Gli eroi in bianconero: Giovanni VIOLA
Nasce nel 1926 a San Benigno Canavese, a venti chilometri da Torino; cresciuto nel vivaio bianconero, è mandato in Serie B a Carrara, in seguito a Como, infine in Serie A nella Lucchese, per fare esperienza e maturare. A ventitré anni, ritorna alla Juventus, quella che, nel 1950, avrebbe vinto il primo scudetto dopo il favoloso e oramai remoto quinquennio d’oro. Il giovane Viola è un portiere atipico per quei tempi, che volevano gli estremi difensori come personaggi stravaganti e un poco matti. È serio e gentile, con la faccia chiara, i capelli impomatati e pettinati lisci all’indietro come certi divi del cinema anni Trenta, che non si scomponevano neppure nelle fasi più concitate del gioco. Il suo stile è sobrio, essenziale, l’uomo è mite, capace di esibirsi in parate meravigliose. «Quando ero agli inizi, ebbi la fortuna di fruire dei consigli di Combi. A volte, dopo una partita, mi prendeva da parte e mi diceva: “Senti, hai incantato il pubblico, non me. La prossima volta, quella palla la prendi stando in piedi!” Il giorno del mio debutto in Serie A, nel 1946, arrivai allo stadio e bussai alla porta del nostro spogliatoio. Entrai solamente dopo che Rava e Varglien mi dissero: “Avanti”».
«In allenamento – racconta Boniperti – i compagni avevano l’abitudine di sfotterlo e non si accorgevano di demoralizzarlo, perché lui aveva bisogno di essere incitato».
Quell’anno disputa un campionato quasi perfetto ad eccezione di una sola domenica disastrosa, come tutta la squadra, quando il Milan vinse a Torino 7-1. Di quella partita ricorda che, per sfuggire ai tifosi inferociti, lasciò lo stadio nascosto nell’auto di Vittorio Pozzo.
Gli capita, anche, di essere arrestato e di passare una notte nelle carceri brasiliane con il compagno Muccinelli, durante una famosa tournée a causa di una rissa in campo. All’uscita la polizia aveva preso, come provocatori, proprio i due più tranquilli: «In un torneo dei campioni, svoltosi nell’estate del 1951 in Brasile, sperimentai, con i miei compagni, il clima da corrida che le squadre italiane ed europee avrebbero, poi, provato nella Coppa Intercontinentale. Al termine di una di quelle partite, ci fu un’invasione di campo, con una gigantesca rissa; il sottoscritto, insieme a Muccinelli, passò una nottata al fresco, per aver preso a pugni un poliziotto in borghese. Adesso ci rido sopra, ma non fu certo uno spasso».
Fine della stagione 1952, quella del secondo scudetto, partita casalinga contro il Novara. Viola, che non protesta mai e si arrabbia solo quando incassa un goal, ha un battibecco con il tedesco Janda. L’arbitro, il napoletano Marchese, decide che per quei due la partita è finita. Escono a braccetto, Viola a torso nudo, poiché la maglia l’ha lasciata a John Hansen.
Viola viene spesso colpevolmente trascurato nelle classifiche dei migliori portieri bianconeri, come se la sua indole schiva ne oscurasse la bravura. Ha giocato nella Juventus per otto anni, disputando 246 partite: meglio di lui, hanno saputo fare solo i grandissimi. Due scudetti li vince sul campo, il terzo fu in pratica a honorem, perché legato a una sola partita, la sua ultima con la maglia bianconera: maggio 1958, la Juventus già campione della stella d’oro ospita l’Alessandria. Viola torna in campo dopo undici mesi; sarà il migliore in campo, salvando la rete in due occasioni, difendendo la misurata vittoria dal ridicolo di una clamorosa sorpresa.
«Ai miei tempi era molto più difficile giocare in porta, rispetto ai giorni odierni e bisognava essere atleti completi, per cavarsela senza troppi danni. Gli attaccanti avversari tiravano in porta molto spesso, non c’erano troppi marchingegni tattici. Il centravanti che saltava il suo marcatore, si trovava subito la porta spalancata e allora, dovevi uscire a valanga oppure volare da un palo all’altro. C’era un vantaggio, però: subito un goal per un errore, il portiere poteva riconquistare la fiducia e gli applausi dei tifosi, avendo la possibilità di effettuare dieci parate strepitose».
Il nuovo titolare della Juventus è un ex raccattapalle allenato da Combi, Carletto Mattrel. Viola è ceduto al Brescia, in Serie B, dove termina la carriera: «Ho due ricordi estremamente piacevoli. Il primo concerne la Nazionale: nel febbraio del 1956, scesi in campo a Bologna nel vittorioso incontro contro la Francia, in una formazione che, a parte il sottoscritto, Boniperti e Carapellese era composta dai giocatori della grandissima Fiorentina di quegli anni. Ciò sta a dimostrare che, all’epoca, ero davvero considerato il miglior numero uno italiano. Il secondo episodio, invece, riguarda la mia Juve e, più precisamente, la partita casalinga contro il Milan, nel dicembre del 1951, nel corso della quale, sull’1-0 per i rossoneri, prima sventai un rigore di Gren e poi effettuai parate decisive in serie; l’1-1 finale costituì un buon viatico verso la conquista del nono scudetto, che ci vide prevalere proprio sui milanesi. Dimenticavo: quell’incontro si svolse di fronte a 90.000 spettatori, molte migliaia dei quali erano assiepate attorno al rettangolo di gioco e, naturalmente, dietro la mia porta. Ed io, che abituato alla bolgia del Filadelfia, quasi non me ne accorsi; anche perché, il tifo di quegli anni si limitava, per lo più, a qualche sfottò».
Viola dimostra, come da lui sottolineato, tutto il suo valore anche con la maglia azzurra, vestendola per undici partite consecutive. Il debutto era stato disastroso. Incassando, senza colpa, i quattro goal che avevano eliminato l’Italia dal Mondiale 1954 in Svizzera. Poi, però, solo grandi prestazioni, contro l’Argentina a Roma, il Brasile a Milano, la Francia a Bologna: «Ancora una volta bravo Viola», «Non ha commesso un solo errore», «Un muro imperforabile», si legge nelle vecchie cronache.
«Negli anni Cinquanta le squadre di Serie A, che non avevano nemmeno un medico al seguito ma che potevano contare soltanto sulla collaborazione di un massaggiatore, facevano largo uso di bistecche e di spremute di agrumi; e tutti correvano come dei matti. E, se qualcuno aveva male, c’erano soltanto due possibilità: o veniva il dottor Borsotti a farci un’iniezione di Novocaina prima della partita o si andava in ospedale. Infatti, i preparatori atletici e i fisioterapisti, allora, non erano ancora stati inventati».
Ci lascia nel 2008, in un’afosa giornata di luglio; il suo ricordo andrà sempre oltre ogni tabellino e ogni classifica.
Acquista il libro "Juventus: con il numero uno..." scritto da Stefano Bedeschi
Acquista il libro "Il pallone racconta" scritto da Stefano Bedeschi