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Il pallone racconta: LA COREA (parte seconda)

di Stefano Bedeschi

“Mondino” è in crisi perché contro l’Unione Sovietica si è fatto male ad un ginocchio il suo pupillo “Giacomino” Bulgarelli, mezzala e cervello del Bologna. Per due giorni l’allenatore si aggira nel ritiro come Amleto, nascondendo la formazione. Nessun allenatore, con un briciolo di esperienza di un torneo intenso come un mondiale, avrebbe dei dubbi. Considerata la scarsa statura tecnica dell’avversario ed i possibili impegni futuri, chiunque rinuncerebbe subito a Bulgarelli, schierando un altro giocatore. In questo modo ne avrebbero vantaggio tutti: gli stessi due interessati ed anche i compagni di squadra che non verrebbero coinvolti in un problema che non ha ragione di esistere.
Questa della formazione a sorpresa è un’ossessione del tecnico azzurro, sempre più sorpreso dalla brutta piega della spedizione. Nell’ultima conferenza stampa prima della partita fatale, dice che non annuncerà la formazione. I giornalisti decidono, per protesta, di inventarsene una e di pubblicarla uguale su tutti i giornali. Pensano, però, di farla conoscere al C.T. ma, quando l’incaricato si avvicina alla sua cattedra col foglietto, Fabbri lo aggredisce, lo insulta, strepitando che non accetta suggerimenti. Il giornalista sale sulla cattedra e lo prende per il collo, i due vengono divisi a fatica.
Nessuno lo sa, ma i coreani hanno già fatto un brutto scherzo alle coronarie di “Mondino”: quello del pareggio in extremis col Cile. Anche questo è un episodio sconosciuto, che ricorda Fabbri dopo tanti anni. «Avevo già visto i coreani nella prima partita persa con i sovietici, ma per scrupolo andai a rivederli nella seconda contro il Cile. Mi portò in macchina un amico bolognese e, per non fargli fare tardi, a pochi minuti dalla fine gli dissi che potevamo andarcene. Il Cile era in vantaggio e controllava con sicurezza la situazione. Eravamo virtualmente qualificati per i quarti, anche nell’impensabile ipotesi di non conquistare neanche un punto nelle imminenti partite con URSS e Corea. Con quella vittoria, infatti, i cileni ci raggiungevano a quota due punti, ma con una peggiore differenza-goal e la prospettiva di sconfitta certa contro i fortissimi sovietici, nell’ultima partita. Feci il viaggio di ritorno tutto contento ed, arrivato a Durham, dissi ai ragazzi: meno male, ce l’abbiamo fatta, potremo incontrare russi e coreani senza troppe angosce, perché il Cile ha vinto. Vinto ???, mi fanno sbalorditi, guardi, mister, che si sbaglia: i coreani hanno pareggiato all’ultimo minuto, forse lei è uscito prima». Svela anche che «Valcareggi non osservò mai i coreani e non parlò mai, almeno con me, di “Ridolini”, è una leggenda metropolitana. Valcareggi osservò soltanto il Portogallo, nostro eventuale avversario nei quarti, e fu una missione inutile, visto che fummo eliminati».
L’atmosfera nel ritiro di Durham s’incupisce sempre più, con l’avvicinarsi della partita. Fabbri mette le mani avanti: «Nel gironcino siamo stati gli ultimi a cominciare, il 13 luglio, e siamo i primi a finire, il 19 luglio. Tre partite in sei giorni sono pesanti».
I coreani non immaginano nemmeno lontanamente di farci così tanta paura. La loro partecipazione al Mondiale è poco più che “folkloristica”; sono da mesi in giro per l’Europa, hanno fatto un lungo stage in Germania Est. Riposano malissimo, perché li hanno sistemati nell’albergo dell’aeroporto di Darlington, con aerei che atterrano e decollano a tutte le ore, non possono esporre bandiere e non hanno rappresentanza diplomatica, perché il Regno Unito non riconosce la Repubblica Popolare di Corea, brevemente detta Corea del Nord. In campo corrono tanto, molto, sempre, avventandosi in due o tre sull’avversario in possesso di palla. Fanno, insomma, quello che un giorno si chiamerà pressing, di cui i nostri allenatori, e men che meno Fabbri, non hanno la più pallida idea di cosa sia. Consumano molto “ginseng”, ma non è considerato doping.
Nella pungente e ventosa sera del 19 luglio 1966, non ci sono più di ventimila persone sulle tribune dell’”Ayresome Park” di Middlesbrough. Qualche migliaio i tifosi italiani, gli altri sono tutti inglesi e fanno, ovviamente, il tifo per gli outsider coreani. In tribuna d’onore, il capo-delegazione Franchi è l’unica “autorità” del calcio italiano. Un solo presidente di club: Nello Baglini della Fiorentina. Giuseppe Pasquale ascolta la radiocronaca in macchina, sull’autostrada, mentre viaggia da Bologna a Roma. In campo ritorna la formazione “del bel gioco”, con Rivera, Fogli ed il dolorante Bulgarelli, l’Italia indossa una maglia color carta da zucchero bigio ed i pantaloncini d’un malinconico nero.
Giocando a uomo, gli azzurri non hanno punti di riferimento contro i piccoli coreani che fanno un pressing velocissimo. Ciò nonostante, Perani in avvio tre clamorose palle-goals. Cede il ginocchio di Bulgarelli, temerariamente arrischiato, e l’Italia rimane in dieci, allora non erano ancora ammesse le sostituzioni. Rivera perde una palla a centrocampo e Pak Doo Ik, dentista e caporale di leva nell’armata di Pyongyang, infila con un preciso diagonale Albertosi: l’Italia va in tilt. Il secondo tempo, scandito dalla voce sempre più funebre di Nicolò Carosio, è una lenta, inesorabile marcia verso il patibolo, lo strenuo impegno non basta per raggiungere un pur mortificante pareggio: siamo fuori dal Mondiale !!!

Qualche tifoso italiano piange sulle gradinate, qualcuno scaglia la tromba in campo, qualche altro viene bloccato dai poliziotti, mentre scavalca le transenne per avventarsi sui giocatori italiani, i ragazzini inglesi vanno in tribuna stampa a sfottere i giornalisti italiani. In un bar di Milano Marittima, sulla riviera romagnola, la signora Fabbri deve scappare in lacrime: la conoscono tutti, ed i villeggianti, dopo la partita, cominciano ad inveire contro suo marito insultandolo.
Insulti volano anche nella sala stampa dell’”Ayresome Park”, che diventa una bolgia. Fabbri fa sapere che non parlerà, farà una relazione scritta alla Federcalcio. Parla, invece, Franchi: «Quando sono arrivato a Durham, alla vigilia della partita col Cile, ho trovato un ambiente tutto diverso da quello che avevo lasciato a Coverciano. Ho trovato giocatori che avevano paura, una squadra emozionata e tesa. Ho cercato di capirne il motivo, ma nessuno ha saputo dare una spiegazione convincente».
L’Inghilterra impazzisce per i coreani, proiettati verso un’avventura inattesa ed affascinante; addirittura tremila cittadini di Middlesbrough si mettono al seguito della nazionale della Corea per la disputa del quarto di finale previsto al “Goodison Park” di Liverpool, lo stadio dell’Everton. Qui, contro un’altra grande del calcio d’epoca, il Portogallo di Eusebio, i coreani sembrano rivelare una forza, una perizia ed un’energia che loro stessi ignoravano di possedere: ad un certo punto della partita, la Corea conduce addirittura per 3 a 0, tutto il mondo è stupito. Ma a quel punto entra in scena Eusebio. Al momento è lui il miglior giocatore del pianeta, alla pari con “O’ rey” Pelè: prende letteralmente la partita nelle sue mani e decide di restituire al mondo calcistico la sua logica naturale. Uno dopo l’altro ne infila quattro nella porta coreana, mentre gli asiatici, in confusione, invece che ritrarsi a ordinare le idee, continuano ad attaccare, in preda di un’incontrollabile frenesia. Alla fine i portoghesi segnano anche il quinto goal, gli equilibri si ristabiliscono, i coreani vengono applauditi, ma per loro sono pronti i biglietti per il volo di ritorno.
La rappresentativa della Corea del Nord venne accolta in patria come un manipolo di eroi. A tutti furono concessi onori e riconoscimenti materiali, case, pensioni, buoni impieghi nel campo dello sport, era il premio per aver portato a compimento una missione importante, ben oltre la dimensione agonistica: presentare al mondo il volto umano e civile di una dittatura permanentemente alla berlina.


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