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Gli eroi in bianconero: Kurt HAMRIN

di Stefano Bedeschi

Figlio di un imbianchino, il piccolo Kurt nasce come calciatore già a cinque anni, quando entra nei pulcini dell’AIK Solna, squadra di un sobborgo della capitale svedese Stoccolma. È vispo, astuto e intelligente; sul campo, gli spunta una minuscola cresta dì capelli: da pulcino si trasforma velocemente in galletto. Kurt è sempre l’ultimo a lasciare lo stadio; rivestiti i panni borghesi, si ferma per ore e ore ad ascoltare i racconti degli anziani, che parlano di geni del football emigrati in Italia per formare un trio leggendario, il GRE-NO-LI.
Cresce, così, nella cultura del pallone, stimolato da quelle storie lontane, ma anche da tecnici più terra-terra che per lui prevedono un radioso futuro. A quattordici anni, è costretto a lasciare la scuola per trovare un lavoro, in quanto la famiglia necessita di un aiuto immediato, trovandosi in difficoltà economiche. Sceglie di fare lo zincografo e, dopo una dura giornata di lavoro, si sobbarca lunghe trasferte per gli allenamenti.
Debutta giovanissimo in Serie A, la notissima Allsvenska: i suoi goal non fruttano alcun titolo all’AIK, ma a livello personale lo lanciano nell’Olimpo nazionale. Debutta con la casacca gialloblu della Nazionale svedese, andando a segno, di media, una volta ogni due partite: un buon bottino per un ragazzo di nemmeno ventuno anni.
Sandro Puppo, che allora allenava una strana Juventus fatta di ragazzi e due o tre vecchi assi, fu spedito a valutare quel ventenne descritto come un campione assoluto. Puppo, dottore non solo in calcio, tornò deluso: «Non vale».
L’Avvocato lo pregò di riprovare; Puppo salì sull’aereo per Lisbona, assistette a Portogallo-Svezia e tornò a Torino con un: «Mi ero sbagliato», che cambiava il destino di quel giovane svedese.
Passò alla Juventus per quindicimila dollari che allora, nel 1956, equivalevano a nove milioni e mezzo. Due campionati più tardi sarebbe stato ceduto alla Fiorentina per una cifra dodici volte superiore. La Juventus di allora era una squadra in via di ricostruzione ma ancora lontana da un decisivo rafforzamento. Vivacchiava a metà classifica, preceduta non solo da Milan e Inter, Torino e Fiorentina, ma anche da Lazio e Udinese e perfino da Padova e Spal.
L’esordio avvenne all’Olimpico contro una Lazio fortissima e piena di ex juventini. Uno di questi era Muccinelli, anche lui ala destra, un idolo del tifo bianconero. Fu una sorprendente vittoria bianconera con un goal dello sconosciuto Donino, che sostituiva Boniperti, e due di Hamrin, uno alla Mortensen in piena corsa e l’altro su rigore. La domenica successiva conquistò il pubblico torinese, segnando il goal della vittoria sulla Spal e offrendo al compagno Stivanello, il pallone del secondo, dopo aver scartato anche il portiere. Insomma, dette spettacolo e fu il migliore in campo. Poi cominciarono i guai.
Otto giorni dopo, a Genova, scontro con il terzino Becattini, partita finita in anticipo, prime assenze. I giornali scrivevano che Hamrin aveva restituito per incantesimo la snellezza e il brio, l’estro e la finezza. In quel campionato saltò una dozzina di partite e nacque una maldicenza, quella della caviglia di vetro, una delle ragioni che lo allontanarono dalla Juventus. L’altra, quella più vera, fu l’arrivo di Charles e Sivori. Allora non esisteva la possibilità di tesseramento per tre stranieri nella stessa squadra e così Hamrin fu dirottato al Padova, in prestito.
Proprio da Padova veniva Bruno Nicolé, l’enfant prodige del calcio italiano di quegli anni: giocava centravanti ma fu lui a prendere il posto dello svedese, all’ala. Prima di trasferirsi, Hamrin partecipò, ai primi di luglio a una tournée nella sua Svezia. Cinque partite in undici giorni: furono cinque vittorie. Più che un quintetto d’attacco sembra una provocazione: a destra, appunto, Hamrin, poi Boniperti, poi Charles, Sivori, infine Stivanello. In cinque partite, segnarono trentasette goal.
La Juventus vinse lo scudetto 1958, ma trovò uno degli avversari più accaniti proprio nel Padova che aggiungeva al suo formidabile blocco difensivo l’irresistibile freccia svedese (trenta partite, venti goal). Nereo Rocco aveva scoperto una soluzione ai guai ortopedici di Hamrin: una speciale soletta nella scarpa del piede più volte infortunato, le caviglie del giocatore ora sembravano di acciaio.
A stagione conclusa Hamrin giocò ancora e segnò in maglia bianconera, partecipando tra i campioni d’Italia a un torneo con squadre inglesi e belghe a Bruxelles. Poi l’addio definitivo: partì per la Svezia per i mondiali; fu autore di goal magnifici e figurò tra i protagonisti della famosa finale contro il Brasile del diciottenne Pelé. A settembre fu acquistato dalla Fiorentina, con la quale segnerà 150 goal in nove anni.
A Padova Rocco lo aveva soprannominato Faina; a Firenze lo chiamarono dapprima Bimbo per il suo sguardo mite e furbo, il ciuffo biondo, il fisico da ballerino. Poi anche Bimbo non fu più adatto a quel cannoniere dall’aria gracile e diventò, definitivamente, Uccellino, visto come correva in campo, a volte quasi zampettando, a volte in volo radente sempre pronto alla beccata decisiva.
«Ha un cronometro svizzero in testa – diceva Nereo Rocco – in fondo non ha niente di trascendentale, né il dribbling, né il tiro, né il colpo di testa. Ma nessun giocatore al mondo possiede la sua scelta di tempo nei rimpalli, nelle mischie, negli appuntamenti con la palla. Lui vince sempre con una frazione di secondo».
A trentatré anni Hamrin passò al Milan e per poco non scoppiò la rivolta; gli intellettuali fiorentini furono addirittura sul punto di riunirsi per firmare un manifesto contro la partenza di Uccellino. Con la maglia rossonera, Hamrin riuscì finalmente a vincere il suo primo scudetto nel 1968. Lo tolse, naturalmente, alla Juventus di Heriberto, alla quale aveva segnato, a Torino, il goal decisivo nello scontro diretto. Uno dei suoi ultimi goal.

ANGELO CAROLI
Nelle interessanti pagine del libro “Gli Agnelli e la Juventus” scritto da Mario Pennacchia, leggo che Sandro Puppo si era recato due volte in Svezia per visionare quell’uccellino talentoso. Solo dopo il secondo approccio, l’allenatore aveva stilato una relazione positiva. Kurt era un ragazzo dolce, con uno sguardo sereno, gli occhi brillavano di nostalgia per la sua terra. Proveniva dall’AlK di Stoccolma, la furbizia intuitiva e la rapidità erano le virtù più evidenti. Aveva una falcata cortissima, il suo correre ricordava il pedonare svelto e un po’ claudicante dei volatili, lo chiamavano Uccellino, giocava ala destra e stava sempre in agguato, pronto a ribattere in goal una respinta del portiere o un rinvio maldestro dell’avversario. Non ebbe fortuna nella prima stagione italiana, i terzini lo maltrattavano, fu relegate per molte domeniche in infermeria, esplose nella stagione 1957-58, quando trovò protezione nei padovani Blason, Azzini e Scagnellato, i quali promettevano botte a chi osava importunare l’uccellino venuto dal freddo. Ricordo che il numero più efficace di Hamrin era quell’eseguire l’uno-due con le gambe dell’avversario. Si avvicinava al terzino, gli gettava il pallone sugli stinchi, ne raccoglieva il rimbalzo e volava via sul lungo linea per concludere l’azione con tiro oppure con cross basso.
 


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