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CESARE PRANDELLI TRA FELIPE MELO E IL RICHIAMO DELLA JUVE

di Thomas Bertacchini

Interrotto il cammino intrapreso con Zaccheroni, la Juventus deve rialzarsi e riprendere a vincere. Da subito. Perché se è vero che l’andatura di chi occupa le posizioni della parte medio-alta della classifica non è spedita come quella di chi la comanda, è altrettanto vero che le altre squadre non possono più aspettare i bianconeri: nonostante le 9 sconfitte accumulate sotto la guida dei due mister (8 con Ferrara), la Juventus è ancora in corsa per il quarto posto. A patto che la smetta di fare passi falsi. A cominciare da Firenze.

Dove si ritroveranno di fronte (dopo la gara del girone di andata) Felipe Melo e Prandelli. Questa volta in Toscana. Nella città che ha accolto il brasiliano lo scorso anno (accompagnandolo nel suo praticantato nel campionato italiano) e che ha adottato l’allenatore, stringendosi attorno a lui nel momento più difficile della sua vita extra-calcistica.
"No, consigli non ne voglio dare. Vi dico però che noi l'anno scorso avevamo creato un gioco che per Melo era possibile: non è un regista, ha visione ma non abbastanza. E così avevamo creato meccanismi di gioco facendolo giocare come mezzo destro del 4-2-3-1, con movimenti delle ali che facilitavano il suo gioco". Queste le opinioni espresse da Prandelli, lo scorso fine novembre, in merito al difficile ambientamento di Felipe Melo a Torino. Consigli (a Ferrara) non ne voleva dare, ma le sue indicazioni non sarebbero dovute passare inosservate: ecco come ci si comporta quando si vuol far rendere al massimo un calciatore. Lo si inserisce negli schemi di una squadra e, se non dovesse rendere al meglio, ci si interroga sui "perché". Prima di bocciarlo e cederlo a prezzo di saldo. Titolare nel Brasile, guidato da un Ct (Dunga) che - in alcuni frangenti - si rivede in quel giocatore. Venduto dai viola ad un prezzo altissimo (si tratta pur sempre di un mediano), tuttora ricercato da grandi squadre europee. Lasciato tra le braccia di chi cercava un regista e si è trovato un altro tipo di centrocampista: normale, per chi non è in grado di distinguere il prato verde del torneo di Wimbledon da quello del terreno di gioco dello stadio Olimpico.

Cremonese e Atalanta, prima di fare il grande salto verso la Juventus: così nacque (e maturò) il Prandelli calciatore. Quello che arrivò nella Torino dei fine anni settanta era un calciatore duttile come lo sarebbe diventato da allenatore. In panchina, effettivamente, trascorse la gran parte delle stagioni in maglia bianconera. Davanti a sé il Trap, dal quale aspettava un segnale per andare a riscaldarsi. Ed entrare quando la storia della partita, in buona parte, era già stata scritta: si trattava di mettere la firma o cambiarne il finale. Centrocampista, difensore: buono all’uso. Di quella adattabilità alle diverse situazioni ne ha fatto tesoro per la carriera successiva.
Tornato all’Atalanta, appese - dopo pochi anni - le scarpette al chiodo, chiudendo - di fatto - la sua prima vita dentro il mondo del calcio. Dopo aver raccolto scudetti (3) e coppe (Campioni, delle Coppe, Supercoppa Europea e Italia), il tutto con la maglia bianconera addosso.

Iniziò ad allenare a Bergamo, nel settore giovanile: un torneo di Viareggio, vinto nel 1993, fu il trampolino di lancio per il calcio professionistico. Lecce, Verona (1° in serie B nel 1999), Venezia e Parma. Qui continuò il suo lavoro sui giovani, forze fresche che dovevano sostituire quei campioni (Cannavaro, Thuram, Buffon, Crespo, Veron, Chiesa, …) che - poco alla volta - stavano abbandonando quella che era considerata, da anni, un’isola (calcistica) felice. Due volte al quinto posto, con gli attacchi prolifici di Mutu e Adriano (18 e 15 reti) e con Gilardino (23 goals), rimasto orfano del brasiliano passato a metà stagione all’Inter (Mutu si accasò al Chelsea).

Dopo, il salto alla Roma. Nel 2004. E la scelta di vita: abbandonare il calcio per stare accanto alla moglie gravemente malata. Non iniziò neanche il campionato alla guida dei giallorossi: l’altro, il suo, era più importante. Senza ombra di dubbio. L’anno successivo il ritorno in panchina, a Firenze. Da quel momento in poi, è storia attuale: dal Toni capocannoniere del 2006 (31 reti) al ritorno di Mutu, dal lancio di Montolivo all’addio a Pazzini, dall’arrivo di Jovetic al rilancio di Gilardino ai riconoscimenti personali del mondo del calcio per il suo lavoro. Tutto sempre puntando sui giovani, seguendo un progetto (vero) disegnato dai Della Valle e messo in pratica da Pantaleo Corvino. L’approdo in Champions League, il richiamo della Juventus: leggero nell’ottobre 2008 (primo vero periodo di crisi di Claudio Ranieri), più intenso l’anno successivo (arrivò Ciro Ferrara), forte e chiaro oggi.
Una scelta di vita da compiere. Un’altra, senza Manuela. Nel dicembre del 2007 lasciò Cesare a portare avanti la crescita dei due figli. Giovani, anche loro. Come quelli che hanno caratterizzato la vita calcistica di Prandelli. Tre strade: continuare in viola, approdare nella nazionale maggiore, tornare alla Juventus.

A Torino, trent’anni dopo, con Bettega alle porte della città ad aspettarlo, se la Juventus tornerà ad essere la Vecchia Signora. Con un altro proprietario ed altri dirigenti in grado di ricostruirla come quando lui era in panchina, ad aspettare un segnale dal Trap.
Ora che si è rifatta bella dopo le Olimpiadi invernali del 2006 e che si sta mettendo il trucco per il 150° anniversario dell’Unità d’Italia (2011), il capoluogo piemontese ha perso il gioiello più luminoso da esporre: la Juventus. Questione di tempo, tornerà.
Piazza San Carlo è pronta ad essere inondata di tifosi bianconeri, come una volta.
Con Cesare alla guida dei bianconeri, magari.
 


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