Gli eroi in bianconero: Gianpiero COMBI
Nato a Torino, il 20 dicembre 1902, milita esclusivamente nelle file della Juventus. Portiere di grande classe, Combi è una delle colonne della squadra che domina per tanti anni in Italia. Con i bianconeri vince cinque volte il Campionato d’Italia: nel 1926, nel 1931, nel 1932, nel 1933 e nel 1934, totalizzando 367 presenze. Forma con Rosetta e Caligaris il più famoso terzetto di difesa che sia mai esistito. Di media statura per quell’epoca (171 centimetri), muscolato in modo meraviglioso, ha una struttura fisica robustissima. È detto Fusetta, che in dialetto piemontese significa lampo, petardo.
Al termine della stagione 1924-25: «Voleva quasi lasciare – racconta il fratello Maurizio – lui rappresentava la parte commerciale della nostra distilleria di liquori e doveva partire per l’America. Ne parlò alla Juventus e così diventò professionista. Ha avuto la prima macchina ed è diventato grandissimo. Io mi ero dato al canottaggio. Mi attirava quella disciplina seria, e ho vinto due titoli italiani; ma mio fratello è stato un vero campionissimo. Ha giocato con tre costole incrinate, dopo una partita con il Modena; con la Cremonese ha giocato con la vertebra coccigea incrinata, stava appoggiato al palo e interveniva quando era necessario. Non voleva perdere il posto, si preoccupava sempre di perderlo. Forse più si è bravi meno si è sicuri di esserlo. Ha giocato anche con l’itterizia, tutto fasciato, nel gran freddo; ha giocato con i polsi e le dita e la faccia scassati; ha giocato».
In un Juventus-Bologna, fa una parata incredibile: Angelo Schiavio, che è un fuoriclasse, un grandissimo campione e un gentiluomo, si presenta da solo davanti a lui. Lo stadio piomba in un silenzio angoscioso, allucinante; i due grandi campioni si guardano negli occhi e Schiavio, con una finta, indirizza la palla nell’angolo, alla sinistra di Combi, il quale intuisce il tiro e, con un gran balzo, respinge a pugni chiusi. L’attaccante felsineo è di nuovo sul pallone e, senza aspettare un istante, tira ancora, esattamente nello stesso angolo di prima, dove Gianpiero è rimasto ad aspettare la palla, per bloccarla comodamente. Combi, giocatore di rara intelligenza, aveva capito che Schiavio, vedendolo a terra nell’angolino sinistro, avrebbe creduto che si sarebbe buttato dall’altra parte, dove ogni altro giocatore al mondo, all’infuori di Schiavio, avrebbe indirizzato il pallone. E, contrapponendo l’astuzia all’astuzia, era rimasto fermo, sicuro della mossa dell’attaccante bolognese, il quale, non appena Combi si alzò da terra, corse subito a stringergli la mano.
Giocatore dotato di grande serietà e dirittura morale, è senza alcun dubbio uno dei migliori portieri che abbia prodotto il calcio italiano. Conclusa la sua vita di calciatore, Combi diventa dirigente. Il suo giudizio è competente e ponderato, fatto di tanto buon senso e tanta esperienza. Mai un apprezzamento azzardato, mai una valutazione che non fosse ben pensata. Nel consiglio direttivo della Juventus porta la sua saggezza, la sua onestà. Viene anche chiamato alla direzione della squadra nazionale con Busini e Beretta in un periodo agitato della vita calcistica.
La morte lo coglie nel 1956 mentre coopera con Umberto Agnelli a risollevare i destini della Juventus: anche grazie a lui e ai suoi preziosi servigi, la squadra bianconera rivedrà, in poco tempo, le stelle.
ANGELO CAROLI
Si era spento, sul lungomare che da Sanremo conduce a Imperia, uno dei più grandi portieri della storia. Colto da malore, aveva avuto il tempo di accostare la macchina al ciglio della strada. Fu soccorso e trasportato presso l’ospedale di Imperia, dove morì qualche ora dopo. Era il 13 di agosto. Quella notte le stelle caddero dal cielo con parabole struggenti. Fusetta, così lo chiamavano i tifosi, aveva lasciato al calcio un’antologia di prodezze, fatte di coraggio, di spavalderia e di continuità. Aveva vinto gli scudetti del quinquennio e un Campionato del Mondo con Vittorio Pozzo. Mai atleta dimostrò questa prodigiosa contraddizione: riflessivo nella vita, spregiudicato in campo. Quante volte si era presentato all’arbitro e in seguito fra i pali della porta con la testa o con una mano rotta! Fusetta aveva la rapidità dei felini quando fiutano la preda. Lessi della sua morte e rividi al rallentatore le immagini di quel gennaio del 1956, quando mi sorrise stringendomi la mano, mentre l’orologio della stazione di Porta Nuova scoccava la mezzanotte.
ALBERTO FASANO, DA “HURRÀ JUVENTUS” DEL 1975
Attorno al letto di Ceresoli c’erano tutti: Rosetta, Allemandi, Monti, Meazza, Combi, Schiavio, Ferrari, Orsi e gli altri. Lui, disteso sulle lenzuola, pallido come uno straccio, contraeva le labbra dal dolore. Vittorio Pozzo, il Commissario Tecnico, lo stava a guardare in silenzio, pensieroso. Faceva molto caldo in quella piccola stanza d’ospedale piena di gente. Di tanto in tanto, dalla finestra aperta, entrava il suono di una campana lontana misto a un acuto odore di medicinali. A un tratto arrivò il medico. Si avvicinò al letto e si chinò su Ceresoli. Lo toccò alla spalla e gli palpò a lungo il braccio sinistro. Ceresoli non emise un gemito, ma il suo volto divenne ancora più bianco. Parve sul punto di svenire. «Una brutta frattura: l’omero si è spezzato netto – disse il medico – dovrà stare ingessato per più di un mese».
Ci fu un attimo di sgomento generale. Pozzo si guardò attorno smarrito. Poi giro gli occhi verso Combi e lo fissò intensamente. A Combi tremavano le gambe dalla paura e dall’emozione: aveva già capito tutto. Pozzo parlò in dialetto piemontese, come faceva sempre nei momenti cruciali rivolgendosi a un suo conterraneo. Disse: «Piero, souta, touca a ti (Piero, sotto, tocca a te)».
Gianpiero Combi fece un cenno d’assenso con il capo e uscì subito dalla stanza. Corse fuori, si appartò in un angolo e cominciò a singhiozzare come un bambino. All’inizio dei Campionati Mondiali di calcio mancavano solo dodici giorni e lui, da quel momento, era il portiere titolare della squadra azzurra. Ce l’avrebbe fatta a prepararsi? Sarebbe riuscito a superare la difficile prova?
Nel maggio del 1934, i calciatori azzurri si trovavano in ritiro a Roveta, vicino a Firenze, per allenarsi in vista della seconda edizione dei Campionati Mondiali, che quell’anno si sarebbero svolti in Italia. Vittorio Pozzo aveva convocato una trentina di atleti, reclutandoti fra i migliori nelle squadre di maggior grido di allora. Sulla formazione c’erano ancora molti dubbi da risolvere, ma non esistevano incertezze sull’uomo da mettere fra i pali.
Doveva essere il bergamasco Carlo Ceresoli, estremo difensore dell’Ambrosiana che, con il torinese Combi della Juventus, era considerato il più forte portiere italiano del momento. Tra i due, Pozzo aveva preferito il più giovane Ceresoli anche perché Combi, convalescente di un ennesimo infortunio di gioco, appariva un po’ giù di forma. Ma, all’improvviso, il commissario tecnico fu costretto a mutare la sua decisione.
Proprio alla vigilia dei Mondiali, durante un allenamento sul campo sportivo di Roveta, Ceresoli cadde e si fratturò il braccio sinistro. Così, il suo posto in Nazionale lo prese Combi. «In quell’occasione Combi mi colpì soprattutto per la tenacia, la forza di volontà, il coraggio», ricorda Vittorio Pozzo. «In meno di due settimane riuscì a ritornare in forma perfetta. Si allenava dieci, dodici ore al giorno. Questa massacrante preparazione gli permise di affrontare in modo esemplare le terribili partite del campionato. La vittoria italiana ai Mondiali del 1934 dipese in larga misura dalle sue spettacolose parate».
Dopo aver conquistato l’alloro di Campione del Mondo, Gianpiero Combi si ritirò per sempre dai campi di gioco. Chiunque altro si sarebbe lasciato lusingare dalla splendida prova. Lui no. Aveva trentuno anni appena, poteva continuare a giocare per molte stagioni ancora. Invece, decise di concludere la carriera. Qualche anno più tardi ne spiegò le ragioni. Disse: «Ci tenevo a finire in bellezza quindici anni di carriera juventina e dieci anni in azzurro, con quarantasette gettoni di presenza. Volevo sfuggire alla sorte di quei vecchi attori o cantanti che ogni anno si concedono la serata d’addio».
Era un grande atleta, ma soprattutto un grande signore che conosce gli obblighi del suo rango. Gianpiero Combi cominciò a giocare, come tutti i grandi campioni del passato, tirando calci per le strade e le piazze della sua città. Il padre, che possedeva a Torino una piccola industria artigiana di liquori, avrebbe preferito che fosse più diligente a scuola e che lo aiutasse in ditta. Gianpiero, invece, andava con gli amici ai giardini di Porta Susa e della Cittadella per disputare interminabili partite con una palla di gomma o di stracci. Era talmente svelto e vivace, che i genitori, preoccupati, lo rinchiusero in collegio, a Pinerolo. E fu qui che egli si scopri la vocazione del calciatore.
Mentre frequentava la scuola, propose la propria candidatura al Torino. Lo tennero in prova per alcuni giorni, gli fecero disputare una decina di partite, ma alla fine, i dirigenti granata decisero di scartarlo. Uno di loro disse: «È pieno di buona volontà, ma non ha proprio la stoffa del calciatore».
Combi non era tipo da scoraggiarsi. Pochi mesi dopo tento ancora. Questa volta andò a offrirsi alla Juventus ed ebbe maggior fortuna. Entrò a far parte del club bianconero nel 1918, a sedici anni, come portiere della terza squadra. Era talmente smanioso di imporsi e di sfondare che, per tenersi aperta una via d’emergenza, giocava sovente anche all’ala sinistra. Quelli erano gli anni favolosi del calcio italiano. A quei tempi non esistevano lauti stipendi né premi di partita o d’ingaggio.
La Juventus era un club di aristocratici che si occupavano di calcio per passione e per diletto. I calciatori erano in gran parte studenti, tutti ragazzi della borghesia che giocavano a pallone perché era lo sport di moda, perché amavano le contese franche, coraggiose, leali. Non a caso tutto ciò accadeva a Torino, legata ancora alle nobili tradizioni sabaude ma già ricca di nuovi stimolanti fermenti. In questo clima si affermo Gianpiero Combi.
Gli inizi della carriera furono disastrosi. Esordì in prima squadra il 5 maggio 1922 contro la Pro Vercelli. Scese in campo tranquillo e sicuro. I tifosi juventini lo conobbero allora, la prima volta, ma purtroppo non ne riportarono un’impressione molto favorevole. Fu perseguitato dalla sfortuna e travolto dalla bravura degli avversari che, nel primo tempo, riuscirono a segnargli quattro reti. Pioveva a dirotto, il terreno sembrava una smisurata pozzanghera, i giocatori scivolavano ad ogni passo, il pallone schizzava di qua e di là come impazzito. Nel secondo tempo i terribili bianchi fecero altri tre goal e il malcapitato Combi fu quasi sul punto di piangere. Tenne duro fino alla fine dell’incontro, che si concluse con una clamorosa sconfitta della Juventus per 1-7. Poteva essere la fine di tutto. Lui, invece, seppe tener duro e aspettare giorni migliori.
Anche come giocatore della Nazionale ebbe un esordio che sarebbe bastato per stroncare la carriera di chiunque. Chiamato improvvisamente il 6 aprile 1924 a Budapest, nella partita contro l’Ungheria, a sostituire l’infortunato Da Prà, condivise con i compagni la sorte di una fra le più dure sconfitte subite dagli azzurri e incassò ben sette reti. Una volta ancora trovò la forza di resistere e di continuare. Poi, finalmente, giunse la stagione dei trionfi, arrivarono le giornate memorabili: come Italia-Francia (7-0) a Torino il 22 marzo 1925, o come Italia-Germania (2-0) a Francoforte il 2 marzo 1930. In questo senso la sua carriera fu una lezione che ancor oggi può fare riflettere. Altrettanto esemplare fu il suo attaccamento per la squadra che lo aveva scoperto e valorizzato.
Alla Juventus rimase fedele per tutta la sua carriera: gli sarebbe parso un tradimento cambiare squadra. In maglia bianconera disputò 160 partite di campionato, conquistando cinque scudetti: nel 1926, nel 1931, nel 1932, nel 1933 e nel 1934. Con i terzini Rosetta e Caligaris costituì un celebre trio difensivo, pilastro dei clamorosi successi della Vecchia Signora: «Era un trio insuperabile – dice Pozzo – Rosetta era tutto tecnica e studio, Caligaris tutto impeto e slancio, Combi riassumeva le doti di entrambi e le integrava perfettamente».
Come tutti i metodisti, era fortissimo fra i pali e un po’ meno in uscita, ma aveva uno stile asciutto e molto poco esibizionista. Aveva scatto, colpo d’occhio, intuito. Parava anche i tiri più insidiosi. Una volta, durante una gara di campionato, riuscì a respingere nove rigori.
Era parco nel cibo, beveva pochissimo vino, mai liquori. Fumava, invece, parecchie sigarette al giorno: una anche in partita, nell’intervallo fra un tempo e l’altro. Si allenava scrupolosamente. Tutte le mattine, nel cortile di casa, faceva ginnastica, dedicandosi poi a un esercizio che aveva inventato lui: si metteva davanti a un muro e calciava forte la palla con i piedi, riprendendola quindi di rimbalzo con le mani. Cosi, per mezzora di seguito.
I tecnici, ancora oggi, lo considerano uno dei più abili portieri di tutti i tempi. Secondo Pozzo, il migliore in senso assoluto fu Olivieri: «Ma subito dopo metterei questi cinque: lo spagnolo Zamora, il cecoslovacco Plánička, l’inglese Scott, gli italiani Combi e Ceresoli».
Dopo l’umiliante sconfitta subita a Budapest, Combi fu chiamato alle armi per il servizio di leva e assegnato al battaglione Susa del 3° Alpini. La sua carriera sportiva non subì interruzioni: poté continuare a giocare tanto per la Juventus come per la Nazionale. Dovette, però, rinunciare, durante i due anni di militare, a molte sue abitudini: ai capelli lunghi impeccabilmente pettinati, agli abiti eleganti e di buon taglio, alle passeggiate sotto i portici di piazza San Carlo con le belle ragazze torinesi o con uno dei suoi prediletti cani danesi.
Teneva molto alla proprietà del vestire e alla cura della persona. Anche in campo, quando recitava la parte dell’atleta, desiderava essere di un’impeccabile eleganza. I suoi maglioni bianchi o neri, accollati, di forma perfetta, diventarono ben presto famosi. Si faceva confezionare i pantaloncini, con uno speciale panno di fustagno, da un sarto del quale non volle mai rivelare il nome. Questi calzoni, imbottiti ai fianchi, avevano due capaci tasche per infilarci le mani. Combi, infatti, soffriva molto il freddo.
Durante il periodo in cui era militare, gli accadde di essere protagonista di un episodio curioso che, fra l’altro, rivela quanto egli fosse orgoglioso del suo fisico eccezionale e della perfetta struttura atletica. Un giorno seppe che il comandante del reggimento, colonnello Faracovi, cercava dei soldati di bell’aspetto disposti a posare per lo scultore Alloatti. Combi si presentò al colonnello e gli disse che lui pensava di essere l’alpino ideale. Fu esaminato attentamente e infine fu preferito ad altri cinque suoi prestanti commilitoni. Si trattò di una scelta felice. Ancor oggi a Viu, un paesino della valle di Lanzo, c’è un artistico monumento ai Caduti. Pochi sanno che fu proprio Combi a far da modello per la figura di quel soldato da montagna dalle forme scultoree.
Per otto anni, i primi della sua carriera, non percepì uno stipendio regolare dalla Juventus e non lo pretese mai. Così, aveva meno obblighi verso la società e poteva dedicare più tempo alla sua industria di liquori e aperitivi che amministrava assieme al fratello Maurizio. Ai quattrini, del resto, non diede mai troppa importanza. Tuttavia, fu felice quando per la vittoria dello scudetto del 1926 il presidente della Juventus, Edoardo Agnelli, gli regalò una fiammante 501. Aveva la passione delle automobili. Più tardi si comprò una Lancia carrozzata da Pininfarina, decapottabile, rossa, della quale era orgogliosissimo. L’aveva pagata 14.000 lire. Con questa macchina tentò persino di partecipare a una Mille Miglia, ma i dirigenti del club bianconero glielo proibirono.
Non si può dire comunque, che il gioco del calcio e i successi lo abbiano arricchito. Quando i suoi impegni sportivi aumentarono, accettò un compenso fisso che raggiunse, con il tempo, le 90-100.000 lire annue. Si trattava di una cifra rispettabile, se si pensa che in quegli anni era in voga la canzonetta che diceva: «Se potessi avere mille lire al mese, quante cose potrei far».
Investì molti soldi nella ditta e nell’acquisto di alcune case. All’angolo di via Roma con piazza Castello aprì un bar che, per molti anni, fu il ritrovo preferito degli sportivi torinesi. In quel bar, vicino alla cassa, troneggiava una grande statua di bronzo che lo raffigurava proteso in volo con il pallone fra le mani. Oggi il bar è stato sostituito da una pasticceria e la statua e malinconicamente finita in un’oscura soffitta.
Gianpiero Combi è passato alla leggenda del calcio anche per il suo coraggio. Un coraggio che rasentava la temerarietà. Si lanciava sulla palla, fra i piedi dei compagni e degli avversari, riportando anche lesioni e fratture. Sopportava il dolore fisico con grande forza d’animo. Una domenica, a Brescia, riuscì a giocare l’intero secondo tempo con due costole rotte. Ogni tanto sveniva e l’arbitro era costretto a sospendere il gioco; nel frattempo, il massaggiatore si affannava a fargli riprendere i sensi con degli impacchi d’acqua gelata alla nuca. L’incidente più grave gli capitò nel marzo del 1931 a Torino, sul vecchio campo di Corso Marsiglia, nella gara contro il Modena che la Juventus vinse per 2-0.
Uscì baldanzosamente dai pali per afferrare la palla, ma rimase preso in mezzo fra un avversario e il suo compagno di squadra Caligaris. Si fratturò il braccio destro e prese un terribile colpo alla testa. Per quarantotto ore stette fra la vita e la morte. Da un orecchio continuava a uscirgli sangue. I medici dissero che si trattava di una lesione alla tromba d’Eustachio. Dovette rimanere parecchie settimane a riposo: aveva perso il senso dell’equilibrio. Ma non il senso dell’umorismo. Scherzava sulla sua disgrazia diceva che, diversamente da quei burattini che non cadono mai, lui cadeva non appena lo mettevano in piedi. Perché il gusto di scherzare, la giovialità e il tono bonario non lo abbandonavano mai. Accettava sportivamente anche i rabbuffi. A Francoforte, dopo la vittoria per 2-0 sulla Germania andò da Pozzo e gli chiese se fosse rimasto contento.
Pozzo rispose bruscamente di no, che si erano sbagliati, che la partita da vincere non era quella ma l’altra, che si sarebbe disputata a Budapest. «L’è sempi l’autra», rispose in dialetto piemontese. E a Budapest si mise d’accordo con i compagni di squadra (che erano: Monzeglio, Caligaris, Colombari, Ferraris IV, Pitto, Costantino, Baloncieri, Meazza, Magnozzi e Orsi) e saltò fuori quel 5-0 che diede agli azzurri la Coppa Internazionale. «Anche stavolta abbiamo sbagliato?» Chiese a Pozzo quella sera.
Al contrario dei calciatori della sua epoca, Combi non era superstizioso. Rosetta, per esempio, indossava sempre lo stesso abito nero il giorno che doveva disputare un incontro importante. Orsi non si radeva la barba e nascondeva tra calza e scarpa una carta da gioco raffigurante il jolly, Monti non andava mai in tram, Borel ricavava sfavorevoli pronostici dall’uscita del numero diciassette sulla ruota del lotto di Torino, Mario Varglien scendeva sempre in campo qualche minuto prima dei suoi compagni per cercare un quadrifoglio e le rare volte che non riusciva a trovarlo, si disperava e giocava malissimo. Combi sorrideva di queste piccole manie: al malocchio non ci credeva. Lui entrava in campo tranquillo e sereno, leggermente impettito, con lo stile di un vecchio ufficiale di cavalleria che partecipa a un concorso ippico.
Mario Crova è un uomo di buona memoria, ne ha viste e sentite di tutti colori, è stato magazziniere e aiuto massaggiatore della Juventus dal settembre del 1924 al giugno del 1962. Dice di Combi: «Era un signore sotto tutti i punti di vista».
Come un autentico signore, come un vero gentiluomo lo ricordano anche gli altri (sportivi e no) che ebbero la ventura di conoscerlo. Rosetta dice: «Non l’ho mai udito una volta arrabbiarsi o alzare la voce».
Sul campo era sempre di una correttezza esemplare, soprattutto con gli avversari. Schiavio, del Bologna, gli segnò una volta, nella stessa partita, due goal in fila con due tiri bellissimi. Lui, in entrambe le occasioni, andò a stringergli la mano e a congratularsi. Ripete il medesimo gesto cavalleresco qualche tempo dopo con Petrone, della Fiorentina, che lo aveva battuto con un tiro micidiale.
Conclusa in bellezza la carriera sportiva, si sposò con una ragazza torinese, Lidia Piola, che aveva conosciuto pochi mesi prima. La sua unica figlia, Maria Piera, sposata con l’industriale Lavazza, lo ha reso due volte nonno. Dopo la vittoria ai Mondiali del 1934, Combi non abbandonò del tutto il mondo del calcio. Divenne direttore tecnico della Juventus e fu per anni apprezzato e benvoluto da dirigenti e giocatori. Nel club bianconero portò competenza, saggezza, onestà. Prestò la sua opera per pura passione, disinteressatamente. Non volle mai una lira di compenso e pretese che lo si sapesse. Temeva che lo accusassero di fare la corte ai fratelli Agnelli per interesse personale.
Il 13 luglio 1956, mentre era in villeggiatura con la famiglia sulla Riviera ligure, fu colto da un improvviso malore: fu proprio il cuore a tradirlo. Morì d’infarto. Ai suoi funerali, svoltisi a Torino, partecipò una folla enorme. Vittorio Pozzo tenne l’orazione funebre. Disse: «È tutta una serie di pagine della vita nostra, vissute e scritte assieme, che Gianpiero porta con sé. Tutte le cause a cui fu chiamato le ha servite con fedeltà e onore».
Nella lotta per superare il dolore noi, pensando a lui a quasi vent’anni della morte e al rimpianto che ha lasciato, ci sentiamo più buoni. Sentiamo che vale ancora la pena di essere leali, corretti, onesti, tutti di un pezzo se, partendo, si raccoglie tanto plebiscito d’amore.
MARIO DAPRÀ, FIGLIO DI FRANCESCO UNO DEI FONDATORI DELLA JUVENTUS
Era di casa, frequentava regolarmente la mia famiglia ed era un ragazzo che voleva giocare sempre al football, il campo di gioco era la sua vita. Gli zii avrebbero voluto che diventasse un ragioniere per gestire l’azienda di famiglia che produceva vermouth, poi con il tempo hanno confessato a mio padre che era andata meglio così, era giusto che avesse seguito il suo istinto e la sua passione. Era un vero numero uno, lo paragonavano a Zamora, il mitico portiere della Spagna. Il bello di Combi è che stava appoggiato al palo della porta quando la Juventus attaccava e considerando la forza dei bianconeri trascorreva così gran parte del tempo della partita. Finita l’attività agonistica aveva messo su un caffè in via Roma e sul banco c’era una statua che lo raffigurava proteso in una parata. Però, quando si passava da lì, lo vedevi che stava sulla porta del caffè proprio come se fosse ancora sul campo, appoggiato allo stipite con lo sguardo rivolto in avanti come se dovesse fermare un tiro. Quando mio padre morì, nel 1952, lui portò con orgoglio il gonfalone della Juventus al suo funerale. Fu l’ultima volta che lo vidi.
FELICE BOREL, DA “IL CAMPIONE” DEL 20 AGOSTO 1956
«Era per tutti noi un fratello maggiore, il più bravo, il più saggio, e tutti gli volevano bene». Hanno scritto questo subito dopo la scomparsa di Gianpiero Combi, e nessuno può testimoniare quanto questo sia vero come me, che per trent’anni ho vissuto le sue gesta di campione, di sportivo e di uomo.
Ero appena un ragazzo quando, nel 1922, assistetti per la prima volta a una partita di Gianpiero nella Juventus: divenne subito il mio idolo, e da quel momento fui il suo più acceso tifoso. Non immaginavo certo, allora, che qualche anno dopo mi sarebbe stato concesso l’onore di essere suo compagno di squadra. Come calciatore, Gianpiero poteva servire a noi tutti più giovani da esempio, e quando nel campionato 1930-31 un grave incidente lo tenne lungamente lontano dalla nostra Juventus, provammo come un senso di smarrimento: eravamo abituati a lui ed era per noi una sicurezza Io giocavo all’attacco, e a Gianpiero voltavo quasi sempre le spalle, ma sapevo che era lì, lo sentivo distintamente dietro di me anche senza vederlo ed eravamo tutti sicuri che le puntate degli avversari nella nostra area si sarebbero arrestate sotto la nostra porta, perché lui era tra i pali.
Dall’incidente del Campionato 1930-31 Gianpiero riuscì a riprendersi meravigliosamente, la sua fibra fortissima aveva avuto ragione del mare, e da quella volta si era creata fra noi, ed era durata fino a ieri, la convinzione che Combi avrebbe superato qualsiasi crisi, che sarebbe vissuto per tanti, tanti anni ancora, che con lui avremmo potuto ricordare i bei tempi della Juve, dei cinque scudetti consecutivi, dei Mondiali del 1934. Era un sogno, e da questo sogno ci siamo svegliati bruscamente, in una stanzetta dell’ospedale di Imperia traboccante di fiori, dove chi entrava leggeva il proprio dolore sul viso degli amici che uscivano dal mesto pellegrinaggio.
Non potevamo credere che Gianpiero ci avesse lasciati, e ancora adesso non riesco a pensare che noi vecchi della Juventus non potremo più rivolgerci a lui per un parere, per un consiglio. Per noi tutti era rimasto l’ideale compagno di gioco che era quando eravamo in squadra. In tanti anni di comune vita sportiva, non ricordo una sola volta che non avesse avuto per i suoi compagni parole che non fossero di incoraggiamento e di elogio. E quando proprio la sua voce suonava a rimprovero, era sempre un’osservazione calma, misurata, di chi essendo atleta non dimentica neppure per un istante di essere un uomo.
Gianpiero Combi era, infatti, così: l’uomo-calciatore e, aveva creato un tipo da pochi altri imitato, e che adesso va sempre più scomparendo negli ambienti del calcio. Quando giocavo con lui vi erano in Europa e nel Mondo tre grandi portieri: lo spagnolo Zamora, il cecoslovacco Plánička e lui, Gianpiero Combi. Nessuno fu mai forte, tra i pali, come loro tre, e Giampiero non fu inferiore agli altri due, che di lui del resto avevano grandissima stima. Quanto fosse forte Combi, sta a dimostrarlo il fatto che per dieci anni, nei dieci anni in cui il calcio italiano fu forte come non mai, la casacca di portiere della Nazionale azzurra fu suo quasi esclusivo appannaggio. Per quarantasette volte Gianpiero fu portiere della Nazionale italiana e il suo record rimane nella storia del calcio internazionale come qualcosa di difficilmente eguagliabile.
Quindici anni di eccezionale carriera nella Juventus, e dieci anni in Nazionale; c’era da accontentare chiunque, se non fosse che nel calcio difficilmente ci si rassegna a uscire dal campo. Lui ci riuscì, e diede un’ennesima prova della sua serietà sportiva Ce lo aveva detto, del resto, lo rammento benissimo. «I Campionati del Mondo, ragazzi, e poi chiudo». Non gli volevamo credere. I Mondiali, lo sapevamo tutti, erano l’apice della carriera di un calciatore, non c’era niente di più alto da disputare. Pure stentavamo a pensare che Gianpiero, dopo il trionfo del 1934 si sarebbe ritirato. Ma la sua decisione era stata ben ponderata. Ricordo ancora che mi spiegò il motivo per cui avrebbe lasciato, al culmine della carriera, il suo posto tra i pali. «Vedi Felice – mi disse – ho sempre pensato con tristezza alla sorte di quei vecchi attori o cantanti che a ogni piè sospinto si concedono una serata d’addio e che ogni volta di più danno prova del loro inarrestabile declino. No Felice, ho deciso, lascio il gioco, farò lo spettatore».
Lasciò il gioco, infatti, ma quanto a fare lo spettatore non era facile. Doveva fare i conti con la Juventus, Gianpiero; e la Juventus, se era disposta a perdere Combi-giocatore, non voleva assolutamente privarsi di Combi-sportivo. Da allora a oggi sono trascorsi più di vent’anni, e in tutto questo periodo Gianpiero era stato il più sicuro consigliere del sodalizio bianconero. Anche negli ultimi tempi, quando gli sportivi torinesi e i tifosi della “Zebra” sparsi per tutta Italia avevano tremato per la brutta piega che prendevano le cose nella vecchia Juve, Combi era stato al suo posto di battaglia, e quando il giovane Umberto Agnelli aveva preso il timone della società, Combi era stato il consigliere più ascoltato del giovane presidente, l’uomo di fiducia da cui si era sicuri di poter sempre avere un parere esatto e ponderato.
Non possiamo pensare che Gianpiero ci abbia lasciati; anche se non è più tra noi vogliamo sognare che esista una piccola parte di cielo riservata ai grandi campioni, e che di là egli possa seguire i suoi vecchi compagni, e gli sportivi che a lui si rivolgevano per un consiglio.
Acquista il libro "La Juve oscura" scritto da Stefano Bedeschi
Acquista il libro "Il pallone racconta" scritto da Stefano Bedeschi