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Gli eroi in bianconero: Giovanni FERRARI

di Stefano Bedeschi

Detto Gioanin o Giovannin, esordì in Prima Divisione (come si chiamava allora la Serie A) quando non aveva ancora sedici anni, nella stagione 1923-24, nella file dell’Alessandria, allenata dall’ungherese Béela Révéezs. Le stagioni seguenti, visse in simbiosi calcistica con il grandissimo allenatore Carlo Carcano, tanto da seguirlo a Napoli nell’Internaples, la più forte squadra campana che contese all’Alba di Roma l’onore di rappresentare la Lega Sud nella finale contro la Lega Nord per il titolo italiano nel 1925-26.
L’Alba ebbe la meglio sull’lnternaples, ma i romani furono poi battuti nettamente (7-1 e 5-0) dalla Juventus che schierava: Combi; Rosetta e Allemandi; Grabbi, Viola e Bigatto; Munerati, Vojak I, Pastore, Hirzer e Torriani.
Tornato da Napoli per il campionato 1926-27, Ferrari rimase nell’Alessandria, allenata da Carcano, sino al giugno 1930. L’ultima partita in grigio di Giovannin fu a Udine il primo giugno di quell’anno, contro la Triestina. L’anno seguente emigrò a Torino chiamato, nella Juventus, dallo stesso Carcano diventato allenatore dei bianconeri.
Modesto, serio, laborioso, Giovannin si trovò a suo agio nel grande club di Edoardo Agnelli ma diretto dal barone Mazzonis che, fra gli altri, poteva schierare il divo Orsi per un premio di 100.000 lire, una Fiat 509 e 8.000 lire mensili di stipendio, e Renato Cesarini, nato a Senigallia però emigrato a Buenos Aires da bambino. Il bizzarro, allegro, mattacchione Cesarini, era una magnifica mezzala destra capace di tutto e, con l’austero Ferrari, formò una strana, straordinaria coppia in bianconero come nella Nazionale. Renato l’impenitente, ascoltava i consigli di Giovanni e la Juventus vinse cinque scudetti consecutivi.
Nel campionato 1935-36 Giovanni Ferrari emigrò a Milano, sponda neroazzurra, chiamato dal presidente Pozzani, il popolare Generale Po. Giocando a fianco di Meazza, Ferraris II, Frossi, Attilio Demaria, Ferrara I e Ferrara II (questi tre ultimi di scuola argentina), Giovannin si aggiudicò altri due scudetti con il suo gioco infaticabile, altruista, tecnico, potente e i suoi tanti goal: trentadue nell’Ambrosiana in cinque stagioni come ne aveva fatti sessantasette nella Juventus. Scaricato a Bologna, come giocatore alla fine della carriera, Ferrari andò a raccogliere l’ottavo scudetto nel 1940-41 in tempo di guerra.
Lo scorbutico piemontese Vittorio Pozzo, giornalista e Commissario Unico degli azzurri due volte Campioni del Mondo, selezionò per la prima volta Giovanni Ferrari il 9 febbraio 1930 a Roma contro la Svizzera superata (4-2) con le reti di Magnozzi, Orsi e Meazza (due): l’alessandrino giocò mezzala destra a fianco del barese Costantino. Nella Coppa del Mondo 1934, Giovanni Ferrari formò uno straordinario attacco con Guaita, Meazza, Schiavio e Orsi all’ala sinistra, invece a Parigi nel 1938 i suoi compagni di prima linea furono Biavati, ancora Meazza, Piola e Colaussi, il triestino.
Confessò: «Ho battuto Zamora nel Mondiale del 1934 a Firenze, però la maggiore soddisfazione la provai l’anno precedente, a Roma, contro gli inglesi. Erano i maestri. Con un lungo tiro ingannai il portiere Hibbs; peccato che, poco dopo, Bastin ottenne il pareggio che, tuttavia, ci fece onore. Il mistero sugli inglesi, ritenuti invincibili, incominciò a svelarsi».
Quindi la lunga attività come tecnico. Giocatore-allenatore nella Juventus, poi trainer dell’Inter, e infine l’arrivo alla Nazionale, con la quale, non riuscì a evitare il fallimento della spedizione Mondiale in Cile, patendo molto la totale mancanza di fiducia nei suoi confronti, tanto che fu affiancato da Mazza e Spadaccini, con Pasquale a tirare i fili. Ha sempre amato insegnare ai giovani, insegnava calcio, non tecniche raffinate, lui così antico e così semplice.

ALBERTO FASANO, DA “HURRÀ JUVENTUS” DEL GENNAIO 1983
La scomparsa di Giovanni Ferrari ha addolorato tutti gli sportivi che seguono le vicende del calcio nazionale ed ha lascito addirittura sgomenti quanti ebbero la ventura di conoscere da vicino il grande campione alessandrino.
Fu nel periodo della permanenza alla Juventus di Giovanni Ferrari che ebbi modo di conoscere dalla viva voce del protagonista molti particolari della sua vita, specie di quella parte che riguarda il modo con il quale Gioanin fece il suo ingresso nel mondo della palla rotonda.
Forse la passionaccia per il calcio gli entrò nel sangue non appena fu capace di camminare. Da ragazzino, insieme agli inseparabili amici Avalle, Rapetti e Scagliotti, percorse migliaia di volte le strade adiacenti il suo domicilio, specialmente Piazza Valfrè, prendendo a calci piccole palle di gomma o fatte di stracci. Quei ragazzi disputavano partite di incommensurabile durata: iniziavano alla luce del sole e finivano sotto la flebile luce dei lampioni.
Quando aveva quattordici anni, afferrò al volo qualche frase pronunciata da gente che conosceva il calcio, gente che aveva constatato con quale arte il giovane Ferrari sapeva trattare la palla. Era un timido, il caro Gioanin, e non avrebbe mai osato presentarsi ai dirigenti delle squadre minori dell’Alessandria se non fosse stato spinto dagli amici Avalle e Rapetti.
Fu il destino a dargli una mano. Un pomeriggio, insieme agli amici, stava giocando a palla per le strade cittadine quando, urtato da un compagno, cadde a terra e andò a sbattere il mento contro una delle rotaie del tram a vapore che faceva servizio per Spinetta Marengo. Si procurò una lussazione mascellare e una larga ferita al mento. L’incidente, oltre a renderlo inabile al gioco, lo aveva anche liberato dagli impegni di bottega (era aiuto commesso in un negozio di tessuti).
Appena le sue condizioni migliorarono, sebbene ancora incerottato, un giorno se ne andò insieme all’amico Rapetti al campo dei grigi che dovevano sostenere un allenamento. Giunto allo stadio con largo anticipo sull’orario fissato per l’allenamento stesso, si mise a palleggiare (lui in borghese) con il Rapetti (in tenuta da gioco). Ferrari non sapeva di essere attentamente osservato dall’allenatore Carcano: il palleggio morbido e sicuro impressionò il tecnico a tal punto da indurlo a invitare Ferrari la sera stessa in sede per firmare il cartellino che lo legava all’Alessandria.
Fu proprio in quella squadra che il giocatore alessandrino ebbe le prime soddisfazioni, raccolse generali consensi, disputò il suo primo campionato di Serie A e fu addirittura convocato in Nazionale. Ad Alessandria, ultima venuta nell’arengo provinciale, aveva portato una nota stilistica nuova, trasformando in una scuola tecnica quella che era stata prevalentemente una scuola di ardimento e di sacrificio.
Di questa scuola Baloncieri e Ferrari possono essere considerati gli alunni migliori (come lo furono Rosetta per la Pro Vercelli e Caligaris per il Casale), cioè due atleti che riassunsero le caratteristiche di intelligenza, di intuizione, di volontà di tutta una generazione di calciatori. Cevenini III, tanto per fare un esempio, si isolava in un certo modo dalla squadra, faceva numero a sé; Ferrari, invece, vi si immergeva tutto: un giocatore che rappresentava l’ordine, la continuità, con metodicità del gioco, una macchina che pulsava continuamente, che dava al gioco un’andatura, un ritmo, una cadenza.
Posso dire, per averli visti giocare tutti e due, che Ferrari è stato il continuatore dello stile, della tecnica dell’idea di gioco del formidabile Adolfo Baloncieri. Purtroppo con la partenza di Ferrari dall’Alessandria verso la Juventus, la scuola alessandrina doveva chiudere il suo meraviglioso ciclo. Il gioco perse allora quel tanto che gli era rimasto di ispirazione provinciale e andò sempre più acquistando un netto carattere nazionale, cioè una fusione di tendenze diverse, armonizzate da un concetto tecnico più generale.
Non mi è nemmeno difficile tracciare un profilo tecnico del vecchio amico scomparso. Tante e tante volte l’ho visto giocare, ho analizzato la sua tecnica di gioco, l’intelligenza con la quale partecipava agli incontri, sia nelle squadre di club che in Nazionale. Giovanni Ferrari: il calcolo applicato al gioco del calcio. Un giocatore freddo, positivo, il buon senso fatto persona. Gli sportivi lo ricordano come la tipica mezzala del metodo, cioè mezzala di manovra, da tessitura.
Era una macchina che lavorava e funzionava a regolari colpi di stantuffo, uno dopo l’altro, continui, implacabili. Giocatore di una tecnica sobria, poco portato a osare, ma che costruiva la partita un’azione sull’altra, come le pietre di un edificio, le imbeccate pronte per tutti, gli occhi attenti a misurare l’ostacolo e a valutare una situazione tattica, un uomo metodico che sembrava possedere un misterioso senso del ritmo; giocava con una cadenza sempre uguale, apparentemente un po’ lenta, ma che faceva forse più strada di ogni altra; quello sfornare continuo di palloni scoccati per ogni direzione, quel senno di gioco che dava l’impressione di un saggio fra tanti scavezzacolli. Tutto, insomma, ha contribuito a fare di Ferrari un elemento di grandissima classe.
Gioanin Ferrari, giudicato a posteriori, è stato proprio il giocatore sorto nell’epoca sua, cresciuto nel suo più conveniente clima di gioco. Posso senz’altro affermare (confortato in ciò dall’opinione di illustrissimi competenti, quali Ugo Locatelli, Piero Rava, Baldo Depetrini e Silvio Piola) che egli è stato, nel corso di un decennio, la migliore mezzala sinistra europea. Ed è l’elogio più alto che il critico può scrivere dell’indimenticabile giocatore alessandrino.
Maestro sommo sul terreno di gioco, per gli avversari e per i compagni: una vera scienza calcistica, quella scienza che Ferrari per lunghi anni elargì poi a tutti i suoi allievi, attenti ascoltatori delle sue lezioni al Centro Tecnico di Coverciano. Per questo sono convinto che la morte di Giovanni Ferrari sia stata una grave perdita per il mondo del calcio nazionale.
 


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