Gli eroi in bianconero: John CHARLES
Alla fine di un derby, il gigante buono John Charles mostrò, nello spogliatoio, la spalla nuda sulla quale erano rimasti in modo molto chiaro dei segni di denti, perché lo stopper avversario lo aveva morsicato, per fermarlo in qualche modo. A chi gli chiedeva come mai rideva della cosa, John fece rispondere da Sivori, il quale precisò che se mai il gallese si fosse arrabbiato e avesse messo in atto qualsiasi reazione, il dentuto sarebbe morto. Una volta finì contro un palo e rimbalzò inanimato, mentre il palo vibrava. Molti spettatori pensarono all’infortunio del calciatore, ma fu, invece, la tragedia del palo che prese a muoversi a ogni sollecitazione, perché l’urto gli aveva tolto la guaina stretta del terreno. Charles si rialzò quasi subito, scrollando la testa come a rimproverarsi.
Per averlo dal Leeds, la Juventus diede al club inglese, i soldi per ampliare la tribuna del proprio stadio: Prima di fare una stagione breve e infelice alla Roma, Charles riuscì a sistemarsi nella galleria dei grandissimi della Juventus, con un gioco fisico e potente, in contrasto con quello sfavillante e ubriacante di Sivori, con il quale si integrava alla perfezione.
Parlò sempre poco l’italiano, e i colleghi garantivano che parlava poco anche l’inglese. Arrivò a Torino nel 1957 con già tre figli (Sivori, tre anche lui, ne ebbe due quando già stava a Torino) e trovò sempre riparo in essa.
In campo era un grande, riusciva a conciliare la mole con l’estetica, la potenza con la precisione, la gagliardia con la realtà. I compagni lo ammiravano devotamente, gli avversari lo temevano rispettosamente. Chi era costretto a piantargli i denti nella spalla, in realtà doveva imporsi la cattiveria, perché John era uno di quelli che attiravano strette di mano. Una volta raccontò di quando, nel Galles, fece il suo primo viaggio con la squadra. Era in treno, passò quello con i panini offerti dalla società, lui aveva fame, allungò una mano, un anziano della squadra gliela trapassò con un coltello e gli spiegò che aveva mancato sul piano dell’educazione e lo ammonì a dare sempre la precedenza a quelli più vecchi.
John aveva avuto anche esperienza in miniera: lo obbligarono a incidere un disco, raccontando questa storia; lui sosteneva che non era giusto, lui era fortunato e basta, la miniera gli era servita per fargli vedere com’era bello il mondo al di sopra.
Aveva una velocità progressiva notevole e quando capitava che travolgesse un avversario, John subito lo aiutava ad alzarsi e gli chiedeva scusa. Una volta venne a giocare a Torino l’Arsenal e il centromediano era suo fratello, Mel: si diedero sanissime botte per novanta minuti, un bel western di famiglia: mai una cattiveria, sempre un’onesta gagliardia. Fu uno spettacolo.
Disse di lui Farfallino Borel: «Sono oltre trent’anni che seguo il gioco del calcio e posso dire che mai nessun atleta mi ha impressionato nel gioco di testa, come Charles. È senz’altro favorito dalla statura, ma sa contemporaneamente saltare e colpire, con una precisione mai vista fino a quel momento. Nel gioco di testa è completo, sa effettuare il tiro diretto in porta con precisione e potenza e, nel medesimo tempo, sa effettuare il passaggio breve e preciso, per mettere il compagno nelle condizioni migliori per giocare la palla».
John Charles era molto timido. Mai visto uno così rapido nell’arrossire, anche per cose di poco conto. Un cromatismo alla Mammolo di Biancaneve, dolce e assurdo in un uomo così grosso, così forte. John ebbe fama anche per come, unico forse al mondo, seppe reprimere, sino allo schiaffo, l’allegria isteria di Sivori in un match milanese di Coppa Italia. Omar aveva per John un rispetto terribile, nel senso che lo notificava sempre a John, per farlo arrossire, ma intanto lo coltivava pure, lo ammetteva, ne riconosceva la profonda giustizia.
Il compagno Garzena, racconta: «Prima delle partite, avrebbe potuto mangiarsi una bistecca alla valdostana, con il formaggio e tutto il resto. E non aveva mai una lira in tasca; John non aveva mai capito troppo bene il cambio tra lire e sterline, era poco attento ai soldi e all’amministrazione del denaro. Capitava spesso che gli dovessi pagare persino il cinema. Che giocatore, però! Quello che fece nel primo anno alla Juventus, tra goal fatti, goal salvati e assist, non ho mai più visto farlo a nessuno».
Dice di lui Jack Charlton: «John Charles era un uomo squadra. La gente spesso mi chiede chi sia stato il miglior giocatore che abbia mai visto. Ed io rispondo che probabilmente sono stati Eusébio, Di Stéfano, Cruijff, Pelé o Bobby Charlton. Ma il calciatore più efficace che abbia mai visto, quello che ha maggiormente migliorato le squadre in cui giocava, è stato John Charles».
Ancora John: «Boniperti impostava dalla metà campo le nostre azioni. Omar, in fase avanzata, deliziava noi e il pubblico con impareggiabili serie di tocchi, di passaggi e di tiri diabolici. Quando la difesa marcava lui, doveva necessariamente concedermi una libertà, che mi consentiva di piazzare tiri in rete e colpi di testa. Quando i difensori, invece, si gettavano in massa su di me, la stessa libertà di azione, veniva concessa a Sivori e dare respiro a Omar significava incassare delle reti ed essere beffati».
E ancora, quando decise di lasciare la Juventus: «Rimpiango di non essere arrivato prima in Italia, in questo paese magnifico, fatto per gente eccezionalmente simpatica. Se così fosse stato, anche la mia famiglia avrebbe assimilato, come ho fatto io, il vostro modo di vivere. Ma adesso avverto il bisogno di tornare a casa; i miei figli cominciano a essere grandi e mia moglie Peggy sostiene che non possiamo più perdere del tempo. Dovranno vivere in Inghilterra, è necessario che, nel minor tempo possibile, diventino inglesi. Per questo John Charles, vi lascia e vi saluta; io, lo giuro, sarei rimasto tra di voi per sempre. Ma non posso! Non posso proprio!»
John Charles ci ha lasciato il 21 febbraio 2004. Lo chiamavano ogni tanto a Torino per qualche partita di vecchie glorie, il fisico era sempre buono, il suo colpo di testa sempre letale. John trovava sempre gente che gli ricorda un suo goal, e le emozioni e commozioni a esso legate, e lui, gentilissimo, faceva finta di ricordare perfettamente ogni particolare.
D’altronde i suoi goal, di testa o di piede, furono sempre molto simili, perentori e sonanti, largamente annunciati da un volo, da un’avanzata, senza troppa invenzione e fantasia. I suoi goal non facevano arrabbiare i portieri, erano goal buoni, chiari, semplici. Erano John Charles.
ALBERTO FASANO, DA “HURRÀ JUVENTUS” DEL DICEMBRE 1981
Dico subito che Charles è stato e resta un grande amico della Juventus e dell’Italia. Nella sua autobiografia dal titolo “Good bye Juventus”, il formidabile giocatore gallese ha scritto, infatti, che se Gigi Peronace, il talent scout che organizzò il suo trasferimento alla Juve, lo avesse scoperto a diciotto anni, quando ancora aveva sulle mani i calli del lavoro e in corpo tanta forza da spendere, molto probabilmente John sarebbe sceso tra noi senza il biglietto di ritorno per il suo verde paese.
Quando arrivò in Italia per giocare centrattacco della Juventus, Charles aveva già alle spalle dieci anni di attività svolta nelle file del Leeds. Le caratteristiche fisiche e tecniche erano identiche: stessa potenza, stessa vitalità, stesso agonismo. Già allora il suo pezzo forte era il colpo di testa. Lo stesso John raccontava perché era diventato così bravo: solo di rado il giovanissimo stopper poteva allenarsi sul campo della prima squadra e allora si divertiva a ribattere la palla di testa contro il muro degli spogliatoi: ore e ore di esercizi; e alla fine non trovò più giocatore che arrivasse sui palloni alti con prontezza e potenza pari alla sua.
Nel 1949, John indossò per la prima volta la maglia della Nazionale del Galles nel match con l’Irlanda. Aveva solo diciotto anni. Non era stato un esordio esaltante, ma il buon Charles non ebbe nemmeno il tempo per riflettere sui molti errori commessi che si ritrovò sotto le armi per il servizio di leva.
Lo mandarono a Darlington, una cittadina distante cento chilometri da Leeds. Dopo aver fatto il ragazzo di fatica negli stadi il giocatore diventò di colpo carrista, costretto tutte le mattine ad alzarsi alle cinque, vestire la tuta mimetizzata e lustrare quei maledettissimi carri armati sui quali un tenente pignolo trovava sempre qualcosa di sporco. La sua piccola fama di calciatore servì tuttavia a salvarlo in tempo. Fu aggregato alla compagnia sportiva e ogni settimana poté fruire di tre giorni di licenza per giocare le partite di campionato con il Leeds. Pareva aprirsi un periodo felice!
Un giorno il capitano Smith si accorse che il soldato semplice John Charles era alto 187 centimetri e pesava settantacinque chilogrammi: «Tu diventerai un grande pugile – gli disse – al reggimento manca un peso medio per i campionati militari!»
Lo mandarono in palestra, gli insegnarono che cos’era il gancio e l’uppercut. John è sempre stato essenzialmente un buono: saliva perciò sul quadrato con una paura matta di far male all’avversario (ed anche di farsi male). Alla fine del primo e unico anno di attività pugilistica, il suo ruolino parlava di dieci vittorie su dieci incontri, cinque ai punti e cinque per KO. Ma a John Charles, chiaramente, il pugilato non interessava affatto. E venne in suo soccorso il maggiore Gordon, appassionato di calcio e più alto in grado del capitano Smith. Alla nazionale militare occorreva un centromediano: e Charles tornò ai verdi rettangoli del calcio.
Nel 1951, tra incontri giocati per la Nazionale Militare e quelli disputati per il Leeds, toccò il limite record di 100 partite in nove mesi. Due anni dopo portò la sua Peggy all’altare, quella Peggy che poi gli regalò tre stupendi ragazzi, forti come il padre: Terry, Melvin e Peter.
All’inizio del 1957 Gigi Peronace, incaricato da Umberto Agnelli di portare alla Juventus un forte centrattacco, fece senza riserve il nome di John Charles. In Italia la cosa non era sfuggita ad altre società. La Juve aveva offerto 55.000 sterline; offerte maggiori furono fatte dalla Lazio (attraverso l’allenatore inglese Mister Carver) e dall’Inter (per interessamento del General Manager signor Valentini). Il Real Madrid arrivò addirittura a offrire 70.000 sterline. Ma la Juventus era arrivata prima e Umberto Agnelli, dopo aver visto personalmente all’opera il giocatore gallese nel confronto internazionale tra Galles e Irlanda, firmò il contratto con Mister Sam, presidente del Leeds. La firma avvenne in una sala del Queen Hotel.
John Charles arrivò in Italia il 3 aprile 1957. In serata, con un volo da Roma, il gigante gallese era a Caselle. Il giorno dopo era già in campo per un provino-allenamento. Giampiero Boniperti fu il primo a stringergli la mano e a consegnargli la maglia bianconera con il numero nove sulla schiena. Poi John tornò per breve tempo in patria e diventò italiano l’11 giugno di quello stesso 1957. Nella Juventus, oltre a Boniperti, trovò quell’altro fuoriclasse che era Omar Sivori.
I tre campioni si integravano a meraviglia: Boniperti e Sivori mettevano a disposizione di Charles i tesori della loro classe, della visione di gioco, del palleggio, del mestiere; e il grande King John sfornava reti su reti: ne segnò ventotto in trentaquattro partite nella sua prima stagione in bianconero, stagione che, non c’è nemmeno bisogno di ricordarlo, si concluse con la vittoria dello scudetto. John non ha mai dimenticato l’esplosione di gioia con la quale fu festeggiato quel grande successo. I tifosi, che già avevano da dividere le loro simpatie tra Boniperti e Sivori, avevano trovato un nuovo idolo.
È chiaro che le difese di tutto il campionato si coalizzarono, invano, per frenare l’impeto irresistibile di quel gigante che partiva da lontano con velocità sempre crescente e che non si arrestava se non quando aveva visto la palla in fondo la rete. Charles di botte ne prese moltissime, ma non ricordo un suo gesto di reazione, un suo fallo cattivo. Durante una partita nella quale aveva preso calci e gomitate un po’ da tutti, si rivolse a Boniperti dicendogli con aria supplichevole: «Boni, fai tu qualcosa, difendimi: io non ne sono capace!»
Era di una bontà incredibile. Nel corso di una gara molto equilibrata con l’Inter, mentre il risultato era fermo sullo 0-0, Charles correva verso la porta avversaria, affiancato da un avversario; nel tentativo di svincolarsi, senza intenzionalità, John diede una gomitata in un occhio al neroazzurro; l’arbitro non fischiò e il centrattacco juventino ebbe via libera. Ma John, il Gigante buono, si arrestò e soccorse l’avversario caduto a terra.
Tra i tanti goal epici realizzati da Charles, vorrei ricordarne uno messo a segno al Comunale contro il Bologna. Un’azione di contrattacco, con John che partì dalla propria area di rigore, puntando diritto verso la porta rossoblu. Se non ci fosse stato l’urlo della folla, si sarebbe potuto sentire lo scalpitare dei suoi zoccoli di bufalo lungo tutto il campo. In quegli ottanta metri gli si pararono contro almeno in sei avversari, spingendolo, urtando, cercando con ogni mezzo di fermarlo. John non si fermò: sbuffando come un treno, abbassando la testa come un rinoceronte, scardinò ogni ostacolo, riuscì a trovare la coordinazione per un breve scambio con un compagno ed entrò in rete con la palla al piede.
Guardarlo da vicino quando entrava in campo, metteva paura, incuteva rispetto. Era un gigante tirato su a bistecche, spalle fortissime, lombi muscolosi, cosce corte e dure, resistente alla fatica, atleticamente irresistibile. Nelle mischie il suo balzo veniva fuori rapido, come quei barattoli cinesi dai quali, svitato il coperchio, scatta su la testa di un drago. Quella di Charles era una testaccia da catapulta, che sparava più forte e più fulminea delle sue scarpe. La sua potenza era contrappesata da un incredibile equilibrio morale, dalla lealtà, dalla coscienza che egli non stava guerreggiando, ma giocando a football per divertire il pubblico e far punti per la sua Juventus.
Il suo corpo era irregolare, disarmonico: gambe corte, come ho già detto, fianchi bassi, piedi piccoli. Una macchina, però, che risultava perfetta quando si metteva in movimento per catapultare il pallone nella rete avversaria. Il suo modo di correre era addirittura buffo, con quelle lunghe braccia ciondoloni lungo i fianchi, più avanti del corpo, lasciando i polsi disarticolati. Aveva un gioco semplice, ma estremamente redditizio, i suoi passaggi perfetti, specie se effettuati di testa: in area di rigore terrorizzava le difese.
Quando era lanciato pareva un carro armato, munito di un solo cannone, la testa, che demoliva i più solidi muri umani. Malgrado fosse e si sentisse un autentico cannoniere, John non fu mai un egoista nel gioco: per lui era importante soprattutto che la sua squadra facesse i goal, non che li segnasse lui personalmente. Ha lasciato in tutti i bianconeri e negli sportivi italiani un ricordo affettuoso, carico di simpatia e amicizia.
Restò alla Juve sino al 15 aprile 1962, per cinque stagioni; poi passò alla Roma. E infine fece ritorno al verde Galles. Ricordo quanto scrisse un pittoresco cronista inglese sul “New Chronicle” quando il mondo calcistico d’oltre Manica fu informato che Charles sarebbe passato dal Leeds alla Juventus: «Se ne va John Charles, il calciatore che ha le fattezze di Marlon Brando, la struttura di un peso massimo, le gambe di un velocista in bicicletta, il fiato di una tigre e il mortale morso di un cobra».
Una serie di frasi che strapparono a John un largo e divertito sorriso. Ogni tanto John torna ancora da noi, magari per divertirsi insieme ai vecchi amici in una partita di vecchie glorie. Lo accogliamo sempre con immenso affetto.
ANGELO CAROLI, DA “HURRÀ JUVENTUS” DELL’APRILE 2004
In questa circostanza dolente vorrei essere un semplice amico di John, un ex compagno di squadra e non un giornalista. Non sarei costretto a scrivere sulla scomparsa di un giocatore immenso e di un grande uomo mite, con l’animo fanciullo. La professione mi obbliga a scrivere molto di lui quando invece vorrei tenermi ogni ricordo dentro, dosare i pensieri, rievocarli con delicatezza, metterli in fila. Una fila gioiosa e intanto malinconica. Ma tenuta per me, custodita fra le cose belle, bellissime e irripetibili, di un passato oramai remoto.
Ora che John ha lasciato un vuoto e un buio enormi dentro tutti noi, sento che devo raccontare il primo giorno che lo vidi spuntare dal cancello del Combi. Era in divisa e sembrava un gigante. Tanta folla si era radunata attorno all’ultimo fenomeno del pallone che il dottor Umberto Agnelli aveva acquistato dal Leeds. Alla competenza del Dottore era stato suggerito da Gigi Peronace. Era il maggio del 1957.
Qualche mese dopo sarei andato in prestito al Catania. Sono transitati davanti ai nostri occhi stanchi quarantasette lunghi anni. L’arrivo di John fu accolto da molti tifosi e da una giornata scintillante. Indossava una giacca blu con tre file di leoni ricamati in oro sul petto. Il viso sembrava radunare tutte le scaglie di un sole tiepido. Ai tifosi deve essere apparso come un semidio. Si esibì. Calzava un paio di scarpe con bulloni di metallo, non se n’erano viste prima in Italia. Impressionarono la corsa in accelerazione, il colpo di testa straordinario, la forza d’urto. Un cemento armato che toccava la palla in modo scarno, essenziale e molto efficace.
Strinse mani entusiaste, ricevette auguri e complimenti, salutò e ripartì per Swansea, in Galles, dove era nato. Quando tornò a Torino, un paio di mesi dopo, si inserì in un organico rivitalizzato dall’arrivo di un altro asso del pallone, Omar Sivori, e di un giovane promettente, Nicolé. Boniperti pilotava una truppa di uomini esperti miscelata con elementi maturati in un paio di stagioni congiunturali.
A Ljubiša Broćić, allenatore jugoslavo, bastò poco per capire come la Juve dovesse attaccare gli avversari: un passaggio largo di Boniperti, un cross di Stivanello, un colpo di testa di Charles e i giochi erano fatti. Il pallone finiva in rete o sul mancino perverso di Omar che completava l’opera. Stupendo!
Quei fenomeni stavano aprendo un ciclo. Io ero in mezzo a loro, a novembre sarei partito per la Sicilia, ma intanto mi lasciavo suggestionare dai talenti che mi correvano vicino. Sivori, Emoli e Stivanello divennero gli amici più stretti di Long John.
Ma chi era veramente Charles? Lo chiamano Gigante Buono. Riduttivo. John era un immenso professionista. Un atleta dalla continuità e dal rendimento impressionanti. Uno sportivo incapace di sotterfugi, di ipocrisie e doppiezza, rasentava il paradosso con quella concezione leale dell’agonismo. Si ispirava a un rigore comportamentale che un giorno lo spinse a schiaffeggiare Sivori attanagliato da una sorta di trance isterica. Il campione deve essere un esempio, sembrava minacciare John con occhi che restavano buoni.
Devo ricordare i tre scudetti vinti da lui, la capacità di riconvertirsi come centromediano o libero (lo ricordo in un match di Coppa dei Campioni nel 1962 ad Atene, contro il Panathinaikos, ero tornato alla Juve, giocavo al suo fianco e mi sentivo protetto come se viaggiassi su una corazzata).
Ed ecco altre immagini vincenti, la corsa che travolgeva, una corsa a passi rapidi visto che era di bacino basso. Un caterpillar che temeva di fare male, di nuocere. E intanto gli avversari lo riempivano di botte come fosse un pung-ball. Lui taceva e andava avanti. Boniperti e Colombo lo invitavano a farsi furbo, almeno a difendersi. Lui rispondeva con un sorriso e una signorilità da cui era lecito trarre utili insegnamenti. Come dimenticare i colpi di testa che ricordavano arieti e catapulte! E il tiro simile a una frustata. Sento nostalgia e tristezza mentre mi aggrappo a tali memorie tecniche. Però a me preme raccontare, soprattutto ai giovani che non lo hanno conosciuto e ammirato, altre immagini della sua storia favolosa.
Un giorno, non ricordo mese e anno, si scontra a metà campo (siamo al Comunale) con l’avversario, un tipo forte come una quercia di fusto corto: Bernasconi della Sampdoria. L’impatto è tremendo, ha la peggio il doriano che rotola a terra fra gemiti. Disco verde per John. Davanti ha solo il portiere, però si accorge dell’avversario che geme. Si blocca e scaraventa la palla in zona laterale. Dopodiché soccorre Bernasconi. Tanti applausi per il suo cuore immenso.
Fra gli aneddoti tramandati di generazione in generazione c’è anche un impatto rovinoso contro un palo, durante un match con la Fiorentina. I pali, all’epoca, sono spigolosi. Nel catapultarsi sul pallone finisce contro un legno e poi rovina a terra. Lo stadio resta muto, come avvolto da una grande farfalla silenziosa. Il gigante è a terra. Il gigante quasi non respira. Il gigante ha gli occhi chiusi. Si riavrà poco dopo, stordito ma pronto a offrire altri show. Il Comunale è di nuovo in festa.
Indimenticabili anche i fotogrammi che lascia in Versilia, quando in vacanza si esibisce in un night. La sua voce sembra arrivare dalle vie di New Orleans e offre al pubblico le note malinconiche di “Sixteen tons” e “The end”.
John nasce a Swansea il 24 dicembre del 1931, suo padre è stato calciatore nello Swansea Town. Nelle file dei ragazzi della squadra cittadina John milita dal 1938 al 1945. In prima squadra debutta a diciotto anni. Il ruolo? Centromediano. In Nazionale esordisce l’8 marzo del 1950, contro l’Irlanda, e disputerà i Mondiali del 1958. Passa al Leeds e sfonda, in ogni senso, come centravanti. La stampa locale non si dà pace per il trasferimento, come i supporter. È intanto finito il tempo della spola da un ruolo all’altro, stopper, terzino, mediano. I tecnici fanno luce sulle sue capacità. La stazza (1,87 per ottantaquattro chili) secondo taluni dovrebbe essere un limite per un centravanti. Profezia errata e smentita dai fatti. Solo il servizio militare gli toglie spazio. Mentre serve la patria fa persino il pugile. Vince parecchi incontri, alcuni per KO. Sono gli unici scampoli violenti di un’esistenza pacifica.
La firma con la Juve risale al 18 aprile del 1957. Costo 110 milioni di lire, a lui ne vanno diciotto. In Inghilterra diventa un caso.
«Dopo Firmani, trasferito alla Sampdoria, se ne va anche Charles. Il nostro calcio dovrebbe riflettere», scrive il “Times”. Con la maglia bianconera si aggiudica tre scudetti e due Coppe Italia. Nel primo anno conquista il titolo di capocannoniere con ventotto reti. Mostruoso! A Torino lascia un’eredità esemplare oltre alle 150 partite in campionato e novantatré reti. Resta fedele alla Juve fino alla primavera del 1962, quando il colore della maglia diventa giallorosso. Si separa da Torino poiché Peggy vuole tornare in Inghilterra. John cede, ma una volta a Leeds e dopo un’offerta della Roma e l’ennesimo litigio con la moglie accetta un ingaggio per un anno. Gioca dieci partite e segna quattro goal.
Quando torna in Galles milita prima nel Cardiff e poi nello Hilford United. Si stabilisce a Leeds e non si stacca più dall’ambiente del club che lo aveva lanciato. E dai pub dove beve birra e intanto rievoca storie fantastiche con amici ed ex compagni di squadra. Poi divorzia dalla moglie Peggy e conosce Glenda, una donna amorevole e presente. Vivrà sempre con lei. John ha quattro figli, Terry, Melwyn che ha giocato a rugby di buon livello, Peter e David.
Lo rivedo qualche anno dopo grazie alla passione di Bruno Garzena e di Benito Boldi, amici ed ex colleghi. John crea puntuali sensazioni inebrianti. Ci si diverte fra vecchie glorie e lui è sempre un monumento. La vita, a un certo punto, sembra voltargli la faccia. Gli sta sempre vicino Glenda, con disperata devozione. Finché irrompe il destino malevolo. E maligno. Glenda lo fissa negli occhi sempre più spenti e gli dà tanto amore.
John è malato, John ha avuto un ictus. John è sempre più lontano dalla vita, dagli amici, dai tifosi, dall’Italia e dal suo Galles. È oramai lontano da tutto. A Milano tentano di riaccendere speranze. L’organismo è logoro, si avventano su di lui complicazioni fatali. A disarmonizzare il battito cardiaco e ad appannare la lucidità si insinua un morbo implacabile. Subisce perfino una mutilazione al piede destro. Tante persone gli sono accanto: Umberto Agnelli («È stato uno dei grandi nella storia della Juve, uno che si faceva amare in campo e fuori»), Boniperti, Leoncini, Castano, Benito Sarti, Emoli, Garzena, Bettega e, soprattutto, Boldi. E ovviamente la dirigenza bianconera. Perché torni a Leeds la Juve gli mette a disposizione un aereo ambulanza. E a Leeds viene a mancare all’affetto di Glenda e dei figli. È il 21 febbraio. Sono le cinque del mattino.
Ora che attorno alla sua immagine solare si sono spenti i riflettori non mi resta che dire addio, con pianto silenzioso, al professionista impeccabile, all’omone mite dall’animo fanciullo adorato dai tifosi, stimato e rispettato dagli avversari.
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