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Gli eroi in bianconero: Raimundo ORSI

di Stefano Bedeschi

Alle Olimpiadi di Amsterdam, 1928, l’Argentina era arrivata seconda dietro l’Uruguay. La Stella di Amsterdam era stata l’ala sinistra della Nazionale del Plata: tutti dicevano che quell’Orsi era un uomo prodigioso e la Juventus decise di assicurarselo. I giornali di allora non pubblicavano fotografie; non esisteva la televisione, perciò vi era grande attesa (non soltanto a Torino) di vedere in carne e ossa quel fenomeno. Lo si immaginava un tipo grande e grosso, pieno di muscoli, con una grinta feroce; invece, quando arrivò con il piroscafo a Genova, si vide che era tutto il contrario, con grande sbalordimento degli juventini, che si credettero presi in giro.
Raimundo, Mumo come fu subito chiamato, era piccolino, magro e stretto di spalle, con una vita da sartina, un naso a becco che non finiva più, i capelli lucidi di brillantina con la riga da una parte e due occhi da furetto. Per di più portava un soprabito troppo corto e strettissimo, che, aveva rubato a un fratello minore.
Poi si seppe anche che suonava il violino, che faceva le ore piccole a eseguire tanghi lacrimosi, che sentiva tanta nostalgia per la patria lontana e si concluse che sarebbe stata una grande delusione. In più c’era un fatto decisivo; gli stranieri, anche se di origine italiana, cioè Oriundi, non potevano essere ammessi al campionato. Si trovò, comunque, una formula accomodante: Orsi non avrebbe giocato per un anno. Una specie di purgatorio. Ma la Juventus lo pagava ugualmente: 100.000 lire di ingaggio. 8.000 al mese (lo stipendio di un ammiraglio) più un’auto Fiat-509, di quelle con la ruota di ricambio appesa dietro, sul portabagagli.
Questo avveniva durante l’ultimo campionato a doppio girone, cioè nel 1928-29, vinto dal Bologna. Orsi lo si vedeva solo in allenamento e dopo la partita di campionato della domenica. La gente si fermava per vederlo, piena di curiosità e di scetticismo. E così Orsi cominciò a sbalordire. Qualche corsetta per il campo, poi si esercitava a tirare in porta dall’angolino del corner. Almeno otto volte su dieci il pallone si alzava con molle parabola, veleggiava, rientrava, si ficcava in rete sotto la traversa. Nessuno aveva mai visto una cosa simile.
Terminato l’anno di quarantena, Mumo poté debuttare in bianconero e fu subito convocato in Nazionale. Giocò 194 partite in prima squadra, fu settantadue volte in Nazionale (tra Argentina e Italia), e Campione del Mondo nel 1934. Nella Juventus segnò ottantotto reti, in tutti i modi: di destro, di sinistro, con il ginocchio, di testa (poco, per non sciuparsi la pettinatura), dopo una galoppata da solo o in mischia furibonda; segnò anche con il sedere, voltando la schiena alla porta, su passaggio a mezz’altezza di Giovanni Ferrari, con il quale si intendeva alla perfezione. Segnò anche su rigore, perché l’incaricato del tiro dagli undici metri, nella Juventus, era proprio lui, contrariamente all’abitudine vigente in quell’epoca, in cui il rigore veniva tirato dai terzini, che erano per tradizione tipi spazza tutto, dalla cannonata micidiale.
Il grande Bertolini, altro juventino pluri scudettato e Campione del Mondo, che ebbe la fortuna di essere il mediano dietro a Mumo, disse un giorno: «Orsi è assolutamente imprendibile. Quando era in vena e aveva voglia (non sempre) faceva cose strabilianti. Mai visto un giocatore come lui».
Rincara la dose Baldo Depetrini: «Credo che Mumo sia stato l’ala sinistra più forte di tutti i tempi, senza limiti di età. Aveva scatto, velocità, un perfetto controllo della palla e disponeva di un dribbling e di un repertorio di finte di corpo che, da allora, non ho mai più riscontrato in un attaccante».
Fermava il pallone di botto, lo lasciava lì in mezzo, davanti all’avversario, immobile. Lo stadio piombava in un silenzio esterrefatto, astrale. Orsi muoveva appena l’anca, il terzino abboccava, finiva a terra, Mumo era già lontano, naso al vento. Che cosa gli mancava, per essere perfetto? Forse un poco di grinta, fuggiva dalle entrate decise, probabilmente perché non aveva la potenza di un Caligaris o la stazza di un Monti. Ma sarebbe sciocco pretendere da Paganini che suoni anche la grancassa.
Se ne andò dalla Juventus nella primavera del 1935, ai primi sentori della guerra in Etiopia. Inutilmente Bertolini gli disse: «Guarda che sei un fesso. Cosa torni in Argentina, mentre qui c’è gente che ti sgancia i biglietti da mille come fossero noccioline!»
Scrive un giornale, nel maggio del 1935: «Orsi è partito domenica per Buenos Aires e probabilmente non tornerà più. Se ne sarebbe andato quasi certamente a fine stagione, ma la malattia di sua madre lo ha indotto a partire prima, con il consenso dei dirigenti juventini, che lo hanno festeggiato offrendogli anche un vistoso ricordo. Orsi ha così chiuso la sua carriera, eccezionalmente gloriosa, perché oltre all’avere conquistato cinque volte il titolo di campione italiano ha anche vinto il Campionato del Mondo e la prima Coppa Internazionale».
Ci lascia nel 1986; con lui scompare uno dei più grandi calciatori di tutti i tempi, ma anche un grande personaggio, per quanto di affettuosa simpatia ha espresso durante la sua vita.

VIRGINIO ROSETTA
Mumo era un personaggio divertente, pronto a fare scherzi e ad accettarli, molto superstizioso e un vero maniaco della scommessa; scommetteva sulle vittorie della Juventus, concedendo vantaggi esagerati, scommetteva che personalmente avrebbe segnato un goal, scommetteva al ping-pong, al tennis giocato con il palmo della mano, al biliardo e, se eravamo al bar Combi, scommetteva sulla prima macchina che si fosse presentata con il numero di targa che finisse con cifra pari o dispari.
Una volta, in vettura ristorante, naturalmente si stava mangiando, Orsi era seduto al mio fianco e di fronte a lui sedeva un nostro amico tifoso che, abitualmente, ci seguiva nelle trasferte: Durando. Cosa propose Orsi a questo signore? «Tutte le volte che il suo accendisigaro si accenderà, io pagherò a lei 5 lire (somma allora favolosa) che lei invece pagherà a me in caso contrario».
Quel signore aveva una macchinetta quasi nuova di zecca e non voleva accettare la scommessa, perché troppo sicuro di vincere; ma Mumo insistette e il gioco incominciò. Al primo colpo si accese e Orsi pagò le sue brave cinque lirette; al secondo, al terzo e al quarto colpo non si accese. «Sei troppo nervoso ragazzo», gli disse Orsi. Anche il quinto colpo fallì fra l’ilarità generale, perché oramai tutti erano attorno al nostro tavolo a godere lo spettacolo. Il gioco continuò ancora, ma raramente quel signore riusciva ad accendere la sua macchinetta e cominciava ad accalorarsi. Ma finalmente si mise a ridere di cuore; aveva capito lo scherzo. Mumo gli soffiava sulla macchinetta tutte le volte che aveva deciso di vincere ma, naturalmente, non tirava troppo la corda e gli permetteva di vincere qualche volta. Con il ricavato della vincita Orsi offrì i liquorini a nome di quel signore.

UMBERTO MAGGIOLI, DA “HURRÀ JUVENTUS” DELL’OTTOBRE 1965
Chi lo ha conosciuto può fondatamente asserire che Raimundo Bibiano Orsi, o più brevemente «Mumo», era quel che si dice un bel tipo: franco, gioviale, simpatico. Destava cordialità a prima vista, con quella sua aria di longilineo che lo faceva sembrare un po’ gracile, ma non lo era. In effetti, era di costituzione abbastanza robusta e ben muscolata che lo faceva resistente alle cariche, anche le più energiche, che però cercava costantemente di evitare. E sapeva evitarle con abilità quasi diabolica.
Quando giunse fra noi, preceduto dalla recente e clamorosa fama sportiva derivante dalle sue gesta calcistiche di «nazionale» argentino e di ammiratissimo calciatore olimpico, la sua maniera di vestire fin troppo ricercata fece sorridere un po’ tutti. Non che fosse ridicolo, tutt’altro, poiché vestiva impeccabilmente alla moda argentina di quel tempo: quella dei giovani instancabili danzatori di tango del famosissimo «Caminito» bonearense. Moda scesa direttamente nell’America del Sud dagli Stati Uniti, dove aveva imperversato nel periodo dei cosiddetti «roaring ninentieth», cioè dei ruggenti anni ‘90; moda che, come ci aveva raccontato il nonno, da noi non aveva attecchito granché, ma sulle rive del Plata evidentemente sì, tanto che ancora la seguivano. Era la moda dei «guies», ossia dei bulletti di Manhattan. Giacca attillata, con la vita lunga, e pantaloni un poco inverosimili: fatti a tubo e molto stretti: tanto che, si pensava, non potessero infilarsi come tutti i calzoni di questo mondo, ma che si fosse costretti a saltarvi dentro al mattino, subito levati di letto.
Era una moda forse bellissima, solo che era quella di... trent’anni prima, e «Mumo» le era ancora fedele. Solo dopo un po’ di tempo che era a Torino si aggiornò; ma rimase sempre un «figurino».
Aveva la parola facile e si esprimeva con discreta chiarezza nella sua madrelingua italiana, inframmezzandola a volte con qualche tipico sprazzo di spagnolo; era propenso agli scherzi, anche se in talune circostanze magari inclini a una certa pesantezza. Abilissimo in qualsiasi gioco di destrezza, sia a sfondo atletico che con le carte; nel tennis da tavolo era imbattibile, ed anche in quello vero, sul «court», se la cavava niente male.
Una sua caratteristica piuttosto curiosa fu la seguente: ala sinistra tra le più famose era un «destro» naturale e il suo «vero piede» era appunto il diritto: così nel foot-ball come in qualsiasi altro esercizio. Però sapeva usare il piede sinistro del tutto come l’altro, così come si addice a un vero calciatore degno di tal nome. Non è davvero azzardato affermare che, nel periodo del suo più elevato splendore Raimundo Bibiano Orsi, nato a Buenos Aires nel settembre del 1901 da genitori figli di emigrati italiani, è stato la più grande ala sinistra del vecchio e nuovo mondo. In Argentina aveva avuto un predecessore che era stato l’estremo sinistro di maggiore classe e abilità negli anni nei quali in Argentina si delineava il trapasso fra il regime dilettantistico e quello professionale, ossia, all’incirca, nell’epoca del primo conflitto mondiale. Gli studiosi della storia calcistica ben lo ricordano: era Candido Garcia, calciatore che con il piede sinistro sapeva trattare la palla come nessuno in quel tempo. Tanto che i tifosi gli coniarono un soprannome esplicativo. Fu, infatti, «el poeta de la zurda», e tale ultima parola, nel gergo calcistico del paese, è appunto il piede – «la pierna» – sinistro. Si affermava in quel tempo in tutta l’America del Sud che Candido Garcia con quel suo piede mancino avrebbe potuto suonarci la chitarra, e magari l’arpa. Nella lingua spagnola esiste un verbo neutro caratteristico: «zurdear», che Garcia sapeva coniugare a meraviglia, così come Dominguin, Ordofiez, «El Cordobés» sanno «torear».
«Mumo» sapeva «zurdear» come Candido Garcia che lo precedette, ed anche come Loustau, altra ala sinistra famosa, del River Plate, che laggiù prese presto il suo posto in Nazionale e nel cuore di tifosi. «Mumo» Orsi non sapeva soltanto «zurdear» ma sapeva anche adoperare il piede destro con eguale maestria e osservandolo giocare non si notava alcuna differenza tra l’uso dell’uno e dell’altro piede, caratteristica che denota l’autentico fuoriclasse del calcio.
Si era formato nelle file dell’Independiente, la grande società sorta a Buenos Aires nel «barrio», ossia del porto, popolato da gran numero di immigrati italiani. Aveva seguito tutta la trafila del periodo formativo, dai «biberon» e poi, via via, promosso alla «quarta Especial», cioè corrispondente ai nostri juniores, sino alla chiamata in prima squadra. Era già stato varie volte Campione d’Argentina e aveva poi conquistato il ruolo fisso di ala sinistra della rappresentativa nazionale «bianca e azzurra» disputandovi decine e decine di partite internazionali, vincendo anche la «Coppa Roca», torneo importantissimo fra le Nazionali dei paesi dell’America del Sud; sino alle Olimpiadi del 1928 ad Amsterdam, nel corso delle quali tecnici, giornalisti e avversari lo avevano proclamato migliore elemento della competizione. Venne così alla Juventus come «stella di Amsterdam», e vi giunse, logicamente, non più giovanissimo, di primo pelo. Nato, come già scritto, nel 1901, la società lo acquistò nel 1929, e la nostra Federazione lo classificò quale «oriundo». Dapprincipio disputò in maglia bianconera soltanto le partite amichevoli, destando subito entusiasmo per la sua bravura.
In campionato giocò la prima gara nel torneo 1929-30, contro il Napoli che, alla fine del primo tempo, vinceva per 2 a 1 ma terminò sconfitto per 3 a 2. La Juventus per averlo gli aveva offerto ottime condizioni, con uno stipendio – che egli volle corrisposto in «pesos» – che si aggirava, allora, sulle seimila lire mensili. Pozzo, che lo conosceva bene, non esitò neppure un istante a chiamarlo nelle file «azzurre». Come figlio di italiani nato all’estero beneficiava del diritto di mantenere la doppia nazionalità argentina e italiana, secondo la convenzione redatta tra i due governi nel 1886, e il relativo possesso dei due passaporti: così anche sul piano sportivo internazionale la sua posizione risultava pienamente regolare.
Debuttò in «nazionale» il 1° dicembre 1929 a San Siro, giocando contro il Portogallo, che fu battuto per 6 a 1, primo tempo 3 a 1. Segnò per prima la squadra italiana con Marcello Mihalich, pareggiarono i portoghesi con Soares, ma avanti che i primi 45 minuti terminassero «Mumo» si era presentato con due sue irresistibili segnature che portarono la nostra squadra in netto vantaggio, che venne rafforzato nella ripresa con altre reti di Adolfo Baloncieri, poi Attila Sallustro e ancora Mihalich.
Come «azzurro» fu anche Campione del Mondo nel 1934, dimostrandosi la migliore ala sinistra di tutte le formazioni concorrenti, così come «Luisito» Monti ne fu il più prestigioso centromediano. E parteciparono alla vittoriosa competizione altri bianconeri: così come «Viri» Rosetta, Felice Placido Borel, Luigi Bertolini, «Giôanin» Ferrari. Nella finale di Roma, contro la Cecoslovacchia, diretta dall’arbitro svedese Eklind, dopo il primo tempo concluso sullo 0 a 0, fu proprio lui, «Mumo» Orsi a pareggiare le sorti realizzando la segnatura dell’1 a 1, mentre fu poi Angelino Schiavio che segnò la rete della nostra vittoria. L’ultima apparizione con la maglia della «nazionale» Orsi la fece a Vienna il 24 marzo del 1935 quando l’Italia, dopo tanti anni, superò l’Austria in casa sua, con due magnifiche reti dell’esordiente Silvio Piola.
Quale calciatore Raimundo Bibiano Orsi era tecnicamente completo. Palleggiatore sopraffino, come detto, sia di destro che di sinistro, in quanto possedeva, come si dice nello speciale gergo del foot-ball, completamente i «due piedi»; il suo «dribbling» era largo o stretto, a seconda delle circostanze, ma preferiva superare gli avversari che gli contrastavano il passo con perfette finte eseguite con il tronco, andandosene poi sia sulla destra che sulla sinistra, come credeva meglio riuscire. Le sue doti più efficaci apparivano la velocità e il tiro che, specie in corsa, riusciva quasi sempre micidiale. Collaborava sempre con i compagni di linea ma, quando gli sembrava opportuno, era capacissimo di andarsene per suo conto e risolvere le situazioni da solo, anche se la spalla con la quale meglio se la intendeva fosse un elemento della classe e versatilità di «Giôanin» Ferrari, sia nella Juventus che, sovente, anche in «nazionale».
Se come calciatore Orsi appariva inimitabile, come uomo era di buon carattere, affabile, generoso, attaccato alla famiglia che aveva recato con sé dall’Argentina. A Torino gli erano nati due figlioli, il primo dei quali, Huguito, tentò seguirlo nella carriera di calciatore, riuscendo a diventare, in Buenos Aires, nel Racing, soltanto un’ala destra appena discreta: ciò che conferma come la classe calcistica non risulti quasi mai ereditaria; almeno in linea diretta.
Aveva un’innocente mania e un solido «hobby». La mania era quella di non farsi mai la barba prima di una partita: teneva un rasoio nel magazzino dello spogliatoio e si radeva dopo l’incontro. L’«hobby» era quello del violino. Lo suonava con molta abilità nei momenti di «relax». Il suo cavallo di battaglia era suonare il celeberrimo tango, «La Cumparsita». Chi scrive ricorda che nei primi tempi dopo il suo arrivo a Torino «Mumo» lo invitò a casa sua appunto per offrire un’audizione quale violinista. Conosceva e suonava bene lo strumento ma, francamente, era preferibile quale ala sinistra. A un certo momento, anzi, di tale audizione, «Mumo» mise, il disco de «La Cumparsita» sul grammofono e seguitò ad accompagnare l’orchestra che lo aveva registrato, che era quella di Edoardo Bianco. E l’effetto appariva decisamente migliore.
Dopo il quinto campionato vinto con la sua «Giuventus» – come lui la chiamava – «Mumo» cominciò a essere preoccupato e a manifestare intenzioni di tornarsene a Buenos Aires. Erano i tempi in cui si preparava la guerra di Abissinia e lui ne temeva le conseguenze, senza nasconderlo agli amici. Era quasi ossessionato dall’idea di essere richiamato alle armi, anche se nei suoi documenti era ben scritto che aveva prestato servizio militare vagamente approssimativo presso un ufficio dell’Arsenale di Buenos Aires. E nel 1935 se ne ripartì.
«Mumo» era specialista nel battere i calci d’angolo che spesso riusciva a mandare direttamente in rete con traiettorie curve studiatissime. Era impeccabile anche nei calci di rigore. Nell’ultima seduta di allenamento cui partecipò allo Stadio Comunale, scommise, come sovente faceva, con il compianto Gianpiero Combi, che gli avrebbe segnato dieci «rigori» facendogli passare la palla a mezz’altezza sull’angolo destro. Ne realizzò sette, due Combi li deviò e uno colpì il montante finendo fuori. Ripartì in piroscafo, com’era arrivato. E la sua partenza dispiacque a tutti. Sicuramente molto anche a lui.
Ma Raimundo Bibiano Orsi era ormai diventato juventino nell’animo. Lo può dimostrare il toccante episodio che siamo in grado di riferire. In un caffè una sera del febbraio 1948 a Santiago del Cile, il signor Tommaso Piovano, un giovane industriale di Chieri, appassionato juventino, che da circa un anno si trovava nel Cile per affari presso un fratello, venne avvicinato da un signore di mezza età, un po’ grassottello. Il signor Piovano aveva all’occhiello il distintivo bianconero della società e fu appunto tale vista che indusse quel signore dai capelli brizzolati per il momento sconosciuto a trasalire e subito avvicinarsi.
Si trattava niente altri che di «Mumo» Orsi che si era commosso alla vista di quel distintivo che gli riaccendeva tanti cari ricordi. Piovano lì per lì non aveva riconosciuto l’ex-campione, per il quale aveva in altri tempi tifato in abbondanza. E per qualche tempo Orsi ebbe a parlare della sua «Giuventus» e dei vecchi tempi trascorsi a Torino.
Dopo aver tentato la carriera di allenatore in Argentina e poi anche nel Messico e nel Cile, a Viña del Mar, l’ex «stella di Amsterdam» si era ricordato di saper trattare discretamente il violino e aveva tentato di cavarsela mettendo su un quartetto con il quale girava per i diversi paesi dell’America Latina.
Ma il calciatore era stato ben più famoso e brillante di quanto ormai non fosse l’allenatore e il violinista direttore di quartetto.
 


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