Gli eroi in bianconero: Giuliano SARTI
Lo sguardo è limpido – scrive Beppe Barletti, su “Hurrà Juventus” del settembre 1968 –, reso più intenso dal rapido cangiare verde-azzurro dei suoi occhi, freddi e glaciali solo all’apparenza. Le pagliuzze dorate che vi navigano dentro testimoniano di un calore umano senza limiti e senza misure. Longilineo, piuttosto secco e di muscoli allungati, tradisce un non so che di disperatamente nordico nella sua discendenza familiare. Lui, però, è emiliano tutto sangue. È nato quasi trentacinque anni fa, a Castel d’Argile, in provincia di Bologna. Il suo nome è famoso negli annali del calcio mondiale: Giuliano Sarti.
Ha cominciato la sua avventura calcistica nella Bondenese. Lasciò la felice Bondeno a ventuno anni, per passare alla Fiorentina dove, l’anno successivo (stagione 1955-‘56) vinse il suo primo scudetto. A Firenze, città vecchia, gentile e di passioni ardenti, Sarti l’«inglese» rimase nove anni. Se ne andò, destinazione Inter, lasciando largo rimpianto. Non perché il successore, l’agile e funambolico Albertosi, non fosse all’altezza, ma perché a Firenze tifosi, dirigenti e compagni si erano affezionati al suo modo sereno di governare in campo la difesa gigliata. Occhio saldo, cuore intrepido, nervi di acciaio, le sue doti erano rifulse in una serie lunghissima di tornei, passando attraverso tutte le prove più ardue che un calciatore è chiamato ad affrontare.
Nell’Inter kolossal, Giuliano Sarti ebbe un’altra impennata. Già chiamato in maglia azzurra, vinse con i nerazzurri altri campionati e la Coppa dei Campioni, arrivando su, fino al titolo assoluto intercontinentale.
Oggi è juventino, quasi al chiudersi della carriera. Una conclusione che tutti i calciatori vorrebbero avere. Per lui, però, nulla è mutato. Professionista serio quanto preparato, veste al quattordicesimo anno di professionismo, la sua terza casacca.
Nel ritiro di Villar Perosa, entra subito nel grande «giro» dei bianconeri. Non fatica ad ambientarsi. Sereno e intelligente, «lega» d’acchito con l’amico Anzolin, che – d’altra parte – dichiara a sua volta di essere felice di aver così grande compagno al fianco. Con «don Heriberto», ha subito parole chiarissime. Espone il suo caso, il suo modo di allenamento, le sue necessità, i suoi pochi timori, le sue non comuni esperienze. Il paraguayano, lo guarda fisso e con una frase sola liquida la questione: «Con lui non ci sono problemi».
Lo incontro a sera. È l’ora di cena. Abbiamo, sì e no, dieci minuti per chiacchierare.
Si discute delle squadre che l’hanno avuto.
Dice: «Tutto bene a Firenze, il primo amore. Tutto bene anche nell’Inter: c’erano soldi e gloria. Spero bene anche nella Juve, dove tutto è splendore, dove tutto parla di un passato antico e recente, carico di successi e di imprese grandiose».
– Differenze tra Inter e Juventus?
«Per ora non ne trovo – risponde Giuliano – sono juventino da ieri. È troppo presto per tranciare giudizi. D’altra parte, io, giudizi non ne do mai. Cerco di fare il mio dovere, quello che serenamente mi indicano coscienza e ragionamento».
– Paragoniamo Helenio a Heriberto?
«Niente affatto. Primo, non è simpatico fare confronti; secondo: quello che a me pare girato in un senso, magari in effetti è tutt’altra cosa; terzo: ognuno ha il suo carattere, il suo sistema di vita e di lavoro. Paragonare i due, entrambi certamente tra i più bravi, sarebbe mancare di rispetto all’uno o all’altro».
– Cosa l’ha colpita di più, in questo suo primo periodo trascorso alla scuola di Heriberto Herrera?
«L’incredibile, assoluta padronanza del metodo con cui sa allenare gli uomini. Heriberto, credo, sa tutto sul modo più logico e rapido per mettere un atleta al massimo della condizione. Niente, nel suo lavoro, è affidato al caso. Penso che studi di notte quello che fa applicare di giorno. E dopo quindici anni di carriera, posso dire in tutta coscienza che Heriberto Herrera, sul mestiere non certo facile dell’allenatore, sa tutto quello che è possibile sapere».
Sparo l’ultima cartuccia: Lei è, almeno così è stato finora, un uomo tranquillo. Non ha mai creato problemi a nessuno, ha sempre trovato accordo e comprensione con tutti. Come fa?
Risponde con una semplicità che sconcerta: «Nella vita, ogni uomo ha due bisacce sul suo dorso, quella con le cose cattive e quella con le cose buone. Io non mi sono mai curato di quelle cattive: ho sempre accettato quelle buone. Punto e basta».
Giuliano, suo malgrado, viene anche ricordato per la famosa “papera” di Mantova: è il 1° giugno 1967 e si gioca l’ultima giornata di campionato. L’Inter, di scena nel capoluogo virgiliano, è in testa alla classifica, con un punto di vantaggio sulla Juventus; il risultato è inchiodato sullo 0-0 ma, dopo pochi minuti del secondo tempo, Sarti si lascia sfuggire un innocuo cross di Di Giacomo, facendo terminare il pallone nella propria rete. La Juventus batte la Lazio e si aggiudica il 13° scudetto della sua storia.
Sarti è messo in croce, nonostante, appena una settimana prima, fosse stato il migliore in campo nella sfortunata finale di Coppa Campioni contro il Celtic: «Viaggia sempre con me. Me la ricordano tutti, ci è costata uno spareggio. Hanno scritto molto, di tutto. Non ci sono misteri, né disegni: è stato un errore. Non c’era il vento, non c’era il sole, volevo lanciare il pallone a Facchetti sulla sinistra, mi è sfuggito dalle dita. Tutto qui. Un errore che mi ha scosso e che però è ricordato, è entrato nella storia e nelle memorie. E questo, se vogliamo, è pure bello. I giornalisti mi chiamano quando c’è da ricordare una delusione, come la beffa dell’Inter il 5 maggio 2002 a Roma, e fanno i paragoni con la “papera” del 1967. Va bene, sono qui vivo e vegeto e ho una buona memoria».
Veste la maglia bianconera solamente quella stagione, collezionando 10 presenze: «A Firenze ho vinto il primo scudetto, a Torino nel ‘69, penultima giornata, ho rivisto la Fiorentina Campione d’Italia. Quel giorno ha giocato Anzolin, io tifavo per la Viola».
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