre l’avranno definita in maniera più chiara. Per ora meglio coprirsi gli occhi: a leggerla viene solo da piangere.

Il 24 gennaio scorso, in occasione della serata degli "Oscar del calcio AIC", Emidio Morganti venne giudicato il miglior arbitro per l’anno 2010 davanti a Rizzoli e Tagliavento, gli altri due candidati. Quello fu lo stesso giorno in cui, durante il seminario "Il calcio e chi lo racconta", Massimo Moratti dichiarò: "Il fatto che l’Inter abbia vinto dopo Calciopoli dimostra quanto sia stata una truffa per il calcio italiano".
Nel momento della consegna del premio Cristiano Militello, noto personaggio televisivo italiano, si avvicinò a Roberto Rosetti lasciandogli una busta chiusa da far pervenire allo stesso Morganti unitamente al riconoscimento appena conquistato. In mezzo all’ilarità generale lui la prese (ammettendo: "Ho il sospetto di sapere cosa possa essere") per poi lasciarla al vincitore. Una volta aperta, si scoprì che si trattava di un paio di manette. Era chiaro il riferimento a Paolo Tagliavento e alla sua direzione di gara in quell’Inter-Sampdoria del 20 febbraio scorso, che si portò dietro un mare di polemiche dopo le decisioni contestate allo stesso fischietto in merito alle espulsioni di Samuel e Cordoba (e di Pazzini, allora in maglia blucerchiata), celebrate dal famoso gesto delle manette mimato da Mourinho. Tagliavento (che in passato non fu esente da errori evidenti in altri incontri), nella partita in questione ebbe l’unica colpa di aver arbitrato senza guardare in faccia nessuno, applicando le (giuste) decisioni che il suo ruolo gli imponeva. Ma quello era un momento particolare del campionato, con l’Inter che temeva di perdere il tricolore (la Roma stava recuperando terreno) e aveva paura ci fossero complotti ai suoi danni.
Strano, a pensarci bene: proprio ora che Calciopoli non esiste più.
Questa è l’Italia del pallone, Presidente Agnelli.