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Gli eroi in bianconero: Giorgio CHIELLINI

di Stefano Bedeschi

È di buona famiglia, è giovane, ma lavora già da qualche anno – scrive Giulio Sala su “Hurrà Juventus dell’aprile 2006 – si mantiene e nonostante questo non ha abbandonato gli studi, anzi, è iscritto all’Università; si è ingegnato e ha trovato un modo originale di fare beneficenza, mostrandosi intraprendente e generoso; ha talento e un brillante avvenire davanti a sé... Vagli a trovare un difetto a Giorgio Chiellini. Ne avrà, come tutti, ma diamine, li maschera proprio bene! Il classico “ragazzo da sposare”, insomma. Ne sarà ben conscia la sua fidanzata, che sta con lui da due anni e vive a Livorno; questo è tutto quello che ci è dato di sapere di lei, perché Giorgio ne tutela gelosamente la privacy e non ci dice neanche il nome. Ci dice, però, tante altre cose interessanti che raccontano di un ragazzo che sa divertirsi, come è sacrosanto che sia a ventun anni, ma che sa anche prendere tremendamente sul serio gli impegni che assume.
Come l’Università, appunto. Nonostante sia riuscito a sfondare nel calcio, Giorgio infatti ha continuato a studiare e, compatibilmente con gli impegni della professione, punta alla Laurea in Economia e Commercio: «Qualcosa dovrò pur fare quando smetterò di giocare e credo che oggi, senza una Laurea, si combini poco. Magari a fine carriera resterò nel mondo del calcio, ma nel dubbio preferisco prendermi il famoso pezzo di carta».
– Quanto ti manca per finire? «Eh, per ora ho dato solo due esami: quest’anno ho passato Economia Aziendale e tra poco dovrei darne un altro. Quando ero a casa, avevo già dato Matematica e devo dire che mi era andata bene: giocavo nel Livorno, ma andavo all’Università a Pisa... per fortuna non mi ha riconosciuto nessuno!».
– Voti? «Buoni, non posso lamentarmi: sai, a scuola andavo bene, ho fatto il liceo scientifico, alla maturità sono passato con 92/100 e Matematica l’ho data appena finito le superiori, quindi non ho avuto problemi. Con Economia Aziendale, non avendo mai studiato ragioneria, ho avuto qualche difficoltà in più, ma sono comunque passato».
La vocazione di Giorgio allo studio è, per così dire, un vizio di famiglia; il papà è un primario in Scienze Motorie e anche suo fratello gemello, pure lui calciatore, frequenta l’Università: «Sì, ma lui sta studiando “davvero”, con molto più impegno e continuità. A calcio gioca più per divertimento e per passione. È in Eccellenza, nel Perignano. Abbiamo giocato insieme fino ai quattordici, quindici anni, poi i risultati sono stati diversi e quindi io ho preso un’altra strada. Mio fratello è un difensore centrale, ma non abbiamo mai “fatto reparto”: io a quell’età giocavo a centrocampo, non sulla fascia però, in mezzo. Ero molto più alto degli altri e quindi la palla la prendevo sempre io. Poi, piano piano ho allargato la posizione e mi sono spostato sempre più indietro, fino a divenire un terzino».
E che terzino! Dopo la parentesi di Firenze Giorgio è tornato in bianconero e si è messo in luce da subito, meritando la fiducia di mister Capello: «Speravo di poter far bene e di riuscire a recitare un ruolo importante, anche se forse non mi aspettavo di trovare tanto spazio a inizio stagione. A ottobre ero riuscito a ritagliarmi un posto in squadra, giocavo e stavo bene; poi ho avuto un po’ di sfortuna, qualche problema muscolare, e devo ancora ritrovare la forma migliore, ma la mia esperienza qui, finora, è stata comunque molto positiva e mi ha permesso di crescere; giocare in una squadra come la Juventus e avere questi compagni e questo allenatore che ti fanno sentire la loro fiducia è un grande passo avanti per me».
– Beh, te la sei meritata dopotutto, con una crescita continua. In cosa credi di essere migliorato maggiormente? «Quest’anno penso di aver imparato a curare di più la fase difensiva: il primo pensiero, fino all’anno scorso, era spingersi in avanti, ora invece e non prendere gol; sto molto più attento a non scoprire la mia zona».
– Ci sono altri aspetti sui quali pensi si dover lavorare ancora? «Margini di miglioramento ce ne sono, su tutti i fronti, ma credo che i più importanti siano a livello mentale, perché giocando in una squadra come la Juve, in palcoscenici così importanti, devi per forza tirare fuori la personalità e quando fai per così dire “il salto di qualità” è forse la cosa più difficile. E non parlo solo della Champions League, ma anche di partite come Juventus-Milan o Inter-Juventus: prima non avevo mai giocato gare del genere. In Nazionale, ad esempio, avevo giocato una partita di qualificazione, ma le altre volte erano solo amichevoli, importanti perché vestivo la maglia azzurra, ma non per il risultato».
– Quelle più importanti, in azzurro e con la Juve, arriveranno tra poco... «Eh sì, spero di rientrare senza altri problemi. Piano piano sto recuperando e mi auguro di poter dare una mano al gruppo, anche perché in quest’ultimo periodo ci sarà bisogno di alternarsi per riuscire a dare il massimo e a raccogliere i frutti di un anno di lavoro. Non dimentichiamoci che ancora non abbiamo fatto niente. Finora il nostro è stato un ottimo campionato, ma non ci dobbiamo sentire appagati, perché correremmo il rischio di rovinare tutto. In Champions siamo riusciti a qualificarci per i quarti, ma d’ora in poi non possiamo sbagliare nulla».
Sembra di sentir parlare un veterano. Eppure Giorgio è ancora giovanissimo, ma dimostra una maturità rara a trovarsi in ragazzi della sua età, e non è un complimento gratuito. Non bastasse l’impegno che mette in campo o nello studio a dimostrarlo, ecco l’ultima chicca, la beneficenza, fatta in modo discreto e assolutamente originale: vendendo su Internet le maglie scambiate con i colleghi calciatori e devolvendo il ricavato al Camillian Social Center Chiangrai un centro in Thailandia per i bambini orfani a causa dello Tsunami e per persone malate di lebbra e AIDS, abbandonate dalle loro famiglie: «È tutto nato per caso: durante lo scorso Natale ero a casa e, navigando su Internet con mio fratello, ho visto che una mia maglietta, scambiata al termine di una partita, era stata messa all’asta su E-bay. Avendone tantissime a casa, ho trovato più utile impiegarle per uno scopo benefico. Ne ho già vendute un po’ e abbiamo raggiunto 10.000 Euro».
– Qual è quella che è stata pagata di più? «Quella della Roma, che in campionato, solo per la partita contro di noi, aveva uno sponsor di acque minerali. Essendo un pezzo unico, era molto ambita dai collezionisti ed è stata venduta a 1.800 Euro. Poi, naturalmente, ce ne sono altre che vengono “battute” a meno e che sono acquistate dai tifosi».
– Calcio, studio, beneficenza… ma il tempo per rilassarti un po’ lo trovi? «Oh sì: abbiamo la fortuna di allenarci la mattina e al massimo alle tre arrivo a casa. Obiettivamente, fino all’ora di cena, salvo rari casi, non ho nessun impegno che, quando non studio, mi impedisca di giocare un po’ con la Playstation».
– Quali sono i tuoi giochi preferiti? «Mi piacciono quelli di guerra, Medal of Honour, Call of Duty, oppure, naturalmente, il calcio, Pro Evolution Soccer in particolare. La vera passione però è un calcio manageriale, da giocarsi in rete, con il computer: Hattrick. Mio fratello ci gioca già da un paio di anni, ma io non lo conoscevo. Lui ha insistito: “Provalo, vedrai che ti piace”, me l’ha ripetuto non so quante volte, alla fine gli ho dato retta e, in effetti... aveva ragione. È una specie di Fantacalcio virtuale, ma con giocatori inventati, ognuno con le sue caratteristiche che ti permettono di valutarli, acquistarli e creare così la tua formazione».
– E al Fantacalcio, con i calciatori veri, non giochi? No, ho smesso da quando sono un “diretto interessato” e sono in serie A. Prima giocavo con gli amici di casa e ora, non essendoci mai, seguirlo e fare le aste sarebbe un problema».
– Quindi non “ti sei mai comprato”. «No, ma se lo facessi di nuovo, mi comprerei per forza: titolare inamovibile ogni domenica!».

NICOLA CALZARETTA, DALLA SUA PAGINA FACEBOOK DEL 17 MAGGIO 2022
Giorgio Chiellini. Un mito in pantaloncini e maglietta (e turbante!). Lo saluto con il mio testo a lui dedicato e contenuto nel libro Il Guerriero della Juventus (Giglio, Cucci, editore NFC).
È un po’ lungo, ma credo che la sua lettura ne possa valere la pena.
Giorgio Chiellini. Livornese purosangue, nato il 18 agosto 1984. A Pisa. Un ossimoro da Vernacoliere. Ma non è uno scherzo, né un errore. Così è riportato nei documenti, nella patente, nell’Almanacco Panini. Tutto reale per una verità peraltro già scritta nel suo nome e cognome, il cui anagramma è: “Illogiche origini”. Provare per credere. Il motivo ormai è noto. “Colpa” del padre ortopedico e della zia ostetrica che “giocano” per l’Ospedale Santa Chiara di Pisa. E così sia. Giusto e solo per l’anagrafe, però. Perché per tutto il resto Giorgio è livornese di cima in fondo, passando per quel nasone che è pieno di curve e saliscendi come il meraviglioso lungomare del Romito. 
Cinquecento partite e più con la maglia della Juventus. Centenario con la Nazionale. Capitano bianconero e azzurro. Gemello di Claudio, fratello di Giulia e Silvia. Marito di Carolina, babbo di Nina e Olivia le cui iniziali sono gli unici marchi tatuati sul suo corpo. Dottore in Economia e Commercio dal 2010, quindi Laurea “Magistrale” in Business Administration nel 2017 con una tesi sul bilancio della Juventus (110 e lode, e menzione di merito, tanto per rimanere al top anche lì). 
“Migliore centrale al mondo” secondo Massimiliano Allegri, uno che lo conosce bene. Professore ad Harvard in Tecniche e strategie difensive per Josè Mourinho. Nel 2019 unico italiano nella nomination dei cinquantacinque candidati al World 11 della FIFA; il tutto a trentacinque anni, il più “vecchio” della lista. Nove scudetti più uno, una manciata di coppe e supercoppe domestiche e un campionato di Serie B con la Juve nel 2007.
Sì anche questo, anzi soprattutto questo nel “palmares” di Re Giorgio, perché lui tra i Cadetti c’è stato, trionfando. Prima della lunga parentesi bianconera, con il suo Livorno ha centrato la doppia promozione in B (2002) e in A (2004) e nel mezzo il titolo europeo con l’Under 19 (2003).
Un vincente nato. Non predestinato, attenzione. Una vita di progetti, traguardi, conquiste progressive, ma non ossessive. Un cammino che non si è mai fermato e che continua anche oggi perché mosso dalla passione vera. Un percorso di lavoro, impegno, sacrificio costante. Nessun regalo, un passo alla volta per migliorare e migliorarsi, critico severissimo e intransigente con se stesso (come un certo CR7: non si è campioni a caso). Un ragazzo venuto su con principi sani grazie a Lucia e Fabio, i genitori – sportivi anche loro in gioventù – che hanno saputo gettare semi di qualità in un terreno che è apparso fin da subito molto fertile. L’educazione. Parola chiave. Il rispetto del prossimo, altro must del bel vivere civile. Gli immancabili errori (perché ne ha fatti anche lui, mica è san Giorgio). E poi la formazione, le fondamenta per una vita strutturata e solida, in difesa come in attacco. La scuola – quella pubblica, ci mancherebbe altro – e lo sport (il tentativo con la musica ebbe vita breve). Con i libri che vengono prima del pallone, anche di quello da basket, perché a Giorgio, va detto, piace pure la pallacanestro che ha radici profonde a Livorno (e lui sogna davvero di fare le schiacciate a canestro).
Ma è il calcio ad avere la meglio. Cresce la passione di pari passo con il fisico e la determinazione, ne sa qualcosa babbo Fabio che esce stremato da quegli uno contro uno con il bimbone. Si fanno le prime scelte di cuore e mentre Claudio vira sulla Juve, Giorgio si innamora del Milan del suo idolo Maldini, maglia numero tre (prendere nota). La prima squadra dei gemelli è il “Livorno 9”, una delle tante piccole società del tessuto calcistico cittadino (il nove è il numero della circoscrizione della città). Giorgio non passa inosservato. Ha voglia, grinta, carattere. C’è sempre. È una garanzia: non si esaurisce mai, come le pile Duracell, zinco e carbone (“Dura di più”, recitava lo storico slogan dello spot televisivo, 1984, l’anno di nascita dei Chiellini’s). Calcia con il sinistro, è una forza della natura, ha coraggio da vendere. Ci vuole poco perché se lo accaparri il Livorno, quello vero. Ci va anche Claudio, hanno dodici anni.
A tredici, ecco la prima metamorfosi decisiva per il ricciolino dalla faccia simpatica: da centrocampista qual era, viene trasformato in terzino di fascia. E su quei binari mancini, sfonda. Entra nel giro nelle Nazionali e a sedici anni fa capolino in Prima Squadra dove ci sono califfi come Protti, Di Carlo, Piovani. Iniziano a soffiare anche le sirene inglesi (si veda alla voce Arsenal), respinte al mittente con tutto il loro carico ipnotico. È ancora un ragazzetto. Bene che stia a casa sua, almeno per un altro po’ e cresca con il suo Livorno. Intanto debutta in C1, giusto qualche apparizione e una bella ramanzina a reti unificate da mister Osvaldo Jaconi, quella volta che, causa persistente febbrone, non si era fatto vedere al campo per alcuni giorni. Pensava di non sbagliare, in totale buona fede. “Ma dove credi di essere? - lo rimbalzò il mister quando riapparve allo stadio - “Ti sembra normale non esserti mai fatto visitare dal dottore? Qui siamo professionisti, non bambini”. La manata, stile Bud Spencer, gli arriva dritta alla base della nuca. Un episodio chiave. Lo ricorda tuttora Giorgio come insegnamento fondamentale per la formazione.
Si cresce, e il giovane Chiellini viene su bene, seppure sia ancora un po’ sgraziato nei movimenti, e con qualche difficoltà a dosare l’enorme potenza di un fisico straripante. Ma ha appena diciotto anni. Seppure da comprimario, conquista la Serie B. È felice. Ma siamo solo agli inizi. Il 2003 è l’anno della prima svolta: si diploma la Liceo Enriques (92/100); vince l’Europeo Under 19 con la Nazionale; la Roma si prende metà del suo cartellino, ma soprattutto conquista un posto da titolare in Prima Squadra (il mister adesso è Walter Mazzarri). L’inizio, come capita spesso, è casuale: è l’indisponibilità del compagno ad aprirgli le porte dei primi undici. Il seguito è da gente che ha dei numeri e volontà, perché una volta entrato, Giorgio non esce più di squadra. Terzino sinistro con licenza di avanzare. Gioca sempre al massimo, non molla mai l’osso, è spigoloso e pungente. Fisicamente è una roccia, una roccia che corre fortissimo nella sua maglia amaranto. E dopo Piacenza-Livorno del 29 maggio 2004 (3-1 per Protti & Co) ecco il ritorno in A dopo cinquantacinque anni. Giorgio è il bimbo più felice di Livorno. Da tifoso, da livornese verace, vive da protagonista un sogno e quella partita rimane una delle più belle della sua carriera. 
La gioia e la felicità vera del Giorgio-tifoso fanno a cazzotti con la consapevolezza dell’imminente addio del Chiellini-calciatore. Il ragazzo è combattuto, il suo cuore batte forte. Andrà alla Roma pensano tutti, lui compreso. E invece, ecco il colpo di scena. Fabio Capello, neo allenatore della Juve, stravede per il giovane livornese che nel frattempo è una pedina stabile dell’Under 21. La società bianconera si muove e giocando di sponda con il presidente del Livorno, riesce a beffare i giallorossi. Le buste per risolvere la comproprietà danno ragione a Spinelli che ha scritto tre milioni. Non sono soldi suoi, ma della Juve e così Chiellini, vent’anni, parte alla volta di Torino.
Ma c’è ancora una tappa intermedia prima dell’investitura finale. La rosa bianconera è ampia, per lui gli spazi sono pochi. Il rischio di un anno da passare tra panchina e tribuna è alto. Si decide per il prestito secco alla Fiorentina, sempre in A. Un po’ di tirocinio può fare bene a tutti. Giorgio sfrutta l’occasione alla grande. Per lui sarà una stagione molto positiva, sempre come terzino sinistro. Arrembante, fisico, potente. Titolare fisso. Esordio in A, il debutto nella Nazionale maggiore chiamato da Marcello Lippi, tre gol all’attivo (uno proprio a Buffon con esultanza incorporata, bravo Chiello!), la salvezza dei viola e l’immediato ritorno alla base. È il 2005, l’anno del matrimonio vero con la Juve. Che stavolta viene consumato. È la stagione dello scudetto poi rimosso. È il campionato che finisce con la condanna alla B per la Juve. Sono momenti di grande difficoltà. C’è disorientamento. Molti big se ne vanno, anche il suo idolo Cannavaro. Altri fuoriclasse rimangono, tra cui i freschi campioni del mondo Del Piero, Buffon e Camoranesi (per tacer di Trezeguet e Nedved). Rimane anche il giovane Chiellini. E Deschamps, il nuovo trainer bianconero, si affida a lui. Lo schiera sempre più spesso al centro della difesa. Per Giorgio è una novità. L’idea lo stuzzica. La marcatura corpo a corpo gli è sempre piaciuta. Tutto quello che è fisico, gli appartiene. E lo fa godere. Più di un gol segnato. Perché difendere è anzitutto cura, protezione delle cose più care, riparo sicuro. E poi un’arte. Ci vuole visione, immaginazione. Prevenire le mosse, anticipare la giocata. È un gioco di sguardi, è acrobazia di pensieri. Difesa, infine, è lotta. È contatto, gomiti, spintoni, testate. Tackle, scivolate, anticipi. Calci e calcioni, talvolta.
Juventus, dunque. Serie A, subito al primo colpo (e un paio di gol nella gara-promozione con l’Arezzo sono suoi). Ma tornare immediatamente competitivi non è semplice. Fanno fatica tutti, anche il ventitreenne Giorgio. Manca una leadership a livello dirigenziale. Chiellini è deluso dalla società. Ha i nervi tesi, ma deve presentarsi in conferenza stampa. Ci va. E nella cabina della sua testa ha il sopravvento il sentimento della rabbia (l’omino rosso di Inside Out che prende fuoco, giusto per darvi un’idea): “Se non servo più non c’è problema, vado via”.
Ci pensò il mister di allora, Claudio Ranieri, a rimetterlo in riga. Prima con una bella risciacquata di testa a secco davanti ai compagni, per poi ribadire il concetto a favore di telecamera. Un’altra di quelle lezioni imparate a memoria, che Giorgio non ha dimenticato, anzi. Annate complicate, si diceva, caratterizzate dal classico effetto montagne russe: rapide ascese, e precipitose scivolate verso il basso. Lui c’è dentro fino al collo. Ora al centro, ora riportato a sinistra. Non ha pace. Anche il fisico ogni tanto richiede lo stop per un tagliando in corsa. Sono stagioni tribolate. Quella con Delneri, ottima persona, è tra le più faticose, con la difesa a zona che balla paurosamente. È la squadra che non gira, manca la giusta organizzazione, mancano le giuste parole. Manca il timone dirigenziale. Sono momenti cruciali. Restare alla Juve o prendere altre vie? Il Real Madrid prima, poi anche il Manchester City si fanno sentire. Voci, rumors, trattative. Chiellini non cede. Il bianconero ormai gli appartiene, è una seconda pelle.
La Juventus è sempre più percepita come una famiglia. Ora più che mai che un Agnelli, Andrea, è tornato al comando della società e dopo un anno di prova, ha trovato la chiave di volta: si chiama Antonio Conte. 2011, la Juve rinasce con la guida dell’ex capitano che tocca le corde giuste. Ma i primi passi sono in salita. Ne soffre anche Giorgio, ancora una volta fatto rimbalzare dalla fascia al centro e viceversa. Fino all’invenzione della BBC: Barzagli, Bonucci, Chiellini (e Buffon alle loro spalle). La difesa a “tre”, il muro invalicabile, la santa alleanza. La base dell’incredibile rincorsa allo scudetto che si materializza a Trieste, il 6 maggio 2012. La vittoria della Juve contro il Cagliari per i tre punti decisivi, quelli che servono per staccare definitivamente il Milan.
Ancora nessuno lo sa, né lo può neanche lontanamente immaginare. Ma quel giorno inizia l’epopea della Juve del Terzo Millennio. Nove scudetti di fila, quattro Coppe Italia e altrettante Supercoppe italiane. Sempre con Giorgio Chiellini che, anno dopo anno, diventa ancora più importante, decisivo, esempio, emblema. Conte gli ha ridato entusiasmo, conoscenze tattiche e stimoli. Max Allegri calore, emozioni e una capacità di lettura della partita senza pari. Giorgio cresce costantemente. Si sgrezza, è meno irruento e falloso (per la cronaca, aldilà delle apparenze, due sole volte è stato espulso nella sua carriera juventina). Migliora tecnicamente, è più pulito, il nuovo gioco (anche con Allegri) prevede la partenza da dietro con i difensori chiamati a una maggiore partecipazione alla manovra. Difendere adesso è anche costruire. E Giorgio non si tira indietro, dando prova di umiltà e intelligenza per imparare cose nuove. Certo i duelli con Ibrahimovic, Suarez, Cavani e CR7 li porta nel cuore. Il suo ruolo romanticamente è quello dello stopper (e pazienza se sulle spalle il suo numero di targa è il tre, omaggio a Paolo Maldini). Lo 0-0 al Camp Nou nel ritorno di Champions League del 19 aprile 2017 contro il Barcellona di Leo Messi è per lui “La Partita”, ancor di più del 3-0 dell’andata che lo vide anche marcatore del terzo gol.
Già i gol, ci sono anche quelli. E poi, i pugni sul petto, per un’esultanza da King (Kong), immaginata in una serata livornese con gli amici di sempre. Ma quel che più conta è non far segnare l’avversario. Annullarlo, non farlo respirare, farlo girare a vuoto, stancarlo. Con intelligenza e astuzia, giocando più con la testa che con i muscoli. Con il tempo diminuisce la quantità dei falli, mentre aumenta il numero dei palloni toccati e dei passaggi compiuti. Gestisce benissimo il suo corpo che ascolta attentamente nella lunga doccia pre-partita (uno dei riti, lui li chiama inneschi, della fase che precede la gara). Distribuisce con maggior raziocinio le energie. Lavora di più e meglio sull’anticipo, sulla lettura della partita, sui movimenti dell’avversario, sulle azioni preventive. C’è studio vero degli avversari, c’è applicazione, c’è concentrazione, anche grazie ai momenti di solitudine, al silenzio o alla musica nelle cuffie, persino nella lettura prima di addormentarsi (sempre un tormento, specie dopo il match che gli ha consumato tutte le energie).
È così che si diventa campioni. Con il lavoro costante, con la voglia di sfidare e di sfidarsi. Con l’umiltà nel sapere riconoscere gli errori di campo per non ripeterli. Con il desiderio di superare l’asticella posta sempre più in alto. Con la forza di volontà di tornare a giocare dopo la rottura di un ginocchio, a trentacinque anni, un guaio che per moltissimi avrebbe significato addio al pallone. Per lui no. Ha ancora tanto da dimostrare, per primo a se stesso. Ha altri traguardi da conquistare. Il decimo tricolore consecutivo, per esempio. Per non parlare della Champions. E poi c’è ancora la Nazionale. Il bilancio a oggi è agrodolce, ma la partita azzurra non è ancora finita. 
Ha fatto 500 in bianconero (510 per la precisione). È il capitano. È il simbolo della Juventus del Terzo Millennio. È un leader. Carismatico, ma non appariscente. Capace di gesti meravigliosi anche nei confronti dell’avversario appena sconfitto. Con le stampelle dopo il grave infortunio al ginocchio la sera del 31 agosto 2019 al fischio finale dell’arbitro, incrociò lo sguardo dolente di Koulibaly che a tempo scaduto aveva condannato il suo Napoli con un clamoroso autogol. Lo abbracciò in mezzo al campo. Un gesto spontaneo, bellissimo, esemplare. Da capoclan positivo e intelligente ha proposto il taglio dello stipendio per sé e compagni nei mesi del lockdown. In giacca e cravatta è sempre stato con la squadra anche durante la sua lunga convalescenza, ritiri compresi. Farà il dirigente, ha già iniziato a studiare la parte. 
Giorgio Chiellini e la Juventus. Anzi, è la Juventus. Unico ad aver messo in fila i nove scudetti dell’era moderna. Andrea Barzagli ha smesso. Bonucci ha fatto da pendolare con Milano per un anno; lo stesso è capitato a Buffon sulla tratta Torino-Parigi la stagione scorsa. Lui c’è sempre: rotto, intero; sfasciato e fasciato. E quando si infila il turbante, dopo l’ennesima sanguinosa capocciata contro l’avversario di turno, e si mette di profilo con quel naso camuso segnato dal tempo e dalle fratture, ecco comparire in controluce l’immagine di Carlo Bigatto, pioniere di una Juve dei tempi eroici. Quelli con calotta in testa, mutandoni bianchi e maglie con i lacci al colletto. Quelli che si sta in campo finché c’è fiato, finché c’è un pallone da inseguire, finché c’è un avversario da bloccare, finché c’è un gol in più da fare. Con il cuore a strisce bianconere. Fino alla fine.

È arrivato il giorno. Questa sera un vortice di emozioni mi attraverserà.
La Juve per me è stata tutto. La mia giovinezza, l’esperienza, la maturità. La voglia di vincere, la gioia del trionfo, l’accettazione della sconfitta. L’ebrezza della sfida, il duello in campo, la mia testa sempre fasciata. E poi i campioni, dentro e fuori dal prato verde, gli allenatori, i dirigenti, tutte le persone dello staff... Uomini che sono passati lasciandomi sempre qualcosa. Qualcosa che ho avuto la cura di raccogliere, conservare e custodire. 
Tre. Il mio numero. Ma anche le sensazioni che ora convivono nel mio animo.
GIOIA, per un’avventura finita così, per aver realizzato ogni sogno, immaginabile e non, e di rimanere per sempre nella storia di questo grande club.
SERENITÀ, di scegliere il momento giusto per salutare, di lasciare ancora a un livello consono rispetto a quello che sono stato, di aver condiviso tanti valori ed emozioni che nessuno potrà mai cancellare.
GRATITUDINE, per tutta la Juventus, per la famiglia Agnelli che mi ha adottato in tutti questi anni, per i miei affetti più cari e per tutte le persone a cui voglio bene, senza i quali non sarei la persona che sono adesso, perché loro sono stati una fonte inesauribile di supporto ed energia e mi hanno accompagnato sempre in questo lungo viaggio.
Mi ritrovo così davanti al più bello dei tramonti, provando a immaginare una nuova alba. Perché il viaggio non finisce. Non so ancora che cosa mi aspetti dopo. Ma saranno un altro tempo e un’altra storia. Questo invece è il momento dei saluti e di un’infinita e profonda gratitudine. 
Grazie.
Grazie a tutti, ai tifosi e agli avversari.
Grazie per avermi accolto, sopportato, supportato.
Grazie per aver dato senso al significato della parola sogno.
Grazie, fino alla fine, grazie.
 


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