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Il pallone racconta: MEAZZA E PIOLA ALLA JUVENTUS (parte seconda)

di Stefano Bedeschi

Due anni dopo, metà ottobre 1945, calciare il pallone era uno dei primi segni della vita che ricominciava. Ed ecco un altro nome mitico per la “Vecchia Signora”: Silvio Piola, trentaduenne, già oltre la metà della sua lunghissima carriera che doveva riservargli ancora una maglia azzurra, a quasi quaranta anni. Piola era stato nella Pro Vercelli e nella Lazio, i suoi goals in serie A erano quasi duecento. Se per Meazza si parlava di genio del tempo e del tocco, lui sembrava una sorta di cavaliere antico che sfondava con gesti poderosi e veloci. Segnava spesso in acrobazia, di preferenza col pallone uncinato a mezz’aria e spedito fulmineamente in rete, senza che il portiere avversario potesse accorgersi di niente. Durante la guerra aveva indossato la maglia granata del Torino-Fiat nel campionato di guerra, non ufficiale e, lanciato da Loik e Mazzola, aveva segnato qualcosa come 27 goals in ventisei partite. Il suo passaggio alla Juventus nacque da un mancato accordo con la Lazio, che voleva pagarlo a percentuale sugli incassi; rifiutò e preferì lo stipendio sicuro di Madama.
Come Meazza, debuttò in maglia bianconera in un derby, ma fu largamente più fortunato del suo predecessore: proprio lui segnò il goal della vittoria battendo, su rigore, Bacigalupo. Era un buon inizio per la Juventus e per il suo cannoniere annunciato (avrebbe fatto sedici goals) protagonista di un grande campionato, tra compagni come Coscia e Sentimenti III, Magni e Borel II, nonostante prolungate assenze per malanni muscolari che lui attribuiva alla scarsa preparazione del tempo di guerra ed alle lunghe soste in piedi nei treni affollati durante le trasferte. Fu una lunghissima stagione che lo portò molto vicino allo scudetto, come non gli era mai successo e come non gli sarebbe più capitato.
Perché Piola, campione del mondo, due volte capocannoniere, recordman assoluto dei goals segnati in Italia, non è mai riuscito ad essere, almeno una volta, campione d’Italia. E questa del 1946 rappresentò la grande occasione. C’era, è vero, il “Grande Torino” a dettar legge, ma il più lungo campionato della nostra storia, prima diviso in due spezzoni, poi con un girone finale, aveva in serbo una sorpresa. Quando si arrivò a metà luglio, a due domeniche dalla fine, la Juventus era due punti davanti al Torino: Piola l’aveva trascinata in una sequenza di sette vittorie consecutive. C’era però da giocare ancora il derby, alla penultima giornata e fu un derby che oggi si definirebbe drammatico, ma allora un aggettivo simile ricordava tragedie appena finite, un gran duello di centravanti: lo vinse l’ex Gabetto, autore del goal vittoria.
Così le due rivali affrontarono alla pari l’ultima fatica, il Torino coprì il Livorno di goals, la Juventus tentò disperatamente di vincere a Napoli, ma riuscì solo a pareggiare proprio con Piola, dopo essere stata addirittura in svantaggio, che poi ne sfiorò altri in mischie rabbiose, il cuore in tumulto e la furia che sembrava quella dei tempi vercellesi.
Piola rimase alla Juventus per un altro anno. Fu un buon campionato, che lo vide giocare mezzala e, nonostante il cambio di posizione, segnare altri dieci goals. L’ultimo a Venezia, a raddoppiare il vantaggio ottenuto da un ragazzino biondo che indossava la maglia numero nove e che avrebbe fatto parlare molto di sé. Quel ragazzino era Giampiero Boniperti.


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