Gli eroi in bianconero: Giuseppe MEAZZA
Cannoniere di purissima razza, molto dotato tecnicamente, è uno dei giocatori più completi della ricca storia del nostro calcio. Soprannominato Balilla, è l’inventore del famoso goal “a invito”: tarda il tiro, lascia la prima mossa al portiere e lo infila freddamente sull’uscita. Meazza, è tre volte capocannoniere del campionato (nel 1930 con 31 goal, nel 1936 con 25 e nel 1938 con 20) ed al termine dell’attività i suoi bersagli sono 267 che lo collocano sul terzo gradino assoluto dei cannonieri della Serie A.
Proprio a Meazza è legato il periodo più aureo della storia della Nazionale della quale è a lungo l’autentico fiore all’occhiello. Dal 1930 al 1939 in Azzurro gioca 53 partite (17 volte con i gradi di capitano) e realizza 33 reti che fino all’avvento di Gigi Riva ne fanno il bomber assoluto. Con la Nazionale si assicura la Coppa Internazionale nel 1930, il titolo mondiale nel 1934, nuovamente la Coppa Internazionale nel 1935 ed ancora il Mondiale francese del 1938. Nel 1940, dopo quasi un anno di lontananza dai campi di gioco per un intervento chirurgico (causato da una insufficiente circolazione sanguigna verso gli arti inferiori), approda al Milan dal quale si separa dopo un paio di stagioni per accasarsi alla Juventus.
Il Pepp di Porta Romana (lì era nato, nel cuore della Milano popolare) aveva ormai trentadue anni, anche se lo chiamavano ancora Balilla. Erano molto lontani i tempi di una canzoncina molto in voga: «La donzelletta vien dalla campagna, leggendo la “Gazzetta dello Sport” e come ogni ragazza, lei va pazza per Meazza, che fa reti a tempo di fox-trot».
Di goal ne aveva segnati quasi 250 per i colori dell’Inter, anzi dell’Ambrosiana come si diceva allora, e l’ultimo in Nazionale (quello epico, su rigore, contro il Brasile, tenendosi i calzoncini perché s’era rotto l’elastico) risaliva ad oltre quattro anni prima. La sua lunga storia, che faceva parte del costume italiano anni trenta, aveva subito brusche svolte: prima il “piede gelato”, poi l’incredibile passaggio sulla sponda rossonera, al Milan, anzi al Milano come si diceva allora, dove aveva disputato un campionato e mezzo.
Firmò il contratto per la Juventus sdraiandosi, per scrivere meglio, sull’erba del Comunale torinese dopo aver interrotto l’allenamento, già in maglia bianconera. Il suo debutto (18 ottobre 1942) avvenne in un derby. Il Torino era all’alba della sua memorabile stagione e schierava già il mitico attacco, da Menti a Ferraris. Si era alla terza giornata, nelle prime due la Juventus aveva solo pareggiato. Meazza scese in campo con il numero otto, aveva intorno vecchi compagni del mondiale vinto a Parigi (Foni e Locatelli), Carletto Parola, un centravanti albanese (Lushta), il più giovane dei Varglien, l’altra mezzala era Sentimenti III, fratello del portiere Cochi.
Non fu un esordio molto felice. Meazza era poco allenato, sembrava addirittura ingrassato, lento nei movimenti. Così quando entrò in area a tu per tu con il portiere Cavalli, mentre la folla si aspettava uno dei suoi celebri “goal ad invito”, non ebbe la necessaria rapidità di movimenti e finì per perdere ingloriosamente il pallone. La partita fu poi vinta dal Torino 5-2. Le cose andarono meglio in seguito, Meazza si spostò al centro dell’attacco e regalò alla Juventus dieci goal: ne segnò 2 anche alla sua Ambrosiana e quello che fece all’Arena fu quasi uno sberleffo alla nostalgia. Disputò 27 partite su 28: l’addio fu un disastro collettivo, la Juventus, terza in classifica, fu travolta a Torino dal Vicenza che doveva salvarsi. Un incredibile 6-2 al quale non badò nessuno: era l’ultima domenica di calcio e la guerra stava per cancellare il campionato, insieme a tante altre cose della vita di tutti i giorni.
Disputa con il Varese il campionato di Guerra 1944, nell’Atalanta il primo campionata postbellico e poi torna all’Inter con la quale vive la drammatica stagione 1946-47 nella quale la squadra nerazzurra rischia addirittura la retrocessione. Nelle vesti di allenatore, carriera che intraprende al termine dell’attività agonistica, guida per un paio d’anni l’Inter, poi si trasferisce alla Pro Patria e per una stagione, con Beretta nelle vesti di commissario tecnico, allena la Nazionale azzurra.
VLADIMIRO CAMINITI: Musica maestro, ed era musica. Voglio dire il calcio del fabuloso Balilla detto dagli amici, un esercito di amici, un mare di amici e di ammiratori, Pepp, vincitore della classifica marcatori nel campionato a girone unico (il primo) 1929/30, con 31 goal, nella sua Ambrosiana tricolore, ed in onore del quale i milanesi alla vecchia Arena intonavano una canzone apprezzatissima dall’interessato, cui le ragazze piacevano: “Una ragazza per Meazza”. Giorni di onirica semplicità, se vogliamo, quelli di Meazza. Due scudetti, due campionati del mondo, un asso assoluto e conclusivo, anche da mezzala, un asso unico, forse il più magno centrattacco dell’intera storia della pedata italica. Esordio in Nazionale a diciannove anni, Italia-Svizzera 4-2 (un goal), la sua prima impresa storica data tre mesi dopo, Budapest, Italia 5 Ungheria 0 (l’Ungheria di Larcos, Hirzer e Tiktos), di Meazza i primi tre travolgenti goal. La Juventus lo ebbe nei giorni dolorosi ed affranti della guerra, ormai si cibava del suo mito, senza per questo rinunziare a prodezze tipiche del suo impareggiabile repertorio di finisseur e goleador. Il goal alla Meazza, con l’invito al portiere, scartato per depositare la palla a destinazione, mentre la folla plaudiva estasiata. Il fascismo volle farne l’araldo di tutta la sua politica, gli fu appioppato quel Balilla guerresco. In realtà, Pepp amava poco allenarsi, si allenava beatamente tra le donne, era un ragazzo semplice e modesto, che in campo si sublimava delle sue doti naturali di attaccante universale. Io lo rivedo a Rapallo, nel 1978, ridotto ad un seggiolone, abbandonato da tutti nel delirio della città dei cementi. Non riuscì a spiccicare parola. Mi toccò raccontare l’amaro crepuscolo di un fuoriclasse dimenticato.
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