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CIRO FERRARA, GLI "ASINI" E LO SPIRITO JUVE

di Thomas Bertacchini

A leggere l’intervista rilasciata da Ciro Ferrara al taccuino di Paolo Condò ("La Gazzetta dello sport") e comparsa sulle pagine del quotidiano sportivo mercoledì 2 giugno, la Juventus dello scorso anno ha fallito (anche) per colpa di alcuni "asini".
Così ha definito chi - all’interno della rosa - dopo il suo addio si è lamentato di lui, della sua inesperienza, del modo di allenare la squadra e della mancanza di una vera disciplina tattica.

Non che le cose, con l’arrivo del traghettatore Zaccheroni, siano poi cambiate in meglio: partenza stentata, qualche risultato (in Italia e in Europa) confortante, poi la barca è affondata. Così come stava accadendo al momento della sostituzione tra i due tecnici. Né il (temporaneo) ritorno di Bettega, nè - tantomeno - il tentativo dell’allora gruppo dirigenziale di mettere la squadra di fronte alle proprie responsabilità, servirono a migliorare le cose.

Di quella Juventus, oggi, almeno nei piani alti della società è rimasto ben poco. Segno che le colpe non erano - e non potevano essere - solo ed esclusivamente di Ferrara. La stessa musica ascoltata mesi prima quando, al posto dell’ex giocatore bianconero, si trovava Claudio Ranieri.
Come Trapattoni iniziò la sua (trionfale) carriera da allenatore con un Boniperti alle spalle, e Lippi la sua cavalcata bianconera con la Triade a supporto, Gigi Del Neri proverà a ridare un’anima a quella squadra che ha spaventato i tifosi non tanto per i disastrosi risultati ottenuti in questa stagione, quanto per la mancanza assoluta di carattere, di grinta, di combattività: alcuni dei segni distintivi di un DNA ormai incollato a quelle maglie. Si poteva cedere il passo agli avversari, in passato, ma non senza che soffrissero le pene dell’inferno contro chi gettava sempre il cuore oltre l’ostacolo.
Quello che manca alla Juventus di oggi, e che dovrà rappresentare il primo vero e proprio acquisto della nuova gestione, è lo spirito battagliero che ne ha contraddistinto la sua storia: si gioca per vincere, per essere competitivi sino in fondo. Il resto, non conta.

Simone Pepe passerà alla storia come il primo uomo scelto per vestire la casacca bianconera della nuova era-Agnelli. Il suo arrivo non entusiasma i tifosi: sarebbe stato bello (e romantico) iniziare subito con un "botto" di mercato. Dzeko? Ribery? O il meno quotato (ma pur sempre bravissimo) Krasic? Non importa, sai che effetto…
E se un "top player" arrivasse, tra qualche giorno, come terzo o quarto acquisto, cosa cambierebbe?
Il nome di Pepe non stuzzica un popolo deluso, a cui - in passato - è stata chiesta pazienza da chi non ha saputo gestire il tempo (e i soldi) a disposizione per ricostruire una società devastata da (falsi) scandali e dalla retrocessione in serie B. I danni da loro stessi creati, poi, sono risultati ancora maggiori.
Chi è arrivato ora deve partire da "un Pepe" per ricostruire quanto distrutto da altri. Senza giocatori di classe, non si va da nessuna parte; viceversa, senza i Di Livio, i Torricelli e i Pessotto, quella Champions League del 1996 (e altre vittorie precedenti e successive) sarebbero in bella mostra in altre bacheche.

Ogni giocatore ha un suo ruolo preciso, all’interno di un gruppo. Senza quello, regna la confusione. Se la regia, dall’alto, è buona, i risultati - sul campo - si vedranno. Né ottimismo, né pessimismo: realismo. Il problema è che il campionato di serie A (con le rose ultimate) riprenderà tra troppo tempo: c’è il mondiale di mezzo, con i preliminari di Europa League. Tanto, per un popolo che non ha più voglia di aspettare.
Bruciato dalle ultime esperienze dopo essere rimasto scottato a ripetizione, vittima di una caduta rovinosa dall’alto dell’entusiasmo della scorsa estate sino al tracollo dei risultati dell’anno calcistico appena concluso, ora lo sterminato popolo bianconero ha sete di fame, vittorie e rivincite.
Non pazienza: quella, ormai, l’ha persa. E’ inutile chiederla.
Ma "deve" averla.

Il Ferrara che ha perso la prima grande occasione della sua nuova vita calcistica si è preso le responsabilità del fallimento dei suoi mesi da allenatore. Ha rivendicato, inoltre, la paternità dell’acquisto di Fabio Grosso, la difficoltà nell’allenare chi era stato suo compagno di squadra e nel tenere fuori Del Piero, ha difeso Diego, evidenziato la supponenza con la quale si allenava Melo e dichiarato al mondo intero quello che tutti sapevano: la mancanza, nello staff dirigenziale, di un uomo di campo che potesse tenere testa a quei giocatori incapaci di reagire di fronte alla difficoltà.

Altro? Sì. Ha smesso di diventare esigente con suoi uomini dopo i primi risultati positivi. Ha finito col "mollare la presa", senza essere più riuscito a recuperarla. Questo è stato il suo più grande errore.
Di allenatori come Capello e Trapattoni (giusto per rimanere in casa Juventus) tra vittorie, sconfitte, imprese e delusioni spalmate in tanti anni di calcio, ancora si devono avere notizie di un loro calo di tensione. Meno che mai dopo solo quattro vittorie, in poco più di un mese.
Così fanno i vincenti.
Come il Ferrara calciatore, quando indossava la maglia bianconera.
Quello era lo "spirito Juve".
 


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