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Gli eroi in bianconero: Paolo ROSSI

di Stefano Bedeschi

«Io non segno quasi mai di potenza, generalmente conquisto quei due metri che costano il gol all’avversario. Per me, è fondamentale il gioco senza palla, lo smarcamento, quando la palla non c’è, è indispensabile. Non ho avuto dalla sorte un grande fisico e mi debbo far furbo».

Nato a Prato il 23 settembre 1956, a 16 anni è già juventino e sgambetta gracilino al Combi: è un Rossi scattante, con la sua caratteristica corsa, pronto ad avventarsi su ogni pallone. Italo Allodi lo ha voluto portare a Torino a tutti i costi, in quanto il ragazzino gli era piaciuto. «Ho dei ricordi bellissimi di quel periodo, ero uno dei tanti ragazzini di quegli anni, con molti dubbi e poche certezze; l’arrivo nella società più importante d’Italia mi diede una grande carica. Provenivo da Firenze, dove avevo giocato per quattro anni in una piccola società, la Cattolica Virtus; poi, il grande salto nella Juventus. Mi aveva già prenotato, quando avevo 14 anni, Luciano Moggi, allora responsabile del settore giovanile bianconero, dopo avermi visto giocare in un torneo a Chieti. Due anni dopo, sbarcai a Torino».
Gli osservatori della Juventus pensano che Paolo sia un buon elemento, ma che debba farsi le ossa, poiché è così debole di gambe. «Gli infortuni giungevano, puntuali, tutti gli anni; mi hanno tolto tre menischi in tre stagioni e, allora, quell’operazione faceva perdere almeno sei o sette mesi di preparazione. L’ultima è stata nel 1974; l’allenatore della Primavera era Castano, un grandissimo personaggio nell’ambiente di quegli anni. Con lui sono diventato uomo e calciatore e grazie al suo aiuto ho esordito in Coppa Italia con la prima squadra. Ricordo che vincemmo a Cesena per 1-0, con gol di Musiello; l’allenatore era Vycpálek ed ho avuto l’occasione di giocare con giocatori del calibro di Capello e Altafini, tanto per fare due nomi fra i più conosciuti. Fu una stagione eccezionale».
Paolo viene mandato a Como, è la stagione 1975-76, dove come allenatore c’è Osvaldo Bagnoli. Gioca ala destra, disputa 6 partite e segna anche una rete, ma è sempre alle prese con i menischi: un vero calvario senza fine, in quanto, ogni volta, bisogna riprendere con massacranti sedute di allenamento, per tonificare il tono muscolare. A Como, però, non credono in lui, puntano su un altro Rossi, Renzo, anch’egli attaccante, che poi sarà ceduto all’Inter e che finirà presto nel dimenticatoio.
La stagione successiva è ceduto al Lanerossi Vicenza ed ha la fortuna di trovare un presidente come Farina e un tecnico come Giovan Battista Fabbri. L’attaccante titolare e autentica bandiera della società biancorossa, Vitali, è in rotta con la dirigenza: occorre un sostituto, viene buttato in mischia proprio Paolo, a suo agio con il gioco dei veneti, incentrato sul contropiede. È un trionfo: gioca 36 partite, segna 21 gol, trascina il Vicenza in Serie A. L’inarrestabile ascesa, del non ancora Pablito, non conosce pausa, nemmeno in confronto con i grandi campioni della Serie A: vince la classifica dei cannonieri con 24 reti, davanti a uno specialista come Beppe Savoldi e porta il Lanerossi al 2° posto in classifica.
«Fabbri è stato un padre per me, il classico padre di famiglia che ti consiglia, ti prende sotto la sua protezione, è stato proprio così. Teneva le fila di tutto l’ambiente, ha fatto in modo che si creasse una grande unione tra di noi. Era un grande conoscitore e un grande amante del calcio, predicava il fatto che tutti a cominciare dai difensori dovevano giocare a pallone. Io, in particolare, gli devo molto, è stato lui che mi ha trasformato da ala a centravanti, ha visto subito che potevo avere un ruolo diverso e ha cambiato sicuramente la mia carriera. Ho avuto un grande rapporto con Farina, è stato un presidente unico, pur con tutti i suoi difetti. Aveva una grande personalità, grande umorismo. Era uno che ci sapeva fare e con cui era estremamente piacevole passare del tempo. Sotto altri aspetti, nella gestione della società, poteva essere anche un duro, probabilmente era un presidente d’altri tempi. Secondo me Farina era una spanna sopra gli altri, aveva delle idee innovative. Mi ricordo che il primo anno di Serie A, si era inventato l’abbonamento biennale per farsi anticipare i soldi che gli servivano, erano cose che all’epoca sembrava incredibile potessero uscire dalla mente di una persona, ma lui era così, aveva queste intuizioni».
Tutti grandi club inseguono questo ragazzo e anche a Torino non si sono dimenticati di lui. Nel giugno del ‘78, Boniperti e Farina vanno in Lega a misurarsi alle buste, per risolvere la comproprietà dell’attaccante. La Juventus, infatti, aveva conservato la proprietà della metà del cartellino del giocatore. Boniperti si presenta con le idee abbastanza chiare: Paolo può valere, al massimo, un paio di miliardi, cifra già eccezionale per quei tempi. Farina è pronto a fare altrettanto ma è ingannato da una telefonata, che dice che la Juventus avrebbe scritto nella busta una cifra incredibile: due miliardi e mezzo. Farina, senza pensarci due volte, scrive due miliardi e 750 milioni creando un autentico caso, al punto che anche Franco Carraro, allora presidente della Lega, decide di dimettersi per protesta.
Da quel momento, la fortuna gira le spalle a Rossi: il Vicenza precipita in Serie B, accompagnata da una voragine di debiti. Paolo emigra a Perugia, in prestito, dove è travolto dallo scandalo del calcio scommesse. Il suo caso divide l’opinione pubblica. Il giocatore si dichiarerà sempre innocente e le circostanze del suo coinvolgimento non appaiono mai del tutto chiare.
Al riguardo, il pubblico accusatore, Corrado De Biase, racconterà in un’intervista rilasciata alcuni anni dopo i fatti: «Non avevo dubbi sulla colpevolezza di parecchi inquisiti. Solo di Rossi non ero convinto. Lui aveva sempre negato tutto. Era stato accusato di aver aderito alla proposta di fare un pareggio concordato dal Cruciani, alla presenza di un testimone. Proposi un faccia a faccia tra Rossi e Cruciani. Fu una scena drammatica. Soffrii per Rossi, che non riuscì a convincere i giudici della sua innocenza. Per la stampa, Rossi lo avevo condannato io. Ma era colpa mia se il giocatore non era riuscito a convincere della sua innocenza la Commissione Disciplinare?».
Sembra la fine della sua carriera, invece è la svolta positiva. Durante la squalifica, Rossi, torna a Vicenza ed è contattato da alcune società e fra cui l’Inter di Fraizzoli. Sandro Mazzola ha molte idee sul conto di Rossi, stipula un accordo scritto tra Fraizzoli, Farina e il giocatore, ma all’ultimo momento il patron nerazzurro si tira indietro e il trasferimento salta.
Boniperti non ha mai smesso di seguire con attenzione la vicenda di Pablito e non ha mai digerito nemmeno lo sgarbo di Farina. Quando torna alla carica nel marzo del 1981, trova il presidente veneto molto più disponibile, pronto a cedere il giocatore per ripianare il deficit in cui si trova la sua società. La Juventus paga quanto aveva sborsato Farina con gli interessi e così Pablito torna a vestire la casacca bianconera.
«Boniperti mi chiamò: “Verrai con noi in ritiro, ti allenerai con gli altri, anzi più degli altri”. Mi sono sentito di nuovo calciatore. La lettera di convocazione adesso farebbe ridere. Diceva di presentarsi con i capelli corti, indicava cosa mangiare e cosa bere. Boniperti era un mago in queste cose. Quando arrivai mi disse: “Paolo, se ti sposi è meglio, così sei più tranquillo”. Mi sono sposato a settembre. L’avrei fatto lo stesso, diciamo che sono stato un po’ spinto. Comunque devo ringraziare lui, Trapattoni e Bearzot. Il Trap mi ha allenato con la sua grinta, ci ha messo molta dedizione, Bearzot mi chiamava spesso. Non mi faceva promesse ma mi incoraggiava a lavorare bene, perché lui mi teneva sempre in considerazione. Fondamentale».
Il 2 maggio 1982, Rossi torna in campo a Udine a fianco di Virdis. Trapattoni dice: «È quello di un tempo». E lui: «Non ricordavo più l’emozione di una partita vera. Due anni di silenzio mi hanno maturato. Proprio in questo momento mi dico: non c’è solo il calcio».
Nonostante le 3 presenze nella Juventus, Rossi è convocato ugualmente in Nazionale, gioca in Spagna, diventa Pablito, storia risaputa. «La convocazione me l’aspettavo, Bearzot aveva fiducia in me, in Argentina ero andato bene. Ma le prime partite sono un disastro. Tre pareggi con Polonia, Perù e Camerun: qualificazione per differenza reti. Non ero in forma, anzi. Un fantasma. Trovavo difficoltà a fare tutto, era anche un blocco mentale. Ma la fiducia dei compagni e di Bearzot mi hanno dato una carica eccezionale. I ragazzi scherzavano sul fatto che mi reggessi a stento in piedi. Era importante anche la presa in giro. Per lo stress ero dimagrito 5 chili. Mi facevano stimolazioni elettriche alle gambe. E ricordo che il cuoco tutte le sere mi portava in camera un bicchiere di latte e una brioche. Finita ogni gara Bearzot mi diceva: “Stai tranquillo, ora preparati per la prossima”. Anche dopo la sostituzione col Perù. Eravamo un gruppo eccellente, la prova fu il silenzio stampa di Vigo. Accettavamo le critiche tecniche, ma non le cattiverie gratuite. Si scrisse di tutto: bella vita, casinò, Graziani che aveva perso 70 milioni. Che io e Cabrini stavamo insieme. Non ne potevamo più di stupide illazioni e decidemmo di starcene zitti. La gara con l’Argentina è stata decisiva, vinta giocando bene. Io non segnai, ma stavo meglio. Non pensavamo certo di vincere il mondiale, però ci convincemmo di poter giocare alla pari con chiunque. Forse nel ‘78 eravamo più forti, io compreso, ma questa squadra era un concentrato di carattere. Il primo gol al Brasile, lo ricordo come il più bello della mia vita. Non ho avuto il tempo di pensare a nulla: ho sentito come un senso di liberazione. È incredibile come un episodio possa cambiarti radicalmente: niente più blocchi mentali e fisici. Dopo quel gol, tutto è arrivato con naturalezza. Ma non pensate che ci siamo goduti le vittorie. Una volta qualificati per la semifinale, Bearzot disse solo: “Pensiamo alla Polonia”. Sempre concentrati, sempre in apnea fino alla finale. Per questo forse il ricordo più nitido che ho è la sensazione al fischio finale contro la Germania. Eravamo campioni del mondo. Feci solo mezzo giro di campo coi compagni: ero distrutto. Mi sedetti su un tabellone a guardare la folla entusiasta e mi emozionai. Ma dentro sentivo un fondo di amarezza. Pensavo: “Fermate il tempo, non può essere già finita, non vivrò più certi momenti”. E capii che la felicità, quella vera, dura solo attimi».
Al ritorno dal Mondiale, all’atto di rinnovare il contratto con la Juventus, una frase infelice a proposito della necessità di “allevare i figli con lo stipendio giusto”, fa imbufalire Boniperti e il contratto non viene firmato. Con lui, a contestare il presidente juventino, ci sono Tardelli e Gentile. Ma le delusioni non sono finite, nonostante le sue 18 realizzazioni: lo scudetto va alla Roma e la Coppa Campioni sfugge nella serata di Atene contro l’Amburgo.
Nella stagione successiva, Rossi contribuisce con 13 gol alla conquista del titolo e poi al trionfo in Coppa delle Coppe; il rapporto con i colori bianconeri continua, c’è la Coppa dei Campioni da vincere, ma Rossi è sempre meno protagonista, più comprimario che altro. Le scelte di Trapattoni lo infastidiscono, cosicché quando Farina, che è diventato presidente del Milan, ritorna alla carica, Pablito accetta il corteggiamento a si trasferisce a Milano.
«Diventai una specie di apri varchi, fu una scelta di Trapattoni dettata dalla necessità. Poi arrivarono Boniek, Platini, c’era Bettega: qualcuno doveva restare fuori e, caso strano, toccava sempre al sottoscritto. In bianconero ho vissuto dei momenti molto belli, ma anche alcuni molto brutti. A un certo punto ero stufo di calcio, andavo agli allenamenti perché ero costretto. Mi sembrava che attorno a me mancasse totalmente la fiducia, quando dovevano sostituire un giocatore, toccava sempre a Rossi. Mi sembrava una scelta fatta a tavolino, ci restavo male. Con i tifosi juventini non mi sono mai trovato bene, forse ha rovinato il rapporto la faccenda dell’ingaggio, quando avevo chiesto qualche soldo in più. Oltretutto nella Juventus giocavo in una posizione poco congeniale alle mie caratteristiche, ma mi sono adattato, anche sacrificandomi. Alla Juventus ho imparato tantissime cose, la società voleva confermarmi ma io, ormai, mi sentivo come un leone in gabbia. Meglio cambiare aria».
La sua carriera in bianconero finisce con la tragica serata di Bruxelles: è destino che nel cammino di questo giocatore ci sia sempre qualcosa di drammatico. La stessa cosa avviene puntualmente anche al Milan, dove Farina fa letteralmente conti falsi per assicurarsi Rossi. Pablito costa 10 miliardi fra ingaggio e parametri ma Farina non si arrende e vuole ricomprarlo da Boniperti a tutti i costi. Inizia un lungo tira e molla che si protrae per mezza estate, finché Rossi non indossa la maglia rossonera.
L’entusiasmo fra i tifosi di Via Turati è incontenibile, si sognano trionfi antichi. Il Milan ha un attacco formidabile, Rossi-Hateley-Virdis, il Vi-Ro-Ha; si fanno paragoni scomodi con il famosissimo Gre-No-Li, ma saranno solo amare delusioni. Oltre agli insuccessi sul campo, comincia a profilarsi il “Caso Farina”, uno scandalo che coinvolge la società rossonera, che si conclude con la fuga in Sud Africa del presidente e con l’arrivo di Berlusconi.
Si conclude così questo insolito rapporto fra Farina e Rossi: Pablito resta al Milan, ma è un’altra grande delusione. Termina, malinconicamente, la sua carriera a Verona, come un gregario qualsiasi.

VLADIMIRO CAMINITI
Un pratese di guancia sfuggente con quegli occhi ramificati nella malizia. Un sorriso che è sempre un sorrisino prendingiro. Qualcuno l’ha definito il più moderno centravanti che ci sia mai stato e forse è definizione calzante; finché va in campo fresco, è un “odiable”, inafferrabile come il più lesto dei ladruncoli. E insomma, rapina le difese sull’ultima parabola, sul minimo errore, sul più banale equivoco: è lì che zompa, incredibile ma vero l’ha già infilata. Avevamo creduto che Anastasi, come rapidità fosse, il massimo consentito a un terrestre. Non avevamo fatto i conti con Paolo Rossi, in grado di far gol non già su un soldino o su un millimetro, ma sul respiro appena accennato di un difensore, nella mischia più pazzesca, tramutando ogni parabola nel gol più perfetto. Di una perfezione tale da potersi definire mitica.

ITALO CUCCI, DAL “GUERIN SPORTIVO” DEL FEBBRAIO 2021
Paolo Rossi calciatore ha vissuto molte vite. La più bella – ne sono sicuro – a Vicenza. L’armonica città del Palladio gli ha dato tempra di lavoratore, passione di viaggiatore, spirito di sacrificio (come a Robi Baggio, dopo), un parlar cantato e un sorriso goldoniano. Fu quello, il Rossi che entrò a forza nelle copertine e nelle pagine del Guerin Sportivo, lieve quanto contagioso. A metà dei Settanta, quando diventai direttore, in quel di San Lazzaro di Savona, eravamo un gruppo di reduci (o esuli) da altri mondi. Giovanni Brera, che aveva cominciato a lavorare nel Verdino ancora ragazzo – si firmava Gibigianna – ci sfotté definendoci “quelli della tentacolare San Lazzaro”, scandalizzato dal trasferimento della gloriosa testata nata a Torino e cresciuta a Milano in un angolo della provincia bolognese, neanche a Bologna che in verità ci ignorò tutta la vita. Perché eravamo bastardi: solo Stefano Germano, Roberto Guglielmi e Claudio Sabattini erano del cittadone, Elio Domeniconi genovese, Darwin Pastorin torinese, io marchignolo, Mino Allione e Serena Zambon veneti.
Fu Serena, bella e potente segretaria di Redazione, a farci scoprire Paolo Rossi. Che non era solo un calciatore del Lanerossi Vicenza ma una “invenzione” di Giussi Farina. Perfezionato, sul campo, da Gibì Fabbri da San Pietro in Casale, l’Altro Fabbri – dicevamo – per distinguerlo dal Mondino di Castel Bolognese, diventato famoso per aver trasformato il Mantova in un Brasile e l’Italia in una Corea. Non si viaggiava molto, al Guerin, ma a Vicenza ci andavo anch’io, a volte ospite della tavola tradizionale e generosa di Giussi Farina, quel che si dice un signore all’antica. Fissato sui giovani – avevo visto nascere Rivera e Bulgarelli, più tardi, per dire, anche Maradona a Baires e Baggio, pure a Vicenza – rimasi incantato dalla splendida semplicità di Rossi. Che chiamai subito Paolino per una sua certa fragilità complessiva, cominciando a narrarne le imprese. A differenza di tanti fuoriclasse, artisti del Bel Giuoco, piedi buoni o, come si diceva, poeti, Paolino era un artista del pallone mai lezioso, mai alla ricerca di giochesse fantastiche, bello nell’esecuzione del gol ma prima dell’attimo fuggente un corpo perfetto coordinato in una mossa obliqua da torre pendente nel cogliere la palla e metterla in rete. Bello, ripeto, anche se Brera lo diceva brevilineo, altri culobasso. E venne il giorno della prima copertina, la sua immagine come l’avevo voluta, il titolo banale ma significativo: “È nata una stella”.
Il resto della compagnia criticante arrivò con grave ritardo, noi Paolino l’avevamo adottato e già... incaricato di mettersi la maglia azzurra per onorare la Patria. Enzo Bearzot ci credette e lo portò al Mundial argentino, nel ‘78, contro il parere di tutti. Guerin escluso, naturalmente. Ebbi più d’una occasione di parlargli ma se ben ricordo non gli chiesi mai un’intervista.  Da quel punto di vista sembrava non aver nulla da dire. Non ne aveva voglia, semplicemente, perché non gli interessava diventare famoso. La prima volta che lo incontrai, credendolo pratese autentico, gli parlai dei “Maledetti Toscani” del suo concittadino Curzio Malaparte ma non fece una piega. E allora gli ripetei quel detto che inquadrava la singolare personalità dei suoi concittadini un po’ sbruffoni: “Son di Prào e voglio esse’ rispettào, pos’ì ssasso e mang’ì bbào”. (Sono di Prato e voglio essere rispettato, posa il sasso e mangia il verme). Insomma, come dicono i marchigiani, “magna e sta’ zitt”. Ma non fece una piega. Stette zitto, infatti. Così negli anni, sempre, quando ci si ritrovava felici nei luoghi del calcio – stadi e studi tv – senza smancerie. Non credo che si possa dire amicizia. Solo silenziosa condivisione di importanti fatti della vita.
E pensate che da questi dorati silenzi nacque una passione. M’ero fatto un’idea di Paolino, a quei tempi, ch’era professionalmente per lui negativa. Non amava atteggiarsi a divo, pratica che invece pagava; non amava le polemiche, talché prima di Baires 78 se lo filavano in pochi; giocava strano e non dava spunti per mandolinate classiche: mi accorsi, seguendolo da vicino ovunque, che fra i segreti della sua potenza di goleador c’è n’era uno appena visibile: i due secondi d’anticipo sul portiere dopo avere fatto fuori il difensore con la stessa rapidità. Bastava vedere i suoi avversari feriti dal gol: impietriti, ammutoliti. Forse ammirati. I vicentini impazzivano per lui, gli altri no – i fenomeni di provincia li celebri una volta eppoi li molli, non fanno vendere i giornali – anche perché la sua spontanea riservatezza gli toglieva punti. E mercato. Salvo poi vedere un giorno due protagonisti di vertice, Boniperti e Farina, azzuffarsi per lui a suon di centinaia di milioni che finirono per diventare scandalosi miliardi. E lui zitto. Bravo. Corretto. Discreto. 
Come dicevo, nel calcio i bravi e buoni han poco seguito, così come gli angeli sono meno popolari dei diavoli. Quando Paolino inciampò nel Calcioscommesse o Totonero, gran parte della critica fu felice di fargli pagare i silenzi (ad personam) visti come arroganza. E molto italiano accanirsi con un grande in caduta. Dicono sia coraggio, è vigliaccheria prodotta dall’invidia. E dire che Paolino non s’era mai pavoneggiato, aveva semplicemente ignorato quei personaggi che Giovanni Arpino aveva scolpito da poco in “Azzurro tenebra”: le Belle Gioie e le Iene. (Un giorno, a Valencia, chiesi all’Arp perché avesse scelto di confondere la sua immensa statura di narratore con gli scribi da stadio, si alzò da tavola, se ne andò e non ci parlammo più per anni). Io che Paolo Rossi lo conoscevo bene e lo sapevo forte di un’onestà naturale, debole di una generosità solidale, fui subito convinto che non avesse partecipato alla truffa di quei trafficanti romani di ortofrutticoli e partite di calcio. Né pensai mai a un reato così grave da spedire camionette di carabinieri il 23 marzo 1980 sui campi a prelevare gli sciagurati giocatori di pallone in diretta tivù su “90° Minuto”; mi convinsi, piuttosto, di una mossa clamorosa per distrarre il popolo da eventi politici tali da creare turbamenti governativi. Nel 1980, uno dei più importanti banchieri del mondo, Michele Sindona, era stato condannato dal tribunale di New York per frode. Fu l’inizio della fine per le attività illecite portate avanti dalla Loggia Massonica P2, importante e influente, con pesante coinvolgimento anche del mondo editoriale e dell’informazione in genere. Il nome di Pablito, già eroe di Argentina 78, si spendeva meglio di quello di Licio Gelli (lui pure molto noto e apprezzato in Argentina, per altri motivi...).
Le manette erano scattate per i giocatori Stefano Pellegrini dell’Avellino, Sergio Girardi del Genoa, Massimo Cacciatori, Bruno Giordano, Lionello Manfredonia e Giuseppe Wilson della Lazio, Claudio Merlo del Lecce, Enrico Albertosi e Giorgio Morini del Milan, Guido Magherini del Palermo, Gianfranco Casarsa, Mauro Della Martira e Luciano Zecchini del Perugia. Altri ricevettero ordini di comparizione, tra cui, appunto, Paolo Rossi del Perugia, Giuseppe Dossena e Giuseppe Savoldi del Bologna, e Oscar Damiani del Napoli. Lo scandalo produsse solo frettolose condanne sportive: il 23 dicembre 1980 tutti gli indagati vennero penalmente prosciolti poiché il fatto non sussisteva. La sentenza arrivò a dire che l’eventuale combine costituiva per il Totocalcio solo un ulteriore elemento di imprevedibilità.
Il Guerin innocentista dava fastidio all’esercito di giustizialisti scesi in campo per massacrare i pedatori. Ma noi non mollammo la presa, finché i reprobi riacquistarono il diritto a riprendere la loro attività. Pubblicai una copertina significativa – HANNO AMMAZZATO PABLO, PABLO È VIVO – e proprio mentre stava infuriando la polemica sul suo ritorno in Nazionale voluto da Bearzot, parlai con il grande capo del calcio italiano, Artemio Franchi. Gli dissi d’impegnarsi a emettere un’amnistia per tutti i tesserati vittime del Totonero nel caso riuscissimo a vincere il Mundial, cosa di cui ero certo tant’è che il Guerin fu trattato da matto, come il sottoscritto. Franchi, pur essendo un amico, la pensava come la maggioranza degli italiani e rispose alla mia folle proposta con una risata: “Giuro che se vinciamo il Mondiale ci sarà la sua amnistia”. Così fu – ne rido ancor oggi – ma non fu la “mia” amnistia, il liberatore fu Paolo Rossi con i suoi gol. Tesserati condannati anche da decenni – personalmente in passato mi ero battuto inutilmente per Romeo Anconetani – riebbero la “fedina” pulita. Nei giorni dell’addio a Paolino s’è parlato solo dello scandalo, del processo e delle condanne, essendo gran parte dell’informazione ancora disturbata dal successo dell’Italia di Paolorossi e del suo Vecio sostenitore: Gibì Fabbri e Enzo Bearzot non erano stati solo i suoi maestri ma anche i suoi padri, impegnati a costruire il campione e l’uomo insieme.
A Barcellona la Nazionale soggiornava alla “Casa del Baron” e l’inappuntabile cronista Bruno Bernardi – uno dei pochi fuori della mischia degli avvelenatori quotidiani (ai quali tuttavia risparmio, la citazione, come avrebbe voluto Pablito) – riportò sulla “Stampa” la disposizione delle camere per i giocatori: Zoff-Scirea; Cabrini-Rossi; Causio-Selvaggi; Galli-Conti; Antognoni-Graziani; Dossena-Altobelli; Marini-Bergomi; Massaro-Vierchowod; Baresi-Collovati; Bordon-Oriali. Solo Tardelli e Gentile hanno una singola poiché «Schizzo» soffre di insonnia (Bearzot lo chiama affettuosamente il «coyote»). Un bischero innominato ne approfittò per creare intorno alla coppia Cabrini-Rossi l’idea che fossero gay, anzi maricones come subito li definirono spagnoli e brasiliani. La mossa idiota diede tuttavia il suo frutto: il silenzio stampa ordinato su richiesta di Bearzot dalla Federazione, gestito da Guido Vantaggiato, Carlo De Gaudio e in concreto da Dino Zoff, l’unica voce azzurra (la voce del silenzio) a disposizione dei criticonzi. Molti dei quali – nutriti di astio più che di competenza – pretendevano che al posto di Rossi ci fosse Pruzzo, capocannoniere del campionato. Bearzot, fedele alle scelte già fatte in Argentina, aveva semplicemente sostituito con Pablito “Penna Bianca” Bettega, infortunato. Ci fu anche chi prese sul serio la scelta del Vecio, un ritaglio dell’“Unità” lo certifica: “Grosso allarme, poi in parte rientrato, all’allenamento che gli azzurri hanno sostenuto nel tardo pomeriggio a Pontevedra. A un certo punto Paolino Rossi si è infatti bloccato durante gli esercizi atletici, ma il medico subito intervenuto ha fugato ogni più grossa preoccupazione e ha accertato trattarsi di una lieve forma di sciatalgia. Il malanno, trattato subito in modo energico, potrebbe essere presto assorbito ed è anzi probabile che non impedisca a Rossi di schierarsi al suo posto nella partitella prevista per oggi contro una formazione giovanile del Pontevedra”.
Un giorno potei incontrare Paolino perché a me era consentito accedere al ritiro come solitario profeta della Vittoria Azzurra; pochi altri erano infatti amichevolmente vicini a Bearzot e alla Nazionale – come Giovanni Arpino e Pier Cesare Baretti – mentre io già la “vendevo” mondiale, dunque trattato da mentecatto, tuttavia sostenuto dall’editore del Guerin, Luciano Conti, che si fidava di me e arrivò a godere il giorno delle trecentoquarantamila copie con la copertina di Dino Zoff con la Coppa imitata da Renato Gattuso. In quell’occasione un vecchio collega di Budapest mi pregò perché chiedessi a Bearzot di fargli intervistare Pablito per la tv ungherese. “Impossibile – mi disse Enzo – c’è il silenzio stampa, vero Guido?”. E Guido Vantaggiato rispose: “Il silenzio vale solo per la stampa italiana. Non possiamo negarci al mondo”. Finimmo in un salottino, il collega, l’operatore con la telecamera, io e Paolino che si presentò sicuro, con il miglior sorriso dai tempi di Baires. Rispose a tutte le domande e ogni tanto mi guardava con complicità. Alla fine lo salutai e non ci dicemmo niente, come nei tempi successivi. Potevo aspettarmi un grazie ma non lo volevo. Lo ebbi, comunque, quando Paolino, il nostro Paolino, Guerinetto ad honorem, segnò tre gol al Brasile al Sarria e sollevò la Coppa al Bernabeu. Era rinata una stella che non cadrà mai.
 


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