Gli eroi in bianconero: Salvatore JACOLINO
Il testimone non è reticente e ha visto tutto – afferma Andrea Aloi sul “Guerin Sportivo” del 2-8 maggio 2001 – rivolgimenti nel calcio pensato con la Ternana-monstre di Corrado Viciani e tempeste perfette nel calcio giocato senza avere le spalle protette da un procuratore, saliscendi nel costume e nella società, campioni mai sommersi dalla polvere e faticatori da campo che solo la memoria può strappare dalle sabbie mobili del tempo. Salvatore Jacolino era un germoglio di bimbo quando suo padre Pasquale, nell’anno di fuga dalla miseria 1951, salì da Agrigento a Torino. Una moglie, otto figli equamente divisi fra maschi e femmine, un mestiere da fabbro. Era la primissima emigrazione del secondo dopoguerra, gli operai-massa da incasellare nella filiera della città- Fiat sarebbero saliti sui treni della speranza all’inizio degli armi Sessanta, col boom. «Papà è mancato tre mesi fa. Lavorava pesante, manteneva tutti ed è stata dura soprattutto per lui. Per il resto funzionò bene fin da subito, dipende da come uno la vive ‘sta cosa dell’emigrazione».
E da come si decide di stare al mondo. Salvatore è un cinquantenne fiero, c’era da andare e partiva, si affacciava un’occasione e ci metteva il cuore. Gomiti bassi, tanti amici a Torino, dove vive, e nella Juve, una fucina che l’ha plasmato e poi gli ha riaperto le porte, quando a carriera esaurita da nobile metallo è diventato lui uno dei maestri alla forgia nel settore giovanile, per diciotto anni. «Quando entrai alla Juventus era il 1959. Conobbi un gruppo di ragazzi fantastici, Castelli, che ha giocato in C, Bettega, che è rimasto un’ottima persona. Ogni mese ci rivediamo per la cena della classe 1950, tiriamo fuori le vecchie storie, i tornei in giro, i casini che combinavamo nelle stanze. Sono partito dagli esordienti e andato avanti, ho fatto tutta la trafila delle Nazionali juniores e nel 1969-70, ero alla Primavera, giocavo il campionato della De Martino però venivo quasi sempre aggregato alla prima squadra, allenata da Rabitti, che mi aveva allevato. Il mio ruolo era centrocampista offensivo, più o meno un trequartista».
Una presenza in A, nel torneo vinto dal Cagliari. Cuccureddu, Bob Vieri, Anastasi, Del Sol, Jacolino: «Era l’ultima giornata, a Bari, avevo l’11 perché Rabitti dava quel numero a chi giocava a ridosso delle punte. Un’altra partita la giocai in autunno, Coppa Italia, a Bologna. Io contro Scala e Bulgarelli, Boniperti mi fece i complimenti e ho conservato il ritaglio di Tuttosport col titolone “È nata una stella”. Vero eh, l’ho conservato».
La sfida con le squadre di vertice è restarci. Quella Juve è una piccola fabbrica di meteore: “brucia” Lamberto Leonardi, ala di un certo spicco alla Roma e al Varese ma sparita in bianconero, prova il giovane terzino Paolo Viganò, che successivamente passerà alla Roma, al Palermo e alla B, tasta il polso all’enfant du pays Elio Rinero, un jolly presto destinato alla cadetteria. Jacolino, appena ventenne, accetta di buon grado la C. «L’allora manager Italo Allodi, un grande, mi consigliò di andare a Piacenza in prestito: “Ci lavora nello staff il mio amico Casati, con lui farai ottime cose, sta costruendo una squadra apposta per te”. L’annata andò così e così, ci salvammo a malapena. Il 1971-72 partì l’avventura con la Ternana. Venni a sapere che ero stato ceduto in comproprietà dalla radio, negli ultimi cinque-sei minuti di calciomercato. Longobucco alla Juve, Jacolino, Mastropasqua e Brutto alla Ternana. La Juve aveva promesso di piazzarmi almeno in B e aveva mantenuto la parola. Andai, sapendo di dovermi conquistare il posto».
I “senatori” lo accolgono bene e l’integrazione fila liscia grazie a Marinai, Cucchi, Cardillo. La squadra punta alla salvezza, finirà in testa, vincendo diciotto partite, con quattordici pareggi e solo sei sconfitte. Ecco la A, traguardo storico firmato Viciani: «Arrivato a Terni mi accorsi che il calcio stava cambiando pelle, si lavorava in modo diverso. Viciani era un ex farmacista... no, solo roba lecita, vitamine. Era un perfezionista, un patito della parte atletica e in anticipo di vent’anni pure nella parte tattica. Per quanto riguarda la preparazione adottavamo l’interval training, allunghi sui cento metri in tre serie da cinque in tempi ristretti. Questo per dieci-quindici giorni di fila, dopo la settimana di capillarizzazione in montagna».
Ovvero corsa lenta e continua per raggiungere la migliore vascolarizzazione. E il famoso “gioco corto”? «Un calcio modernissimo. Viciani voleva la squadra stretta e il fuorigioco alto: a comandare la difesa pensava Mastropasqua. Una ragnatela di passaggi corti coi giocatori raggruppati in quindici-venti metri, triangolazioni brevi e veloci, così voleva Viciani ed era una novità. Correvamo più degli altri e sorprendevamo tutti coi fraseggi, perfetto per me che tecnicamente ero valido. Si giocava a zona, un 4-4-2 oppure 4-4-1-1 e in quel caso io facevo la mezzapunta a ridosso dell’attaccante».
La Ternana del prodigio sbarca in A nel 1972-73, la piazza vive di calcio, è coinvolta e per i vecchi tifosi veder entrare in campo al Liberati Milan, Inter e Juve sembra un sogno. Il risveglio è da cerchio alla testa: «La società non aveva grandi risorse, poteva spendere poco e in A giocarono i nove undicesimi della squadra di B».
Tattica, sudore: non bastano, la Ternana vince appena tre volte, in casa, e termina in ultima posizione. «Furono le mie prime partite consecutive in A, quattordici in totale, con un gol solo, al Palermo. Al termine del girone d’andata mi strappai gli adduttori, a destra e a sinistra: giocavamo in casa, contro la Sampdoria di Heriberto Herrera. Il guaio è che mi curarono come per una pubalgia, girai per provare a guarire tutta l’Italia e rimasi fermo un anno, un anno intero di passione».
Jacolino incontra al Brescia il medico giusto, o perlomeno uno che indovina dove sta il problema, e guarisce: «Come ricominciare da capo, in B. Rimasi tre anni e diventai capitano».
Dal 1973 al 1976 c’è modo anche di sposarsi, «con Maria Teresa, una ragazza di Torino, abbiamo due figlie, Silvia e Laura. Arrivai alla Nazionale di B, coi vari Pruzzo, Ranieri, Del Neri, una bella rivincita. Qualche aspetto meno piacevole venne fuori al terzo anno di Brescia, stava crescendo Beccalossi e Angelillo, l’allenatore, diceva che non potevamo coesistere. Ci provammo e non funzionò. A quel punto Angelillo decise il mio trasferimento e fu un divorzio non troppo morbido, anzi, polemico. Per carità, nulla da dire su Angelillo allenatore, comunque a livello umano si mostrò poco disponibile a darmi spiegazioni. Nel calcio va così, quando bisogna fare delle scelte... Mi escluse dalla rosa e nel novembre del ‘76 mi scambiarono con Aristei e mi toccò la Spal. Chiariamo: Beccalossi era più bravo di me, assolutamente, ero buono anch’io, in B dicevo la mia, Evaristo era già un fuoriclasse a sedici anni».
Metà anni Settanta, un altro mondo, un’altra Italia che archivia definitivamente il periodo post-bellico e si scopre incasinata e vitale, mutata nei costumi e nella mentalità, metropolitana e meno succube della parrocchia. Sensibile alle mode. Per il casting di un suo spaghetti-western, Sergio Leone avrebbe dovuto pescare tra le formazioni dell’epoca: ai Massimo Palanca coi ricci e i baffoni, Antonio Logozzo dai capelli pece, Giorgio Braglia full optional con la chioma spiovente, mustacchi e barba sarebbero stati perfetti. Di facce da mezzosangue messicani, esplosioni pilifere incontrollate, occhi tra il furbo e il patibolare il nostro campionato ne offriva, in abbondanza.
Nel film di Jacolino non si spara, si patisce: «Alla Spal fu un anno maledetto, con una girandola di allenatori e la retrocessione in C. Questa è curiosa: un bel momento sostituirono Guido Capello con Ottavio Bianchi, che così divenne allenatore e giocatore e dopo cinque o sei partite fu esonerato da tutti e due i ruoli. Provarono con Suarez, inutile. Allora la disciplina tattica non era importante, a parte i casi come Viciani, chi aveva i giocatori forti vinceva le partite, si improvvisava. Adesso un buon collettivo permette ottimi campionati. Mi proposero di rimanere, ma con l’ingaggio dimezzato per la retrocessione non ce l’avrei fatta a vivere a Ferrara con moglie e figlia appena nata, era una città cara, pagavo in affitto trecentomila lire al mese, son tanti soldi, e non potevo permettermelo. Tornai a Torino».
Salvatore si tiene in forma grazie a Rabitti che lo aggrega alla Primavera del Toro e una mattina, a novembre «vennero a casa mia l’allenatore e i dirigenti della Biellese per propormi un triennale. Accettai e nel mio piccolo son stati anni molto belli, segnai parecchi gol. Un po’ mi sentivo dimenticato. L’anno in cui ero andato via da Brescia avevo avuto richieste da Lazio e Catanzaro, che giocavano in A, avevo scelto Ferrara perché il contratto non era male... Ormai il mio momento era passato».
A trentuno anni, qualche squadra di C gli fa ancora la corte. Ma Jacolino è tornato a casa, in tutti i sensi: «Alla Juve mi dissero che era il momento buono per entrare, stavano ringiovanendo il parco allenatori. Scelsi bene».
È il 1981, partenza coi Giovanissimi, fino alla Primavera, che guiderà per sei anni complessivi. A contatto con Trapattoni, Marchesi, Maifredi, Lippi: «Il Trap mi mandava in giro a vedere le partite di Uefa e Coppa Campioni, nel 1989, l’anno in cui morì Scirea in Polonia, girai parecchio. Ricordo che Gaetano mi chiedeva libri e librettini per poter studiare da allenatore, gli avevo dato i miei appunti. Con Lippi ho uno stupendo rapporto di amicizia, l’ho seguito a Châtillon al ritiro della prima squadra».
Da pulcino a mister e il cerchio si chiude: «Tre anni fa ho lasciato la Juve per andare ad allenare la Viterbese in C2. La situazione era complicata, allo sbando: trovai in ritiro quattordici giocatori e mancavano addirittura i palloni. Però si suppliva con l’entusiasmo, coi giocatori il rapporto era buonissimo, avevo Liverani, un ragazzo stupendo. A novembre eravamo quarti, Gaucci comprò la società e ci mandò tutti a casa. Mai ricevuto uno stipendio... Da allora ho detto basta, son rimasto scottato. E sto alla finestra, non ho smania di rientrare, mi dedico di più alla famiglia».
Quarant’anni li ha passati in pista, quasi quasi verrebbe da credergli.
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