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Gli eroi in bianconero: Giovanni SACCO

di Stefano Bedeschi

Campionato 1962-63, quello delle grandi novità; c’è il 4-2-4, Miranda detto Mirandone è il centravanti, Sivori è ancora mezzo sinistro. E c’è un ragazzino, poco più che diciottenne, astigiano, di nome Sacco Giovanni, che Amaral, a corto di difensori d’appoggio, butta nella mischia alla Favorita di Palermo; Sacco ha il 5 sulla schiena, ma funge in pratica da mediano di appoggio. Esordio positivo, pareggio largo; Giovannino ha talento, due piedi sensibilissimi e un buon senso della posizione.
A Ferrara, con la neve a ricoprire il campo e a rendere ancor più dura la fatica, Sacco fa ancora meglio; stavolta Amaral lo schiera sulla fascia destra dell’attacco, con mansioni di raccordo con il centrocampo. Compito assolto, grandi elogi e applausi. Il 20 gennaio 1963, nella gara interna con il Genoa, la prestazione capolavoro del giovanissimo centrocampista juventino: sul quotidiano sportivo torinese scrivono: «Sacco degno allievo del professor Sivori».

FERRUCCIO BERBENNI, DA “IL CALCIO E IL CICLISMO ILLUSTRATO” DEL 17 MARZO 1963
Paulo Amaral, il rigido caporale juventino, ha altissima stima di un ragazzino che sembra un chierichetto, non un giocatore: Giovanni Sacco. L’ha scoperto e lanciato. Lo vede un po’ come il «porte-bonheur» di una squadra bianconera che ha bisogno, per fronteggiare degnamente l’Inter, di una benevola occhiata della sorte. Quando contro il Torino, recentemente don Paulo ha dovuto sacrificare la ragion di squadra alla ragion di stato e ha immesso in formazione (dopo tre mesi di purgatorio) il discusso Nicolé su pressioni esterne, si è avvicinato a Sacco con somma malinconia a comunicargli la dura novella dell’esclusione. Era, buffa parte, più triste il tecnico che non il giocatore.
«Sei giovane, abbi fiducia, tornerai presto in prima squadra!».
«Signorsì».
A fine partita l’escluso era addolorato più dei compagni battuti sul campo. E la storia si spiega parche la Juventus è veramente tutto per questo ragazzino che Fabbri ha già adocchiato per la Nazionale e che nella squadra bianconera è divenuto un punto di forza, un elemento – quasi – base.
Ma chi è, nel fondo, quale estrazione umana ha questo giocatorino improvvisamente balzato al proscenio dove occupa ormai un posto di prima fila, accanto a Sivori e a Del Sol, tra le bluebells bianconere?
È venuto al calcio dalla campagna, dall’oratorio, naturalmente, lievitando per legge fisica, per una sorta di fatalismo. Nato per il calcio? Certo, se lo paragonano a Rivera e lo definiscono il Rivera numero 2, il «bimbo d’oro bis». Ha una sicura intuizione di gioco, innato il senso della manovra. Tiene il capo alto e vede dove vanno compagni e avversari e così sa esattamente dove deve indirizzare il pallone. Possiede, sotto i panni modesti di un timido chierichetto, una nascente e forse prorompente personalità.
L’uomo nuovo di Amaral e della Juve si confessa volentieri, con il candore tipico dei suoi diciannove anni, con la sincerità di uno che vuoi bene al suo passato, che è lieto del presente, che ha fiduciose attese per il futuro.
— Noi, i Sacco, i miei genitori, Vincenzo e Annamaria, mio fratello Aldo che fa il soldato e ha ventidue anni, io che gioco a calcio, Luigi che è in Seminario e viene dopo di me, tredici anni, e il più piccolo, Mario che fa la terza elementare siamo cresciuti in una fattoria, un po’ fuori di San Damiano d’Asti. Per venire al campo mi faccio ogni volta un paio di chilometri a piedi (è footing, no?), poi la corriera, poi il treno. Fino a Torino. E la sera per il rientro è la stessa cosa. Mio papà voleva farmi studiare, voleva un titolo e un lavoro bello e mi mandò a Rivoli, dai Padri. Ma avevo il pallino del pallone, me lo aveva trasmesso Aldo, mio fratello maggiore che giocava bene...».
Scuola e pallone. Un matrimonio quasi sempre problematico, che si conclude quasi sempre con una separazione, lasciamoci così, senza rancore, forse è meglio per tutti e due. Il latino è tanto difficile, il pallone tanto facile, della scuola contano soprattutto le ricreazioni quando si scende in cortile a giocare.
— Feci, comunque, la terza media, fui promosso benino e mi mandarono a Valsalice al Ginnasio. E qui un giorno vennero i Padri di Rivoli a chiedermi in prestito per una partita di calcio e io accettai entusiasticamente perché si giocava contro i ragazzi della Juve. Mi videro Pedrale, Locatelli e Zambelli e passai alla Juve; snobbai la prima liceo, mi dedicai solo al calcio. Non mi pare di aver poi fatto tanto male...».
Anche se papà Vincenzo è rimasto fedele al suo sogno, quello di avere un figlio dottore, ora si adatta ad avere un figlio campione. Un bravissimo rampollo, che lo ha fatto molto soffrire quando, giocando in avanspettacolo a Juve-Reims, si scheggiò l’osso della coscia e dovette restare per un mese a letto. Poi, adagio adagio, Giovanni ritornò come prima; meglio di prima. Amaral lo mise in prima squadra a Palermo e il gioco (per Sacco) fu fatto.
Ora papà Vincenzo non brontola più. Anche perché Giovanni, che è il solo figliolo forte rimastogli (uno militare, uno in seminario, uno alle elementari) è una perla di ragazzo. Finiti gli allenamenti torna alla fattoria e aiuta nella stalla il padre, o nella campagna. Ci son sette mucche da governare, il podere esige duro lavoro. Giovanni si... allena sgobbando con il padre ed è tanto compenetrato dei suoi doveri da rinunciare anche alle piacevoli prospettive che la carriera di campione può offrirgli: l’anno scorso era stato invitato, in vacanza pagata, dalla Juve al mare con gli altri bianconeri. Vi rinunciò a cuor leggero, preferendo aiutare alla fattoria i genitori nei pesanti lavori agricoli dell’estate.
Non fa meraviglia se un tipo così sale vertiginosamente il sesto grado della gloria sportiva. Serietà, applicazione, classe, modestia, determinazione a migliorare. Si è preso a modello Boniperti. Gli piacerebbe di ricalcarne le orme, piano piano. Il signor Amaral pare sia d’accordo su questo se io considera ormai titolare a tutti gli effetti. Nel derby? Be’, è stato un caso di necessità interna, la ragion di stato che prende il sopravvento sulla ragion di squadra. Lo strepitoso ragazzino che fu protagonista nella vittoriosa partita di Bologna, che contribuì in modo preponderante a battere la Roma al «Comunale», che anche nel naufragio a Genova contro la Samp seppe tenersi sapientemente a galla, non è elemento cui si possa dire, ogni domenica, due ore prima della partita, sei giovane, debbo far giocare l’altro, tu puoi aspettare.
Sarebbe questo del puro e semplice autolesionismo per il rigido caporale Amaral. Il quale, su questa via, non vuol certo imitare l’ineffabile Helenio Herrera.
Così Sacco, in altalena ancora tra un ruolo di centro campo o quello di ala tattica o di uomo avanzato, avrà modo di esprimere le sue attitudini e di manifestare la propria personalità stilistica e tecnica. L’allenatore brasiliano gli darà questa opportunità, perché crede nel «bambino d’oro N. 2» del calcio italiano.
E Fabbri, attraverso le lenti affumicate vedrà chiaro nell’avvenire azzurro di questo ragazzo di campagna, dal carattere già forte e dall’ambizione quasi bonipertiana. Chissà che Londra ‘66 non presenti in azzurro una giovanissima coppia di talenti calcistici nati nel Piemonte, vecchia solida terra che ripropone, come nel passato, campioni all’Italia sportiva.

Sacco dà molto alla Juventus, che insegue con tenacia e ostinazione l’Inter del mago Herrera; ma il momento felice del ragazzo è troppo legato alla vena del centrocampo bianconero, che ha in Del Sol l’eccezionale solista. E a un certo momento affiorano le prime critiche, esagerate com’erano esagerati gli elogi della primissima ora. Comunque sia, Sacco colleziona alla fine la bellezza di 16 gettoni di presenza, e chiude il torneo nuovamente in crescendo.
È lecito attendersi da lui, per l’anno successivo, un salto di qualità nel senso di una maggiore regolarità su certi livelli di rendimento. Le cifre fanno propendere per un mezzo fallimento: le presenze in prima squadra sono scese a 11, ma questo sarebbe il meno, se ci fossero dati confortanti di altro genere.
Il 1963-64, cosi come il campionato successivo primo dell’era Heriberto, sono per Sacco anni di malumori e di incertezze, di sfortuna e anche di scarsa convinzione. Sacco parte titolare e gioca pure una buona partita d’esordio, al Comunale contro la coriacea Spal; ma poi subentrano chiari sintomi di crisi, di involuzione tecnica e di scadimento atletico.
A un certo punto, Monzeglio si domanda se è più giovane il vecchio Da Costa o il ragazzo Sacco e deve concludere che, a più di trent’anni, Da Costa garantisce di più e meglio in fatto di tenuta. Ci sono, naturalmente, eccezioni; nel finale di stagione, contro il Vicenza nel giorno della più netta affermazione bianconera (4-1), o all’inizio della stagione successiva, quando Heriberto lo utilizza spesso in luogo dell’infortunato Del Sol, Sacco gioca delle ottime partite.
La personalità di questo strano giocatore, che per certi versi ricorda piuttosto l’umore sibillino di certi pionieri della Juventus studentesca di inizio secolo, resta ancora in gran parte da scoprire. Finisce cosi in prestito alla Lazio, per un anno. In maglia biancoceleste, contribuisce parecchio al raggiungimento della salvezza e acquista, soprattutto, consapevolezza dei suoi mezzi tecnici. Tra l’altro, gioca una splendida partita contro la sua Juventus, a Torino, ipotecando in tal modo un immediato ritorno in bianconero.
Il ritorno di Sacco coincide con la conquista, sofferta quanto sospirata, del tredicesimo scudetto; Heriberto ritrova un prezioso talento di centrocampo, capace di dare il cambio ai validi ma non più giovanissimi Del Sol e Cinesinho. L’11 dicembre 1966, fermo per infortunio Luis il sivigliano, Sacco rientra a tamburo battente, proprio in occasione della partitissima contro il Bologna; e convince, contribuendo in maniera notevolissima al successo (2-1) che rilancia i bianconeri nella lotta serrata con gli interisti. Nonostante Sacco totalizzi solamente 10 presenze complessive, è stato questo per lui il primo anno importante davvero valido dopo quello dell’esordio.
E prelude, come giusto e naturale, a un anno di soddisfazioni anche maggiori: il 1967/68. Qui, oltre al campionato che vede ancora i bianconeri nel ristretto novero dei protagonisti, c’è di mezzo la Coppa dei Campioni cui Sacco fa onore con alcune prestazioni ad alto livello. Il 31 gennaio 1968, a Braunschweig, l’Eintracht sta per travolgere i bianconeri, nell’incontro di andata dei quarti di finale; sarebbe 3-1 per i tedeschi, se proprio Sacco in chiusura non realizzasse il goal dell’avvicinamento. In campionato, le presenze saranno alla fine 25, con all’attivo anche una rete, a spese del Varese; bilancio lusinghiero.
14 presenze nel 1968-69, nell’anno dei grandi arrivi e dei risultati inferiori alle grandi attese. Il campionato di Giovannino è positivo, anche se i dati non confermeranno la performance dell’anno precedente. Il commiato dal pubblico torinese non è esaltante, con la Fiorentina che viene a vincere e a prendersi il secondo scudetto della sua storia; ma nel totale, Sacco ha chiuso in modo positivo la sua lunga parentesi juventina.

VLADIMIRO CAMINITI
Vi dirò di Giovannino Sacco, biondino nemmeno eccentrico ma svenevole, aveva il talento ma gli mancava il resto. Il grano senza il mugnaio o chi se ne occupi resta grano, non diventa farina e nemmeno pane. Così l’uva, senza i piedi scalzi del caruso, non diventa mosto.
Il suo esordio a Palermo fu salutato dall’applauso di juventini di ieri e di sempre; il giovinetto fiorettava con stile e piacque. Poi, nemmeno Heriberto Herrera, da dimostrare peraltro che si possa cambiare con l’esempio la rotta d’un carattere, riuscì a modificarlo.
Ragazzo di campagna, Giovannino, nei boom delle antenne televisive e delle sbornie cittadine, bellino, aureolato come un putto, lentamente fiorettando si stremò e fu ceduto, non senza avere figurato, con alcune bellissime prestazioni.
 


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