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Gli eroi in bianconero: Massimo BONINI

di Stefano Bedeschi

Al termine della trionfale stagione del ventiduesimo scudetto, Boniperti lo ha definito: «Il nostro fantastico terzo straniero». Più che all’origine anagrafica (è nato a San Marino), il presidente si riferiva al costante rendimento offerto da Massimo Bonini. Il biondo centrocampista è un mostro di continuità, infaticabile e prezioso. Quando si presenta, giovanissimo, lo battezzano in mille modi: il nuovo Netzer, il nuovo Benetti, l’erede di Furino. In realtà, Bonini è un azzeccato cocktail, ricco di personalità originale. Se la Juventus non ha dovuto rimpiangere un grosso campione come Furino, il merito è proprio del suo degno successore.
Cursore dai mille polmoni, nelle ultime stagioni Bonini ha saputo farsi apprezzare anche per un miglioramento sostanziale sotto il profilo tecnico. La sua qualità è la capacità di corsa: il vero, classico uomo ovunque: difesa, attacco, grande recuperatore di palloni, grazie ad una mobilità da fondista. Questa dote, unitamente alla disponibilità al sacrificio, lo rende amatissimo dai compagni che sanno di poter contare sul suo apporto.
«La scarsa vena realizzativa – puntualizza – non ha mai rappresentato un problema, perché la Juventus di allora era una squadra particolarmente sbilanciata in avanti, che si attendeva, da giocatori come me, la copertura e non le reti».
Negli anni d’oro di Platini, le sue doti podistiche gli permettono di vincere il duello con Tardelli come centrale a sostegno del divino Michel con conseguente spostamento di Marco nel ruolo di esterno destro (e il buon Marco non gradì proprio).
Fra il primo e il secondo tempo di un’importante sfida di campionato, l’Avvocato Agnelli entrò, come sempre senza farsi annunciare, nello stanzone degli spogliatoi. Michel Platini, seduto su una panca, fumava tranquillamente una sigaretta; non era una cosa rara, lo faceva quando era nervoso, per scaricare la tensione. L’Avvocato gli disse sorridendo divertito: «Platini, ma lei fuma nell’intervallo di una partita?» «Avvocato, non si preoccupi se fumo io», rispose pronto Michel, «l’importante è che non fumi Bonini, che deve correre anche per me!» Questo dialogo, diventato famoso, dimostra che Massimo non è un fenomeno ma neanche scarsissimo, molto solido mentalmente e tatticamente. Non un fuoriclasse, quindi, ma l’indispensabile supporto ai campioni.
Massimo nel 1977 è in serie D, a Bellaria. Poi si mette in luce nel Cesena e la Juventus lo individua come ideale complemento al centrocampo, assicurandoselo nell’estate 1981 per 700 milioni (più Verza e la comproprietà di Storgato). Fu un affare.
La consacrazione internazionale del giovane centrocampista risale al 16 settembre 1981, tre giorni dopo l’esordio in A (13 settembre: Juventus-Cesena); Trapattoni lo schiera contro il Celtic in Coppa Campioni e il ragazzo ottenne subito la promozione.
Pier Luigi Cera, libero del Cagliari scudettato, lo ha avuto a Cesena: «Bonini è un Furino con i piedi buoni, è un mediano completo. È il seguito di Furia e vale molto di più anche come tiro. Lo cancellerà, presto, dalla faccia della terra. Quando arrivò a Cesena, gli dissero che sarebbe stato una riserva, essendo giovane. Ebbene, da riserva è diventato in fretta titolare ed ha finito per essere l’anima del Cesena, il trascinatore, il giocatore più amato dalla folla».
La cittadinanza sammarinese gli ha creato anche qualche inconveniente curioso: dopo aver giocato nella Nazionale Under 21, infatti, Bonini è stato estromesso perché considerato straniero. «All’inizio degli anni Ottanta ho giocato sette partite con l’Under 21 di Vicini. In quel periodo c’era anche un altro giocatore di San Marino nel giro delle nazionali giovanili, il mio amico Marco Macina. Nel novembre 1982 con la Juniores prese parte al torneo di Montecarlo e, in quell’occasione, le avversarie degli azzurri fecero reclamo, perché l’Italia schierava un giocatore non di passaporto italiano. L’UEFA intervenne e da quel momento Macina non poté più vestire la maglia azzurra. Fu cambiato il regolamento e dalla stagione successiva anch’io, dopo aver disputato due partite nell’Under come fuori quota, dovetti dire addio alla Nazionale».
Si è rifatto ampliamente con la maglia bianconera, evidenziando sempre più, particolarmente in Europa, le sue caratteristiche di gladiatore.
Bonini si avvicinò allo sport molto presto, ma voleva fare il ciclista. Fu un incidente a suggerirgli di dedicarsi al calcio: «È stata la mia fortuna, come sono stato fortunato ad arrivare alla Juventus: pensate che era sempre stato il mio sogno. In camera, da ragazzino, avevo i poster appesi con l’immagine dei miei idoli bianconeri».

MASSIMO BURZIO, DA “HURRÀ JUVENTUS” DELL’APRILE 1984
Massimo Bonini il maratoneta. Corre il sanmarinese, corre su e giù per il campo, la chioma bionda che pare gonfiarsi al vento e farlo diventare ancor più veloce. Ma Massimo non è soltanto un podista, anzi. Trapattoni e Furino (e loro di mediani se ne intendono!) lo stimano e lo considerano quasi indispensabile al gioco della Juventus. L’allenatore ha plasmato Bonini disciplinandolo tatticamente e tempestandolo con consigli e suggerimenti, in allenamento come in partita.
Il Capataz (al quale, non scordiamolo, Bonini ha tolto il posto) è il primo tifoso del buon Massimo e spesso dice: «È un ragazzo d’oro, ha fiato, volontà ma anche tecnica e senso del gioco. La maglia numero quattro, che fu mia per tante stagioni, è indossata davvero da un giocatore meritevole».
Bonini è stato spesso definito un Benetti giovane. Ma, probabilmente, del roccioso Romeo Bonini non ha il tiro. O meglio in una Juve dove sono così tanti i cecchini, il sanmarinese preferisce portare le munizioni piuttosto che sparare.
Oramai Bonini è un titolare quasi inamovibile ma, giustamente, non si illude e dice: «Quando arrivai alla Juve sapevo di aver raggiunto il massimo. Ma il brutto, il difficile cominciava soltanto in quel momento. Si trattava di dimostrare ai dirigenti, a Trapattoni, ai compagni, quanto valevo e chi ero. I dubbi erano tanti, le emozioni e le paure parecchie. Ho fatto tutto quanto potevo e ora le cose stanno andando per il verso giusto. Ma il successo è più difficile da mantenere che da conquistare. Non posso sbagliare. È necessario ancora imparare, ancora combattere».
Bonini è un ragazzo serio, lo si capisce da quanto dice, ma soprattutto è un professionista nel senso più largo del termine. Silenzioso ma non musone, misurato quando occorre, è tanto ermetico fuori dal campo (entra ed esce dallo spogliatoio e passa senza mai dar troppa confidenza) quanto vulcanico in partita. E come se i silenzi del pre-partita diventassero grida e urla durante il match. Bonini è capace di bruciare l’erba per due o tre volte da una porta all’altra senza mai fermarsi, senza mai commettere errori. Platini, dicono, sia incantato dal dinamismo di Massimo, dalla sua grandezza nella modestia e non possa fare a meno del suo apporto. E il transalpino non pensa d’avere accanto un gregario, un portatore d’acqua, ma un compagno che con il suo gioco copre e apre varchi nelle difese avversarie e velocizza il gioco juventino.
Il generale coro di elogi che accompagna Bonini è stato ribadito e amplificato anche dalle molte presenze di Massimo con la maglia azzurra dell’Under 21. Presenze che non potranno, per ora, aumentare nel numero perché una singolare sentenza dell’UEFA ha sancito che chi, come Bonini, è cittadino della Repubblica di San Marino non può giocare con la Nazionale italiana.
Così Massimo è diventato straniero per l’UEFA, ma resta calcisticamente italiano per la Federcalcio, visto che a tutti gli effetti può giocare nel nostro campionato: «È stata una cosa stranissima. Tutto subito m’è dispiaciuto, ci tenevo alla Nazionale. Ma tengo anche al mio stato di cittadino di San Marino e non cambierò certo nazionalità. Se, in futuro, l’UEFA rivedrà le proprie posizioni, allora tutto tornerà a posto. Diversamente va benissimo così. La mia Nazionale non esiste (San Marino non ha una federazione calcio e non ha giocatori, oltre a Bonini, in grado di giocare ad alti livelli) ma non mi preoccupo. Mi basta la Juve. E in bianconero che, ogni partita, io do il mio esame di laurea».

NICOLA CALZARETTA, DAL “GUERIN SPORTIVO” DEL MARZO 2018
“Reliquosvos libero ab utroque homine” ossia: “Vi lascio liberi da ambedue gli uomini” che, all’epoca in cui la tradizione fa risalire i fatti, IV secolo dopo Cristo, erano l’Imperatore e il Papa. A pronunciare la solenne frase fu un tagliapietre dalmata chiamato Marino (poi diventato Santo) che si era rifugiato sul Monte Titano per sfuggire alle persecuzioni di Diocleziano e lì poi aveva dato vita a una comunità cristiana. Quelle parole, dette poco prima della morte avvenuta nel settembre del 301, sono a fondamento dell’indipendenza di San Marino. Uno stato autonomo, libero, neutrale. È qui, nella più antica Repubblica al mondo, posta a confine tra l’Emilia Romagna e le Marche che il 13 ottobre 1959 è nato Massimo Bonini, il biondo mediano della Juventus di Platini, attualmente direttore tecnico della nazionale sanmarinese. Ed è qui, nel suo ufficio di Serravalle, che ci incontriamo. Fisicamente è identico a quello delle figurine, compresi i capelli, sempre folti e biondi. Sulle pareti molte tracce fotografiche del suo passato da calciatore, soprattutto quello a tinte bianconere. Con la maglia numero quattro della Juventus ha speso la parte migliore della sua carriera, dal 1981 al 1988 vincendo quasi tutto. Prima c’era stato il Bellaria del primissimo Arrigo Sacchi, il Forlì e il Cesena (con promozione in A nel 1981). Dopo la Juve, il Bologna fino al 1993, prima del ritorno a “casa” con tanto di maglia della Nazionale di San Marino, nata ufficialmente nel 1990 e con cui ha collezionato diciannove presenze. Un giusto, ma tardivo, risarcimento dopo il divieto della Fifa nei primi anni Ottanta che gli aveva impedito di poter indossare la maglia azzurra della Nazionale italiana.
Quanto ti è pesato tutto questo? «Un po’, anche perché ero nel giro dell’Under 21 e una mia convocazione da parte di Bearzot era pensabile. La decisione della Fifa fu cervellotica, anche perché San Marino all’epoca non aveva una sua rappresentativa. Di fatto voleva dire, per me, non avere alcuna chance di indossare la maglia di una nazionale maggiore».
A meno che tu non rinunciassi a essere cittadino della Repubblica di San Marino. «E perché avrei dovuto farlo? Io sono nato qui, sono sanmarinese da sempre. Il legame con il nostro piccolo stato è forte. Non sai la soddisfazione e l’orgoglio che ho provato nell’indossare la maglia della Nazionale di San Marino. Anni fa sono stato a Detroit, dove c’è da tempo una comunità di sanmarinesi. Sono stati momenti bellissimi, dove il senso di appartenenza si è toccato con mano. Certo, mi è dispiaciuto non aver potuto giocare con la nazionale italiana, ma va bene lo stesso».
Anche perché c’era la Juventus che compensava. «La dimensione internazionale me l’ha data ampiamente la Juve. Tra il 1983 e il 1985 ho disputato tre finali continentali e una mondiale. Senza contare le coppe ogni anno e le amichevoli in giro per il mondo. E poi c’era quella definizione di Boniperti che mi faceva gonfiare il petto».
“Bonini è il nostro terzo straniero”. «Proprio quella. Era un complimento, un riconoscimento, a sottolineare l’importanza del mio apporto alla causa. Eravamo ai primi anni di riapertura delle frontiere, il calciatore straniero era visto come un qualcosa in più. Non necessariamente un fenomeno tecnico, ma un giocatore capace di alzare comunque l’asticella della qualità e della personalità della squadra. E, con Platini e Boniek, il presidente metteva anche me».
A proposito di Boniperti, cosa ti colpì di lui nei primi incontri? «Il carisma, la competenza, la fame di vittorie. E, ovviamente, il contratto già predisposto in tutto. “Firma qui, se vinciamo avrai dei buoni premi” Ed io firmai per tre anni».
E dei capelli non ti disse nulla? «Come no. E non solo la prima volta. Ma io, che non volevo tagliarli, li bagnavo, così da farli apparire più corti. Poi per un certo periodo ho rinunciato al caschetto, pettinandoli all’indietro, ma lui sbuffava sempre».
Come sei finito alla Juventus? «Dopo la promozione in A con il Cesena nel 1981 sembrava tutto fatto con la Sampdoria. Un giorno, però, mi telefona il nostro diesse, Pierluigi Cera: “Se ti chiamano quelli della Samp, tu digli che non ci vuoi andare. Stai tranquillo, c’è qualcosa di più grosso sotto”».
Era la Juventus. «Durante la stagione era venuto a osservarmi Romolo Bizzotto, il vice di Trapattoni. Aveva amici a San Marino, io lo avevo conosciuto anni prima. Se ne è andato poco tempo fa, mi è dispiaciuto molto perché lui per me è stato un grandissimo maestro. Una persona dotata di enorme umanità che ha lavorato molto per i giovani, quasi sempre nell’ombra».
Alla Juve con quale spirito vai? «Intanto ci fu una seconda telefonata di Cera: “Ti aspettano a Torino per la firma del contratto”: Presi la mia Fiat 131, da solo, non avevo agenti. Ero felicissimo, ho sempre tenuto per la Juventus, dalle nostre parti è abbastanza radicato il tifo per i bianconeri. Durante il viaggio, però, mi vennero a mente mille cose, compreso il fatto che era la prima volta che mi allontanavo veramente da casa. In più facevano capolino anche i timori. “Ma che ci vado a fare alla Juve?”».
Da cosa erano mossi quei pensieri? «La Juve è la Juve. Vai a giocare, ma anche a competere con campioni veri. Io ho iniziato a fare sul serio col pallone a diciassette anni. Da piccolo ho fatto tutti gli sport dal baseball al ciclismo. Si giocava vicino casa a Serravalle, in via Ponte Mellini, per puro divertimento. A dirla tutta il mio sogno era diventare maestro di tennis, pensa un po’».
E il calcio come ha prevalso? «Merito di Pietro Paolini, il mio primo mister, colui che più di tutti mi ha trasmesso la passione. Mi propose di giocare nella Juvenes, la squadra della parrocchia di Don Peppino Innocentini che lui allenava. Per problemi di tesseramento, però, dovettero falsificare il cartellino. Giocavo con un altro nome: Stefano Benedettini. E poi nel 1977 ci fu subito la Serie D per merito di Dante Maiani ed Ermanno Ferrari che mi segnalarono al Bellaria. Mi fecero fare un provino a Fusignano nel torneo “Sacchi; intitolato alla memoria del fratello di Arrigo. Test superato e a diciotto anni è iniziata la mia vera carriera da calciatore».
Come Bonini o Benedettini? «Massimo Bonini di Alfredo detto Coppi, per la sua passione per il grande ciclista. Lo chiamavano tutti così. Quando sono andato a Detroit, la gente mi salutava: “O ma tu sei il figlio di Coppi”. Mio babbo era una persona speciale, di una simpatia incredibile. Diceva di aver giocato a calcio e anche bene. Lo vidi solo una volta in azione, in mutande, con noi ragazzini, in una partita per strada. Era tifoso della Juve, aveva una ditta di costruzioni. Arrivava a casa e diceva: “Ho comprato quel terreno”. E mia madre: “E con quali soldi?”. “Non ti preoccupare”: questa la risposta, accompagnata da un sorriso che diceva tutto. Ha dato lavoro a tantissimi sanmarinesi. Un uomo generoso e felice della felicità degli altri».
Lavoravi anche tu? «Ce n’era per tutti. Sono stato spesso su cantieri. Mi capitava di comandare la gru per scaricare il materiale dal camion. Poi davo una mano al bar di famiglia, gestito da mia madre Annamaria. Era conosciuto come “Bar Coppi”, tanto per cambiare. Diventò poi una tavola calda e anche una balera, nei locali sottostanti. Ho dei ricordi bellissimi dei quegli anni. Per la musica c’era il giradischi. Le luci psichedeliche, invece, le facevamo mettendo della carta velina colorata sui neon che venivano spenti e accesi dal babbo».
Torniamo al Bellaria. «Era allenato dal primissimo Arrigo Sacchi, che non poteva però sedersi in panchina. Andava in tribuna, ma non riusciva a stare seduto, correva più di noi. Era già molto avanti rispetto ai tempi. Non lo potevo dire io in quel momento, questo l’ho capito dopo. I suoi insegnamenti tattici sono stati utilissimi per me. Gli piacqui subito. A inizio stagione facemmo una prima partitella tra titolari e riserve, io ero tra queste. Dopo il primo tempo mi mise tra i titolari. E non sono più uscito. Quell’anno feci trentatré partite, quindi ci fu il salto di categoria in C con il Forlì e nel 1979 addirittura il Cesena in B. Giocare con la maglia del Cesena, a vent’anni, era già un sogno. Accanto al tifo per la Juve, c’è sempre stata la passione per l‘altro bianconero. Andavamo a vedere tutte le partite casalinghe, ricordo le tribune in tubi innocenti. L’anno delle targhe alterne, poi, facevamo delle vere e proprie “macchinate” da San Marino, visto che per noi il divieto non operava. In più il Cesena veniva spesso quassù da noi a fare le amichevoli. Io ero lì come raccattapalle. Mi è capitato qualche volta di fare dei tiri in porta a Boranga. L’ho ritrovato parecchi anni dopo a “Quelli che il calcio”, quando si ripetevano le azioni dei goal. Un fisico della madonna e un’elasticità da urlo, un fenomeno».
Chi ti volle al Cesena? «Mi segnalò Arrigo Sacchi, che allenava la Primavera».
Curiosità: ma Sacchi ti ha mai cercato dopo? «Una volta, quando era al Milan, sapeva che ero in scadenza. Io gli dissi che se la Juve non mi avesse rinnovato il contratto, ci avrei pensato. Ricordo che ne parlai con mio padre, che di solito mi ha sempre lasciato fare. Quella volta mi disse: “Se vai al Milan, perdi due tifosi: me e la mamma!”».
Torniamo al Cesena. «Due anni bellissimi, era come stare in famiglia. La ciliegina sulla torta fu la promozione in A al termine della stagione 1980–81 con un centrocampo composto da giovanissimi: Piraccini, Lucchi e il sottoscritto, poco più di sessant’anni in tre. Grande merito va comunque al mister Osvaldo Bagnoli, altro maestro, con il suo stile e la sua personalità. Poche parole, molto fatti, la ricerca della semplicità. E poi una notevole libertà per noi giocatori che ci sentivamo così maggiormente responsabilizzati».
Hai un’immagine simbolo dentro dite di quella fantastica annata? «Il mio goal di testa all’Atalanta nella penultima giornata di campionato, quella della matematica conquista della Serie A. Dopo arrivò anche il 2–0 di Garlini. Ricordo la grandissima gioia per il traguardo raggiunto in un campionato di B “anomalo”; con Milan e Lazio retrocesse per il calcioscommesse e dunque, ancora più difficile e competitivo».
E arriviamo quindi alla Juventus e al misto di gioia e timori. «Ventidue anni, mai fatto il settore giovanile, e adesso mi ritrovo in mezzo a gente che fino a un minuto prima ho in visto in TV: Zoff, Scirea, Tardelli, Furino, Cabrini. Dall’altra parte c’era però una grande determinazione e un entusiasmo a prova di bomba. E poi se mi avevano voluto, significava che le qualità c’erano».
Tra l’altro per il tuo acquisto, la Juve investì molto. «So che il Cesena incassò 700 milioni delle vecchie lire, oltre al cartellino di Verza e la metà di quello di Storgato. Una bella responsabilità anche quella, va detto».
Il primo giorno da juventino lo passi interamente con Paolo Rossi. «Facemmo i fidanzatini per una giornata intera, dalle visite mediche alle prime foto ufficiali con la nuova maglia. Ovviamente gli occhi erano tutti per lui, il vero acquisto boom di quell’anno, anche se ancora sotto squalifica. Di me non si filava nessuno. Giusto così. Pablito era Pablito, un centravanti di un’intelligenza tattica unica. Avere davanti uno così è una manna per i centrocampisti».
Il tuo primo anno alla Juve ti vede in campo ventotto volte, anche se molte come tredicesimo. «Non potevo chiedere di più. Trapattoni mi ha tenuto in grande considerazione fin da subito. Mi ha curato molto tecnicamente. Avevo bisogno di lezioni suppletive e lui mi ha insegnato tante cose, insieme a Bizzotto. Poi, quando si giocava, in un modo o nell’altro, mi metteva dentro. In questo mi ha molto aiutato il fatto che fin da ragazzo, abbia giocato in tutti i ruoli, anche di punta. Un eclettismo che, con i primi insegnamenti di Sacchi, mi ha dato una marcia in più».
Stagione 1982–83, a metà anno ecco il sorpasso definitivo a Furino. «Dico subito che per me Beppe è stato uno dei compagni più belli che ho avuto. Da lui ho appreso molto e lui non si è mai stancato di darmi le giuste dritte. A un certo punto Trapattoni ha preso la decisione e mi ha affidato stabilmente la maglia numero quattro, centrocampista di sinistra. Dico subito che quella è stata la più bella Juve in cui ho giocato. In Coppa dei Campioni si dava spettacolo. Ed io a fine anno fui premiato proprio dal Guerino con il “Bravo” come miglior “under 24” delle competizioni europee».
Tornando al tuo lancio, pare che qualcuno dei tuoi compagni si fosse lamentato per la presenza di Furino e che abbia richiesto la sua esclusione. «Quello che posso dire è che, rispetto all’anno prima, le dinamiche e gli equilibri della squadra erano cambiati. Erano arrivati Boniek e Platini. C’era Tardelli sul centro destra, Bettega e Rossi in avanti. C’era bisogno di qualcosa di diverso in mezzo al campo e forse di maggiore freschezza. Se poi vuoi sapere se si discutesse con il mister, anche animatamente, ti dico di sì. E a volte erano siparietti tutti da gustare. Boniek per esempio, quando il Trap gli chiedeva di fare certi movimenti, rispondeva: “Sono venuto in Italia per giocare con palla al piede” e il mister: “Ed io ho vinto scudetti con Farina e Marocchino”!».
E Platini? «Michel era più furbo, lo faceva con sarcasmo e ironia. Anche se poi, quando è stato allenatore, ha dato più volte ragione al Trap».
Come è stato il tuo rapporto con Platini? «Molto bello. Lui aveva una particolare attenzione per i più giovani. Quando aveva la casa libera, ci invitava lì a passare la serata. Con me poi, giocava a tennis. Era molto bravo, anche se abusava con le pallette sotto rete e i pallonetti. Mi faceva impazzire. E poi erano ironico e intelligentissimo».
La battuta sulle sigarette è passata alla storia: cosa c’è di vero e di leggenda? «Di vero c’è tutto. L’avvocato Agnelli, altro personaggio straordinario, chiese a Michel di non fumare. E lui, rispose: “L’importante è che non fumi Bonini che deve correre”».
Fumavi molto? «Pochissimo, quasi nulla. Ci avevo dato un po’ da ragazzo, mia sorella fumava. Io “rubavo” le sigarette dal bar di famiglia, le davo a lei e ai miei amici di nascosto, e qualcuna la tenevo per me. Una volta mi beccò mio babbo che mi rincorse per tutta la casa».
Correvi tanto? «Correvo bene. Il mediano è un ruolo delicato. È come il batterista di una rock band: deve dare i tempi. E poi deve capire in anticipo come si sviluppa il gioco, saper dialogare con i compagni, preparare le linee di uscita della palla. In quella Juve lì, anche se mi sarebbe piaciuto, la metà campo l’ho superata poche volte. Perché era utile e funzionale che rimanessi dietro a dirigere».
In campo come era Platini? «Era esigente, bofonchiava sempre, non gli andava mai bene nulla. Ma questo era uno stimolo forte. A dire il vero questa era la cifra di quella Juventus. La cura del dettaglio, la ricerca della perfezione. Ricordo Zoff che in allenamento, ti rincorreva fino a metà campo se avevi commesso un errore. Le partitelle erano partite vere e proprie, la domenica ci riposavamo (ride). E poi c’era un grande senso di appartenenza, la voglia di andare oltre l’ostacolo. Cabrini ha giocato una stagione intera con due stecche di ferro a protezione del ginocchio, incredibile».
Alla Juve hai vinto molto, che bilancio fai? «La Coppa Intercontinentale va sopra tutto perché sancisce la fine di un percorso di successi precedenti. Non sento di aver vinto la Coppa dei Campioni del 1985. Non si può morire per andare a vedere una partita. Noi giocatori sapevamo pochissimo, quasi nulla. L’Heysel è una tragedia che ancora oggi fa malissimo».
La delusione più cocente? «Atene 1983. Sbagliammo tutto. Quando l’arbitro fischiò la fine, ebbi la sensazione che la partita fosse durata dieci minuti».
Una sola volta espulso, vero? «Per somma di ammonizioni; il secondo giallo per proteste al 90’ Ci tengo a questo dato. Non ero uno tenero in campo, ma ho sempre giocato nel rispetto delle regole».
L’avversario più ostico? «Lo spagnolo Juan Lozano che giocava con l’Anderlecht, difficilissimo da marcare. A seguire Falçao, un fuoriclasse».
E quello più cattivo? «(ride) Salvatore Bagni: una volta quando era al Napoli gli detti una gran stecca e lui mi cercò per il resto della partita per ricambiare la cortesia. Ma non mi beccò».
Il goal da ricordare? «Il sinistro all’incrocio nel 2–0 all’Inter il 23 marzo 1986, su assist di Platini, beffando Zenga. Tardelli che era all’Inter, alla fine della partita mi fa: “Proprio qui dovevi fare goal, e di sinistro, poi!”».
La sensazione più strana? «Quando sei sul pezzo ti godi poco le vittorie. Alla Juve poi è ancora più complicato. Si guarda subito al traguardo successivo. C’è più gusto adesso, rivivendo ricordi ed emozioni come in questa intervista».
Nel 1988 lasci la Juve, perché? «Non mi divertivo più. Con mister Marchesi non è andata come si sperava. Sbagliai anch’io a tirarmela un po’; può capitare: Dovevo andare alla Lazio, invece poi spuntò il Bologna. Cinque anni in rossoblù che ricordo con piacevolezza, nonostante le turbolenze societarie e le retrocessioni».
Quale è la cosa più bella che ti ha lasciato lo sport? «L’amicizia, i legami nati al campo di allenamento che durano tuttora, il ritrovarsi dopo tanti anni e abbracciarsi. Perché alla base di tutto c’è stata la passione, il divertimento, la gioia di aver fatto parte di una squadra».
 


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