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Gli eroi in bianconero: Jurgen KOHLER

di Stefano Bedeschi

Il suo primo mese italiano scrive Maurizio Crosetti sul “Gerin Sportivo” del 25 settembre - 1° ottobre 1991 –, Jürgen Kohler l’ha trascorso distribuendo sorrisi: un po’ perché si tratta di un simpatico naturale, un po’ perché non capiva un accidente di quello che gli dicevano. Così è vissuto in simbiosi con Stefan Reuter, il quale sapeva da un anno che sarebbe venuto da queste parti e ha provveduto studiando. Kohler era ritenuto quasi un optional.
Stopper duro, rude, forse ruvido, scoperto dai dirigenti bianconeri durante trasferte organizzate per vedere altri (appunto Reuter, e poi Möller), ma preteso da Trapattoni. Così gli è toccato di improvvisare, nei dialoghi impossibili e nel primo assaggio di vita torinese. Ne è risultato un totale sconvolgimento delle attese: perché si ipotizzava un robusto difensore centrale e s’è invece scoperto una formidabile «diga umana». Altro che Piedi di Ferro, il soprannome che s’è portato in dote da noi. Basta osservarlo quando avanza e smista precisi palloni ai compagni: c’è sicuramente il velluto, attorno al ferro. Quella che segue, è la prima intervista di Kohler senza l’ausilio dell’interprete. Reuter, per una volta, è stato lasciato in pace. «Capisco quello che mi dite, il problema è spiegarmi». Certo, se dovessimo scrivere in tempo reale non basterebbero dieci pagine...
– Jürgen, l’Italia se l’aspettava proprio così? «Gli amici, e in particolare i compagni di Nazionale, mi avevano detto le solite cose. Bei posti, gente cordiale, buona cucina. Devo ammettere che la prima impressione corrisponde, però è presto per giudicare. Finora ho visto solo campi di calcio, stadi, alberghi. Un po’ poco. Però Torino mi piace».
– Quando ha saputo che sarebbe diventato bianconero? «Verso la fine di giugno. La certezza è arrivata una sera: stavo in albergo al mare, in Toscana. Che bello interrompere le vacanze e raggiungere Torino...».
– L’Italia l’ha colta di sorpresa? «Non proprio. Dai Mondiali dello scorso anno sapevo che il vostro Paese sarebbe stata la mia prossima destinazione, ma non immaginavo in quale squadra avrei giocato. La Juventus è come il Bayern in Germania, cioè il massimo. Però ho temuto di non arrivarci mai: leggevo di incomprensioni tra i dirigenti bianconeri e quelli bavaresi, questioni di soldi. Poi tutto è andato a posto».
– Che impressione le ha fatto Trapattoni? «È identico alla definizione di Klinsmann: più tedesco di un tedesco!».
– Pensa che i successi di una squadra si costruiscano prima di tutto in difesa? «No, non è vero. È il centrocampo il reparto più impor tante, ed io stesso ho iniziato lì. Forse è per questo che mi trovo a mio agio quando avanzo, palla al piede. Non amo le specializzazioni esasperate: se una punta non difende, è incompleta. E se un difensore non sa anche attaccare, è limitato».
– Qual è l’avversario che le ha creato più problemi? «Tutti dicono Van Basten, ma è un’assurdità. Contro di me l’olandese ha segnato una sola rete importante, nella semifinale degli Europei ‘88. Quel giorno ho vissuto la più grande delusione della carriera, perché quella manifestazione dovevamo vincerla. Dopo, però, ho sempre bloccato il milanista, in Nazionale a Italia ‘90, in Coppa dei Campioni e nell’amichevole di agosto. Mi è spiaciuto che in campionato contro di noi non ci fosse».
– Ha parlato della delusione maggiore. E il momento più brutto? «L’infortunio ai legamenti della caviglia destra, due anni fa. Temevo potesse compromettere la mia carriera».
– Udo Lattek l’ha definita «lo stopper più forte d’Europa»: quali sono stati, oltre a lui, i suoi maestri? «Devo tutto a Klaus Schlappner, il tecnico che mi lanciò nel Waldhof Mannheim e mi fece esordire nella Bundesliga. È stato un padre, per me. Il mio vero papà non l’ho neppure conosciuto, perché morì subito dopo la mia nascita».
– Ci parli della sua famiglia... «Ho tre fratelli più grandi e nessuno gioca al calcio. Mi sono diplomato meccanico automobilistico, ma a diciotto anni ero già professionista. In officina ci sono andato per pochi mesi, però mi piaceva. Mia madre Elfride avrebbe voluto che cercassi un posto in banca: calcio a parte, credo che non ce l’avrei fatta. Non ho mai amato lo studio».
– Cosa le piace, invece? «La cucina tedesca, in particolare le bistecche di maiale, le “schweinbraten”. Non male gli spaghetti, anzi i sughi: non immaginavo ne esistessero tanti. Lo stesso vale per la pizza: sempre pensato che ce ne fosse un tipo solo. Invece è un problema scegliere... Non mi piace il vino: bevo Coca Cola e birra».
– Quali sono i suoi hobby? «Ascolto la musica soft, leggo i libri di Konsalik, mi diverte il tennis. Comunque sono un tipo tranquillo, casalingo. Io e mia moglie Esther abbiamo appena trovato casa insieme ai coniugi Reuter: tra poco ci trasferiremo nel parco della Mandria, in una villetta bifamiliare immersa nel verde. Per me è fondamentale una bella casa tranquilla: della Germania mi manca soprattutto la mia abitazione di Grunwald, un luogo molto elegante».
– Qual è stato l’anno più piacevole della sua vita? «Finora, il ‘90. Ho vinto il titolo mondiale, il campionato tedesco e soprattutto mi sono sposato. Adesso voglio un figlio italiano, che nasca e viva qui, che impari a sentirsi cittadino del mondo».
– Ha già pensato al dopo calcio? «Lo vedo lontanissimo. Comunque, credo che curerò la mia agenzia di assicurazioni a Monaco».
– Qual è la persona che stima di più, nel suo lavoro? «Sono due: Lattek e Beckenbauer. Ma l’elenco sta per allungarsi con nomi italiani».
– È stato facile l’inserimento nella Juventus? «Facilissimo. Tutti molto simpatici, specialmente Tacconi. Mi ha fatto un sacco di scherzi durante il ritiro di Vipiteno e mi ha dato un soprannome: Kohlerone».
– Si è scritto e detto molto, a proposito della sua cattiveria non solo agonistica: conferma? «Ma no, sono fantasie. In otto anni di carriera non mi hanno mai espulso, e nessun mio avversario si è infortunato seriamente. È chiaro che nel mio ruolo i colpi si prendono e si danno, però io non esagero mai».
– E i famosi tacchetti al limite del regolamento? «Una leggenda anche quella. È una storia vecchia. Quando giocavo nel Waldhof Mannheim, il mio allenatore mi suggerì di usare tacchetti lunghi 18 millimetri per aumentare l’aderenza al terreno negli scatti. Però non mi sono mai sognato di trasformarli in armi improprie. Anche in Germania, del resto, le suole vengono controllate dall’arbitro...».
– Com’è cambiata la sua vita, a livello di popolarità, da quando gioca nella Juventus? «Sembrerà strano, ma gli sportivi tedeschi mi seguono più adesso di prima. L’Italia è una pubblicità meravigliosa: figuratevi che una rete televisiva di Monaco ha appena dedicato a me e Reuter uno “speciale” di mezz’ora. Mai successo».
– Pensa che la sua nuova squadra sia già una grande squadra? «Difficile dirlo, ma certo lo diventerà. Non mi pare che esista una formazione in grado di dominare il campionato: siamo al livello delle migliori, cioè le due milanesi, la Sampdoria e la Roma. Non vedo perché non si possa vincere lo scudetto al primo tentativo».
– Lei è razionale, misurato, deciso, entusiasta: neppure una debolezza? «Una veramente esiste: i dolci mi fanno impazzire. E a Torino ci sono certe pasticcerie...».

È, probabilmente, uno degli stopper più forti nella storia della Juventus. Forza atletica, velocità nell’anticipo, capacità di uscire in avanscoperta offensiva, quasi imbattibile di testa, spietato nella marcatura ma anche capace di avventurarsi nelle aree avversarie, soprattutto in occasione dei calci piazzati, per fare gol. Talmente forte da essere uno dei pochi in grado di opporsi a Marco Van Basten e di limitare alla grande gli effetti dirompenti del centravanti olandese. 
Nato a Lambseheim, il 6 ottobre 1965, piede d’acciaio e cuor di leone, straniero nella terra che per definizione ha dato i natali ai difensori più grandi, insegna l’arte della dedizione e dell’assalto anche ai più qualificati colleghi nostrani. Beniamino dei tifosi per il suo temperamento battagliero, è presente 27 volte (con 3 reti) nella stagione del debutto, e diventa un mito l’anno dopo, con 29 presenze, un gol e un apporto decisivo alla conquista della Coppa Uefa.
Ma non si ferma qui, risultando tra i più forti anche nelle due stagioni successive, e chiudendo il ciclo bianconero con lo scudetto e la Coppa Italia ‘94–95: «Mi ricordo l’esordio nel campionato tedesco, da quel giorno non ho più mollato il posto da titolare. I veterani della squadra mi accettarono subito con simpatia. Il Waldhof era appena stato promosso nella Bundesliga; avevo un mister molto esigente, ma anche umano, Klaus Schlappner. Mi teneva in campo più degli altri per insegnarmi a crossare in corsa. Voleva uno stopper capace di sganciarsi a sostegno delle punte. Gli devo molto per il mio perfezionamento tecnico».
In Nazionale ha debuttato a vent’anni; il grande Franz Beckenbauer, è sempre stato un suo grande estimatore: «Jürgen è uno che non perde mai di vista l’avversario, la sua concentrazione è massima. L’anticipo, perentorio, rappresenta una delle sue doti migliori. Un allenatore con lui va sempre sul sicuro».
Ritorna in Germania, ma non più nella sua Baviera. Passa al Borussia Dortmund e proprio con i gialloneri della città della birra darà una grossa delusione ai suoi vecchi tifosi, battendo appunto la Juventus a Monaco nella finale di Champions League del 1997. «I miei ricordi più belli con la Juventus? Al primo posto il rapporto con i tifosi; sono davvero eccezionali, hanno sempre dimostrato di avere grande fiducia nei miei confronti. E... quel derby!».
Derby, parola magica; è il 3 ottobre ‘93. C’è aria di stracittadina sotto la Mole e le due squadre danno vita a una delle sfide più intense ed emozionanti di tutti gli anni ‘90. Primo tempo esaltante; segna Conte, pareggia l’ex Daniele Fortunato. Ancora vantaggio bianconero, con Andy Möller e repentino 2–2 del granata Sergio. Ripresa molto più tranquilla, in attesa del colpo risolutivo, che arriva; azione sulla destra di Soldatino Di Livio, perfetto traversone e, a centro area, ecco spuntare l’attaccante che non ti aspetti. È Jürgen Kohler; colpo di testa vincente e corsa sotto la curva Scirea a festeggiare con i tifosi impazziti di gioia.
«Io sono tedesco, ho giocato in squadre importanti in Germania, ma il mio cuore è solo bianconero. Sono orgoglioso di aver potuto fare parte di questa società ed anche di aver potuto vincere qualcosa di importante con questa prestigiosa maglia».
Parole splendide e sincere, che arrivano direttamente dal cuore.

LA MAGLIA DELLA JUVE, 2 LUGLIO 2017
Quando Jürgen Kohler compariva sui teleschermi, e Bruno Pizzul si trovava al microfono, il cantore friulano non mancava di sottolineare con la sua cadenza inconfondibile: «Kohler, la sua maschera». E faceva bene: Jürgen Kohler era la personificazione della concentrazione.
Tedesco nella professionalità, tedesco nella fisicità, contrassegnata dal baricentro alto e dalle lunghe gambe innervate da fasce muscolari impressionanti (impressionarono lo stesso Del Piero, al suo primo allenamento coi “grandi”), latino nel cuore e nell’anima. Kohler era anche formalmente, non solo sostanzialmente, lo stopper per antonomasia. L’ultimo degli stopper di un calcio che andava tramontando, ma il suo sincero affetto per i colori bianconeri non è affatto tramontato.
Ricordando i tempi che furono, non può non citare Antonio Conte, suo amico e compagno di squadra. «Conte ed io abbiamo anche condiviso la stanza molte volte. Si vedeva che sarebbe diventato allenatore, per come si dava da fare in allenamento e per quello che faceva per la squadra. Ma era anche un narciso. Diceva sempre: “Sono il più bello!”. Con il Trap e Lippi, non aveva problemi, anzi: non è un caso che molti allievi di Lippi siano diventati allenatori. I suoi allenamenti erano ogni giorno un insegnamento per noi tutti, dal punto di vista tattico e fisico. Mentre ci faceva sudare, ci trasmetteva l’essenza stessa della sua professione. E imparavamo. Il migliore dei due? Non saprei. Ma sono stati i migliori che abbia mai avuto. Non ho mai litigato con loro. Due gentlemen, sempre corretti, aperti, disponibili. Trapattoni era un grande motivatore e aveva un rapporto eccezionale con i giocatori. Lippi invece aveva un’incredibile attitudine al successo, al risultato. Mai vista una cosa simile».
Eisenfuss rimpiange il calcio dei suoi tempi sotto diversi punti di vista, e non dimentica (e ci sembra ovvio, dato il suo carattere) il rapporto speciale che aveva con i fan. «Ai miei tempi il calcio, almeno in Italia, metteva davvero in campo tutte le sue eccellenze e avevi un rapporto molto più schietto con i tifosi. Che bei tempi. Oggi non è più così. Il ruolo del difensore è cambiato in peggio: i difensori non difendono più come un tempo, anche perché in campo devono fare molte altre cose, soprattutto tanto gioco. E quindi dietro si tende a stare sempre più a zona. Non si insegna più la vera arte del difendere e non ci allena più per questo».
Jürgen invita, non a torto, il calcio italiano a ripensarsi anche sotto il piano della programmazione, specie quella dei giovani, che sono la base di un movimento. «Penso che l’Italia dovrebbe agire come la Federazione tedesca dal 2002 in poi: puntare tutto sui vivai, seguire lo sviluppo calcistico di bambini e ragazzi dentro e fuori la scuola, migliorare le infrastrutture che hanno arricchito la Bundesliga, rischiare i giovani in Nazionale, come ha fatto il commissario tecnico tedesco Joachim Löw. Così sono nati Reus, Götze... Dopo la vittoria al Mondiale nel 2006, l’Italia ha invece fatto molto poco per il proprio futuro».
Ultime battute sull’Italia e sulla Juve. «L’Italia di Conte ha fatto bene agli ultimi Europei ma mancava di qualità. E senza qualità non vinci. Se la Juve dovesse vincere la Champions League sarei l’uomo più felice del mondo. Ma la vedo molto dura. Sono stato un difensore, e quindi comprendo a pieno il loro valore, ma Buffon, Chiellini, Barzagli e Bonucci non possono bastare. Hanno una certa età e questo pesa soprattutto in un calcio sempre più tecnico, veloce e dinamico. E il basso livello della Serie A certo non aiuta».
Jürgen Kohler è rimasto com’era. Duro, corretto, sincero.
 


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