Gli eroi in bianconero: Zlatan IBRAHIMOVIC
«Mia madre ha lavorato come donna delle pulizie; tanto e duro, come può fare solo una che ha una personalità molto forte. Mio padre fa il manutentore di uno stabile ed ha un orgoglio smisurato; non puoi aiutarlo in niente, non te lo permette. Deve essere per questo che un sacco di volte, anche da ragazzo, mi sono sentito dire “Zlatan Ibrahimović, tu non ascolti”. È vero; mi piace fare le cose da solo. Ma il tempo mi sta aiutando a capire che a volte si ha bisogno anche degli altri. Anche in campo. Il campo dove sono diventato calciatore è stato quello di un parco di Rosengard, il ghetto di Malmö. Pochi svedesi, molti stranieri: neri, arabi, musulmani, orientali. Ci si conosceva tutti, ci si aiutava tutti e soprattutto si giocava tutti i giorni, ma proprio tutti; i ragazzi arrivavano anche dagli altri parchi lì intorno e ognuno portava una cosa nuova, inventata oppure vista alla televisione. Un colpo, un tiro particolare, una finta. I miei maestri di strada sono stati due: Goran, un macedone, e Gagge, un bulgaro che toccava la palla come un brasiliano, aveva un anno più di me e giocò assieme a me nella Primavera del Malmö. Mi hanno spiegato un sacco di trucchi, mi hanno insegnato il piacere di far fare certe cose al pallone, di toccarlo in un certo modo».
ENRICA TARCHI, DA “HURRÀ JUVENTUS” DELL’OTTOBRE 2004
«Sono un vincente e sono qui per vincere!». Niente male come presentazione. Dietro a quel viso da ragazzino, Zlatan Ibrahimović nasconde la grinta di un leone e la voglia di salire sempre più in alto.
A 22 anni è già un idolo nazionale nella sua Svezia, ma si sente ancora a metà del cammino, sicuro che niente e nessuno potrà fermare questa sua rapida e inesorabile scalata. È un ragazzo semplice, Zlatan, anche se il suo nome, che si traduce con “oro”, è in realtà parecchio impegnativo.
Quando i tifosi italiani lo vedono arrivare al campo di allenamento per la prima volta, vestito con una maglietta e un paio di jeans, non subiscono certo il fascino quasi mistico che lo accompagna in Svezia e in Olanda, dove addirittura lo chiamano “son of god”, senza cadere nel blasfemo, visto che con god gli olandesi intendono il dio del pallone, ovvero Maradona. E questo suo apparire un “ragazzo normale”, se vogliamo, è un aspetto assolutamente positivo e incoraggiante, perché significa che Zlatan non è un “personaggio” come lo può intendere la massa e che, se suscita questa incredibile passione, vuol dire che è proprio bravo, che fa qualcosa di eccezionale.
Raccontano addirittura che i suoi ex compagni durante l’allenamento a volte gli chiedevano di smettere di trattare il pallone come se fosse il prolungamento del suo piede, un qualcosa di personale, che giostra come vuole, facendo sfigurare chi gli sta a fianco.
Dalla leggenda alla realtà: «È vero che mi piace molto giocare la palla – racconta – però e anche vero che lavoro per la squadra, che mi alleno duramente perché so che ho ancora da migliorare e lo posso fare, soprattutto qui in Italia, soprattutto alla Juventus, il top dei top, soprattutto con un allenatore come Fabio Capello, un vincente in assoluto, che ha saputo portare a casa vittorie ovunque sia andato».
Le dichiarazioni di Zlatan non sono banali. Se lette attentamente, lasciano trasparire qualcosa di particolare, sono un mix di quello che normalmente dice il ragazzino che arriva alla Juventus e quello che dichiara un campione affermato alla sua prima volta in bianconero. È significativo tutto ciò, perché in Zlatan c’è contemporaneamente la consapevolezza dei mezzi e la voglia di crescere. Si rende conto che lui può dare tanto alla Juventus e la Juventus può dare tanto a lui, è l’incontro di due entità vincenti, una miscela esplosiva che, come si augurano i tifosi, ha tutte le caratteristiche per portare vittorie.
«Lo scudetto, la Champions League, voglio vincere tutto con questa squadra – spiega Zlatan – So che il campionato italiano è molto difficile, ma io credo di avere alle spalle una buona esperienza, maturata nei club in cui ho giocato e in Nazionale, quindi non mi spavento di fronte a nulla. Sono pronto».
Eccolo, Ibrahimović, fiero e sicuro di sé. D’altronde non poteva essere diversamente, visto che è riuscito a emergere, fin da piccino, grazie a queste sue doti che lo hanno trasportato dai campetti di quartiere di Rosengard fino all’Amsterdam Arena.
Zlatan, figlio di madre croata, la signora Jurka, e di padre bosniaco, il signor Sefik, nasce a Malmö in Svezia il 3 ottobre del l98l. Vive la sua infanzia in un quartiere periferico, popolato per la maggior parte da immigrati dai Balcani. Quando ha 10 anni, e da almeno la metà calca i campetti di periferia, gioca nel Balkan, squadra di immigrati slavi, più grandi di lui. Simpatico e soprattutto significativo quanto accade un giorno, durante una partita tra dodicenni. Zlatan è in panchina e la sua squadra perde 4-0. Nella ripresa entra in campo e segna 8 gol. Finisce 8-5, tra le proteste degli avversari che si chiedono chi sia questo “marziano”, sicuri che come minimo abbia un paio di anni in più di loro. In effetti gli anni di differenza sono due, ma in meno!
Qualche tempo dopo il ragazzo prodigio viene notato dal Malmö, che lo inserisce nelle sue giovanili. Il salto in prima squadra avviene nella stagione 1998/99. Dopo tre campionati giocati con la maglia del Malmö e l’ingresso, a 19 anni, nel giro della nazionale svedese, Zlatan viene acquistato dall’Ajax, che lo aveva seguito con attenzione notandone le straordinarie potenzialità. «Con i lancieri ho vinto due campionati, una coppa e una supercoppa d’Olanda. Ringrazio questo club e l’allenatore Ronald Koeman che mi hanno aiutato a crescere e migliorare giorno dopo giorno».
Proprio l’Ajax è stato il suo primo avversario europeo con i bianconeri «ma – spiega – questo non mi ha creato nessun tipo di problema, anzi. La Juventus è il presente e il futuro, in ogni caso è stato bello incontrare la mia ex squadra».
Ajax e Juventus, forse era destino, visto che quando gli si chiede se gli era capitato di vedere in tv la sua nuova squadra risponde subito: «Ricordo la finale dei bianconeri contro l’Ajax del 1996». Guarda caso... Poi prosegue, raccontando qualcosa di sé: «In generale mi piace guardare lo sport in tv, ho seguito le Olimpiadi. Pratico invece un po’ di tennis nel tempo libero. Amo la musica, di tutti i tipi, e il cinema, in particolare i film d’azione. Tra le pellicole che preferisco c’è “Scarface”. Per il resto mi piace tutto quello che può piacere a un ragazzo di 22 anni, compresa la playstation».
Zlatan parla poco di sé, sia come persona sia come giocatore: «Cosa posso dire? Ho rispetto per le persone ed esigo che gli altri facciano altrettanto. Sono molto legato alla famiglia, sono una persona decisa, che ama vivere la vita. In campo posso solo dire che do il massimo, mi alleno con impegno e adoro giocare».
Bando alle parole, dunque. Ibra è un ragazzo da capire attraverso quello che fa e quello che fa con il pallone è davvero eccezionale. I paragoni, da Van Basten a Maradona si sprecano. E proprio il “pibe de oro” è il suo grande modello: «È stato un campione straordinario, chiunque ama il calcio ama Maradona, una vera leggenda».
Come si diceva, la sua popolarità è incredibile, anche sulla rete, dove spuntano in ogni dove siti di appassionati e tifosi, mentre lui in realtà ancora non possiede una pagina Web ufficiale. Tutto questo Zlatan riesce a gestirlo con estrema semplicità. Sentite cosa risponde quando gli si chiede quanto peso abbia questa sua fama nella vita quotidiana: «Io cerco sempre di essere me stesso e di ricavarmi una certa libertà nella mia vita privata, perché voglio tentare di vivere il più possibile come un ragazzo qualunque di 22 anni. È vero che si sente la pressione dei tifosi, ma a me fa piacere, ci ho fatto l’abitudine e quindi ci convivo benissimo. Dicono che Torino è una città tranquilla, sia come fans sia come vita: credo che sia l’ambiente ideale per giocare bene a calcio. La stampa? Innanzi tutto il fatto di non leggere molto i giornali forse mi agevola, comunque l’unica cosa che spero non venga mai a mancare da parte della critica è il rispetto».
Dopo un corso accelerato di italiano, lingua che non conosce ma che presto andrà ad aggiungersi a svedese, olandese, croato e inglese nel suo personale vocabolario, Ibra avrà modo di fare il suo primo approccio con la stampa italiana, alla quale ha voluto chiarire una curiosità legata al nome che porta sulla maglia numero 9, da sempre indossata ed ereditata in bianconero da Fabrizio Miccoli: «Il nome che porto da sempre sulla casacca da gioco è Ibrahimović. Un giorno, però, quando ero all’Ajax, decisi di cambiare. Visto che il mio compagno Mido, che ora è andato alla Roma, utilizzava questo nome, decisi di mettere Zlatan perché era altrettanto corto, ma fu solo per gioco. Sulla mia maglia vedrete sempre Ibrahimović, per rispetto nei confronti della mia famiglia, dei miei genitori».
Che di Zlatan sono i primi tifosi.
Nonostante porti il 47 di scarpe e la poderosa stazza è capace di giocate di grande agilità e di grande classe, che valgono, da sole, il prezzo del biglietto. In possesso di un ottimo tiro, agisce sovente da punta di movimento per consentire ai compagni di squadra di inserirsi in fase offensiva.
Non è fortissimo di testa e, spesso, eccede in intemperanze, dovuto al carattere abbastanza focoso, che gli costano parecchi cartellini gialli; ma, tutto sommato, si rivela uno dei più forti attaccanti del mondo: «Per me provare un colpo di tacco è una cosa naturale. Dipende dalle situazioni, certo; ma se posso farlo, perché non farlo? Io non gioco per prendere in giro chi mi sta di fronte; semplicemente, a volte è la soluzione più rapida, più comoda. Prendete quel gol che feci all’Italia, nell’Europeo del 2004; se avessi dovuto fermare la palla, girarmi e tirare, Buffon l’avrebbe parata e anche facilmente. Così, usando il tacco, ho messo tutte quelle cose in un colpo solo e Buffon non l’ha parato. Mi fa ridere chi ancora oggi dice che quel gol mi era venuto così, per caso, che non l’avevo fatto apposta; sapevo cosa facevo, certo che lo sapevo».
La prima stagione in bianconero è strabiliante. Segna subito, alla prima giornata, contro il Brescia; è un errore clamoroso del portiere bresciano, ma fare gol all’esordio non è da tutti. Realizza anche nella partita successiva, contro il Palermo; si ripete contro il Chievo, la Reggina, l’Inter, la Lazio, il Parma, il Livorno e l’Udinese. Sembra che non riesca a smettere di segnare; realizza una doppietta a Firenze e una tripletta contro il Lecce di Zeman.
Purtroppo, il suo pessimo carattere gli gioca, spesso, dei cattivi scherzi. Nella partita casalinga contro l’Inter, è scoperto dalle telecamere mentre colpisce Cordoba a palla lontana; la prova TV è inflessibile e Ibra è squalificato per tre giornate, l’ultima delle quali nello scontro scudetto contro il Milan. Termina il vittorioso campionato con una rete di testa, contro il Parma, nella partita che, praticamente, consegna il titolo alla Juventus. Incredibilmente, in Coppa dei Campioni non realizza nemmeno una rete, nonostante le 10 presenze. Comunque sia, totalizza 46 presenze e 16 realizzazioni.
Nel campionato italiano è sempre difficile confermarsi e Ibra non sfugge a questa regola: le presenze saranno 40, mentre le reti solamente 10. Ma è tutta la Juventus a non brillare, nonostante arrivi lo scudetto numero 29; nella partita casalinga contro l’Arsenal, che costa l’eliminazione dalla Coppa Campioni, la squadra è contestata furiosamente e nemmeno Zlatan è risparmiato. Anzi, è messo sul banco degli imputati, accusato di scarso impegno; Ibra non la prende bene e, nell’ultima partita casalinga contro il Palermo, dopo aver realizzato la rete del 2-0, mostra le orecchie al pubblico, in atto di sfida.
Nell’estate del 2006, decide di non seguire la Juventus in Serie B e si trasferisce all’Inter, insieme a Patrick Vieira. Termina così, in modo poco glorioso, l’avventura di Zlatan con la maglia bianconera.
«Per vincere il Pallone d’Oro, un giorno, dovrò lavorare ancora tanto. Non dico che non mi piacerebbe, perché un premio così è una prova, vuol dire che sei forte. Dico che non ci penso troppo e, soprattutto, che non ne voglio parlare troppo. Il mio idolo è sempre stato Muhammad Ali, perché era perfetto nel suo saper fare quello che prometteva; se diceva che avrebbe buttato giù un avversario in quattro riprese, dopo quattro riprese quello era per terra. Nessuno ha mai potuto dire che Mohammed Ali era uno che parlava e basta. Ecco, un giorno vorrei che si potesse dire la stessa cosa di Zlatan Ibrahimović. E per questo prometto quello che posso; al massimo, come succedeva a volte con Cannavaro, di fare due tunnel ai difensori avversari e un gol. E di giocare sempre il mio calcio: perché se non giocassi così, non sarei Ibrahimović».
STEFANO CORSI, DAL LIBRO “I NOSTRI CAMPIONI”
Tecnicamente non lo si discute. Chi lo ha paragonato a un jazzista ha visto giusto, perché davvero è l’improvvisazione la sua cifra distintiva. Mentre i compagni svolgono il compitino suggerito dallo spartito, lui può, in qualsiasi istante, inventare l’assolo decisivo, sia esso un assist che smarca il compagno davanti alla porta, sia il colpo di tacco imprevedibile che sorprende il portiere avversario e sigla una rete da antologia, sia il tiro squassante da fuori. Tutte cose che gli abbiamo visto fare con una certa frequenza e una facilità impressionante. Del resto, non fosse un campione di primissimo lignaggio, difficilmente avrebbe vinto tutti quanti i campionati disputati nel nostro paese, alcuni quasi da solo.
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