Il pallone racconta: LA COREA (parte terza)
Ma torniamo agli azzurri. All’una di notte, nel ritiro di Durham, nessuno ancora dorme, si preparano i bagagli. Circolano voci del brindisi di un gruppo di azzurri, lieti del rientro anticipato a casa: «Non è vero» smentisce Fabbri, «quella notte a Durham nessuno ha brindato». Ma nella relazione al consiglio federale, il capo-delegazione confermerà «il brindisi a base di whisky, fatto non per festeggiare, ma per distendere i nervi e prendere sonno, visto che nessuno riusciva a dormire». Franchi viene chiamato tre volte al telefono: è Pasquale in linea da Roma. Gli dice che Fabbri è distrutto e non vuole presentarsi in conferenza stampa, prevista per il giorno dopo, Pasquale risponde che deve imporglielo come ordine di servizio. All’alba Franchi ottiene il sì di “Mondino”, arresosi per sonno più che per convinzione.
La mattina di mercoledì 20 luglio c’è l’ammaina-bandiera a Durham, i giocatori hanno la consegna del silenzio. Franchi e Fabbri vanno al centro stampa di Sunderland per la conferenza, alla quale partecipano centinaia di giornalisti d’ogni Paese. Franchi ripete le solite frasi di circostanza, Fabbri è un pallido fantasma che a stento riesce a bisbigliare qualcosa: «Potete bene immaginare che non sono in grado di fare una conferenza stampa. Più che amareggiato, sono addolorato. Le responsabilità sono soltanto mie». Fuori, gli azzurri infrangono la consegna del silenzio. Curiosamente, Gianni Rivera riprende il misterioso tema sfiorato da Facchetti dopo Italia-URSS: «Non corriamo, non rendiamo, perché ???». Salvadore ne ha le scatole piene: «Ci multano se parliamo ??? Ma non diciamo sciocchezze, siamo da un mese e mezzo a disposizione della Federcalcio, abbiamo perso i premi dei nostri club per le amichevoli post-campionato, in cambio della modesta diaria federale ed avrebbero pure il coraggio di multarci ???».
Il problema più complicato è quello del rientro; si dice che non ci sarebbero aerei per l’Italia con quaranta posti liberi, ma è una bugia, in questi casi federazioni ed organizzazioni prenotano i rientri ad ogni scadenza eliminatoria. La verità è che agli azzurri è stato consigliato un rientro “speciale”, per questioni d’ordine pubblico. Fabbri tira un sospiro di sollievo e propone di rientrare divisi, ogni gruppetto verso la propria destinazione finale, ma Franchi si oppone: il gruppo ritorna tutto insieme.
Alle 15:00 gli azzurri partono in treno per Londra, dormiranno all’albergo dell’aeroporto ed il giorno dopo prenderanno il volo per tornare in patria. La stampa inglese ci sfotte: «Ora i club italiani ingaggeranno calciatori coreani».
Giovedì 21 luglio, la squadra è a Londra. Al mattino partono con permesso speciale Bulgarelli, infortunato, per Milano, Juliano e Rizzo, per Roma. Gli altri, consegnati in albergo, devono andare nel pomeriggio al party di commiato che la Federazione Mondiale ha organizzato, a “Lancaster House”, per gli eliminati. Si vorrebbe declinare l’invito, ma Franchi obbliga tutti a partecipare. Il volo per l’Italia è fissato per le 21:00, ma verrà fatto partire molto più tardi, destinazione ignota: Milano, Roma o Genova, si vogliono evitare cattive accoglienze.
Gli azzurri assonnati e stanchi atterrano a Genova alle 3:40 della notte fra il 21 e il 22 luglio. Dagli oblò si vedono i tifosi assiepati intorno alla pista. «Ci sono, ci sono» gridano i giocatori. Viene predisposto un piano di uscita: Marino Perani deve comparire per primo sulla scaletta anteriore e subire i fischi e le contestazioni, mentre gli altri scendono da quella posteriore, rifugiandosi subito nel bus parcheggiato accanto. Il bus non c’è, due pantere della polizia non bastano a trattenere l’orda di fotografi, operatori televisivi e tifosi. Giocatori, tecnici, dirigenti e giornalisti, corrono tutti verso l’aerostazione sotto un lancio di pomodori, cetrioli, uova. La gente urla: «bidoni, bidoni, ci avete disonorati !!!»
Alle 4:35 Fabbri, pallidissimo, viene infilato nell’auto di un suo parente ed accompagnato sotto scorta fuori dall’aeroporto. Il grosso del gruppo, giornalisti compresi, sale su un pullman diretto a Milano e scortato dalla polizia. Lo seguono auto da cui sporgono mani che fanno le corna e facce di scalmanati che insultano: non sono auto di tifosi genovesi, hanno targhe di Milano, Torino, Piacenza. Un anonimo giornalista genovese rivela: «Quella notte c’ero, ma la spedizione fu assolutamente spontanea; eravamo stati informati dell’arrivo a tarda sera dalla fidanzata di un amico che lavorava all’aeroporto. Quanto ai pomodori, provenivano dalla cucina di un amico ristoratore. Le macchine con targa di altre province, poi, appartenevano a villeggianti».
Ma la rivelazione non dissipa tutti i dubbi su questo ennesimo mistero “coreano”. La prova è che alle destinazioni opzionali di Milano e Roma non è andato nessun tifoso: sono andati tutti a Genova a colpo sicuro. La mobilitazione in pochissime ore di fotografi, troupes televisive e molte centinaia di tifosi, con decine di auto da diverse città del nord e pesante munizionamento di ortaggi, per intercettare un aereo in partenza a mezzanotte da Londra con destinazione opzionale su tre aeroporti, non può essere frutto di iniziative spontanee. C’è una spia che ha avvertito, c’è una regia che ha coordinato attori, scena e copione. Non sembri esagerato il sospetto, l’Italia è a soqquadro per la disfatta, al punto che il presidente della repubblica Saragat deve improvvisarsi pompiere ed inviare un telegramma a Sandro Salvadore, capitano della Nazionale, per «ridimensionare una sconfitta al suo mero valore sportivo, che certamente non riguarda l’onore della Nazione».
I reduci di Middlesbrough spariscono nel nulla dei più inaccessibili ritiri e delle più sperdute spiagge, Fabbri si barrica in casa nella torrida Bologna: attende una convocazione dal presidente Pasquale, per un primo colloquio di cui non si saprà mai nulla. Poi, parte con la moglie per il ritiro di Camaldoli, prima di isolarsi nel segretissimo romitaggio aretino,
Anni dopo, Fabbri rivive quei momenti che hanno segnato la sua vita con un indelebile marchio di amarezza, delusione, solitudine, spavento: «Non auguro a nessuno di provare quello che ho provato io, dal 19 luglio al 22 dicembre del 1966. Nel giro di pochi giorni fui sbalzato dalla panchina del Milan, che Luigi Carraro mi stava offrendo e che per me voleva dire la resurrezione, ad una squalifica di sei mesi. Carraro mi aveva invitato presso un notaio di Milano per firmare il contratto: appuntamento segretissimo, neanche mia moglie sapeva niente, quando arrivò una telefonata del dottor Giuseppe Pasquale, il presidente della Federcalcio. Mi disse che era meglio aspettare qualche giorno, per il 22 era convocato il Consiglio federale: avrebbe esaminato la relazione della commissione speciale istituita per giudicare il mio operato. Era una commissione composta da giudici e consulenti della Federcalcio, cioè dalla mia controparte. Luigi Carraro fu pregato di parlare con Pasquale dal telefono di un’altra stanza e, quando tornò, mi disse che non si poteva firmare, che bisognava aspettare. Quattro giorni dopo, il Consiglio federale mi squalificò e, praticamente, fu la fine della mia carriera di allenatore».
Mondiali del 2002: l’altra Corea, quella del Sud, non solo organizza i mondiali, ma ha addirittura l’ardire di pensare di vincerli, cercando in tutti modi di riuscirci. Gioca un calcio discreto ed i risultati ottenuti negli ultimi anni non ne fanno certo una sorpresa. La partita finisce come sappiamo, si perde di nuovo. Stavolta, però, non succede niente, ci si limita a lapidare l’arbitro Moreno, non si parla di vergogna, di pagina nera, non si parla neppure più di “Ridolini”, perché i coreani hanno bicipiti da far impallidire i nostri. Segno che le cose sono cambiate, i valori livellati, le sorprese mitigate e le vergogne nazionali più improbabili in questi tempi di “pay-tv” e mercenari. Un’emozione, quella di allora, tutta in negativo che, vista da oggi, sembra ingenua ed eccessiva; eppure ci coinvolse tutti, come una nazione di peccatori, in quel mesto luglio inglese del 1966, nel giorno in cui la Nazionale indossò la sua più brutta divisa di sempre.