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Gli eroi in bianconero: Franco CAUSIO

di Stefano Bedeschi

C’è un ricordo che Franco Causio si porterà sempre: lo scopone con Pertini sull’aereo che riportava a casa l’Italia Campione del Mondo del 1982: «Indelebile. Io ero in coppia con Bearzot, il presidente con Zoff. Io feci una furbata: calai il sette, pur avendone uno solo. Pertini lo lasciò passare e Bearzot prese il “Settebello”. Abbiamo vinto così quella partita». C’è tutto il repertorio di Causio: il sette, la finta, l’avversario disorientato. Ma stavolta non era un terzino, era il Presidente della Repubblica. Che si arrabbiò moltissimo.
Ha il merito di fare del calcio e del suo ruolo di ala, un’arte, un modo di esprimersi; irresistibile con la palla al piede, inventa uno stile di gioco, che in molti hanno cercato di copiare e che è rimasto impresso nella mente di molti tifosi. Il suo miglior periodo è senza dubbio legato alla Juventus degli anni Settanta e alla Nazionale di Enzo Bearzot. Il suo esordio avviene nella stagione 1964-65 nella squadra della sua città, il Lecce, che in quell’anno militava in Serie C. L’anno successivo passa alla Sambenedettese sempre in Serie C.
Nel 1966 approda nella Juventus di Heriberto Herrera che lo fa esordire in Serie A, appena diciannovenne, contro il Mantova, il 21 gennaio 1968: «Avevo solo diciassette anni e non posso negare che l’impatto fu molto duro. Io ero un ragazzo del Sud e la Torino di fine anni Sessanta era una città difficile. Vivevamo nel pensionato di Via Susa e non è, francamente, un bel ricordo. Ci rimasi solo un anno, perché, dopo aver esordito nella Juventus, andai a Reggio Calabria».
Successivamente, viene mandato al Palermo, per consentirgli di fare esperienza e maturare. Nella squadra rosanero, che milita in Serie A, il giovane Causio si fa conoscere a livello nazionale: «Avevo vent’anni quando sono arrivato a Palermo. Ero di proprietà della Juventus, che mi aveva mandato la stagione precedente alla Reggina in B. L’impatto con la città è stato bello, ho ancora tanti amici e per me è stato importante l’incontro con Di Bella. Era una persona eccezionale. Mi ha insegnato a giocare per la squadra. “Ricordati – mi diceva – non bisogna giocare per te stesso, ma per gli altri: sei bravissimo e se lo capirai, diventerai un grande”. E mi ha anche insegnato com’è la vita, che non è soltanto quella che si vive su un campo di calcio».
Ritornato a Torino nel 1970, Franco Causio, non trova ancora un posto da titolare, ma in quella stagione riesce comunque a farsi notare segnando sei reti. Il giorno del raduno è il 24 luglio 1970. Causio è lì, capelli abbondanti, occhiate basse quasi torve: «Sono venuto per giocare. A Palermo ero titolare, la stessa cosa sarà nella Juventus. Sono il più forte».
Ma è nella stagione successiva che, sotto la guida di Vycpálek, Causio trova lo spazio che merita giocando undici campionati con la maglia bianconera e vincendo sei scudetti, una Coppa Italia e una Coppa Uefa: «L’inizio non fu dei più semplici, perché non credevano molto in me e, se sono rimasto alla Juventus, devo ringraziare Armando Picchi. Fu lui a farmi giocare dieci minuti contro il Milan così che, in base al regolamento, non potevo più essere ceduto. Il mio, insomma, è stato un successo fortemente cercato, voluto».
Professionista esemplare e molto attaccato al proprio lavoro, lo testimonia la carriera lunghissima, ha convissuto a lungo con il luogo comune, falsissimo come tutte le frasi fatte, di genio e sregolatezza. Viceversa, è sempre stato un serio lavoratore (anche in allenamento) anche se, è inutile negarlo, ha sempre cercato la giocata vincente, il guizzo per decidere l’incontro rifiutando, quasi sdegnoso, il passaggino banale, il tocco laterale per nascondersi: «Alla Juventus c’erano regole ferree: in campo non si gesticolava, non si protestava con gli arbitri. E se sbagliavi Boniperti ti toccava nel portafoglio. Non temeva affatto dei voti riportati dai giornali. Il lunedì ti incontrava e ti diceva: “Ti hanno dato sette, ma per me ha giocato da cinque”».
Nella stagione 1983-84 passa all’Udinese, l’anno seguente all’Inter poi una parentesi al Lecce e nella Triestina, dove chiude la carriera a trentanove anni suonati: «La Juventus pensava al futuro che non poteva più essere di Causio, ma di Marocchino, di Fanna che scalpitavano tra i rincalzi. Peccato, perché a Udine ritrovai l’estro delle annate migliori e perché ero tutt’altro che sul viale del tramonto, tanto è vero che giocai ancora otto anni! Mi dispiace, perché fossi rimasto anche solo un anno, avrei giocato anch’io nella Juventus dei Platini e dei Boniek».
Impossibile sfuggire all’Avvocato Agnelli: «Ci sono state le telefonate alle sei del mattino, gli arrivi in elicottero a Villar Perosa. E invitava Boniperti a farmi tagliare i capelli e Giampiero rispondeva: “Lo lasci stare”. L’Avvocato sapeva veramente tutto, lo avevo soprannominato l’Enciclopedia. Una sera mi ha invitato a cena a casa sua, aveva una cineteca immensa. Abbiamo visto “Il profeta del goal”, il film realizzato da Sandro Ciotti, un altro grande, su Cruijff. E, dell’olandese, Agnelli sapeva tutto».
Causio esordisce in Nazionale il 29 aprile 1972, a Milano, in Italia-Belgio 0-0, ma il vero esordio avverrà due mesi dopo, il 17 maggio a Bucarest, Romania-Italia. Zoff; Spinosi e Marchetti; Agroppi, Rosato e Burgnich; Causio, Mazzola, Boninsegna, Capello e Prati. Finisce 3-3 e Causio segna il goal di un illusorio 3-2. Con la casacca azzurra disputa sessantatré incontri e realizza sei goal. Partecipa al Mondiale del 1974 giocando poco, ma in seguito con Bernardini prima e Bearzot poi diventa per molti anni padrone assoluto della maglia azzurra numero sette. Gioca in maniera ottima il Mondiale argentino del 1978 in cui segna anche un goal nella finalina contro il Brasile. Entra a far parte, a dieci anni dal debutto in Nazionale, all’età di trentatré anni, anche della rosa che conquistò il Mundial 1982.
Chiude la carriera in azzurro il 12 febbraio 1983, dopo undici anni di servizio, in Cipro-Italia 1-1: «La Nazionale che uscì al primo turno in Germania, nel 1974, era forte. Solo che si parlava troppo, riunioni su riunioni, del dualismo Mazzola-Rivera. In quell’occasione ho apprezzato Gianni Rivera soprattutto come uomo. In Argentina, nel 1978, abbiamo giocato il calcio più bello di tutto il Mondiale. Non siamo andati in finale perché, contro l’Olanda, eravamo convinti di aver già vinto dopo aver chiuso 1-0 il primo tempo. Bearzot mi sostituì con Sala per farmi riposare in vista della finale. Invece, gli olandesi fecero due goal e addio finale. A Bearzot voglio un bene dell’anima e gliene avrei voluto, anche se non mi avesse portato con la Nazionale in Spagna nel 1982. Conosco il grande Vecio, come lo chiamo con affetto, da quando avevo sedici anni. Lui era allenatore in seconda del Torino ed io feci un provino con i granata. Poi le Nazionali dall’Under 20 a quella maggiore».

VLADIMIRO CAMINITI
Quante volte abbiamo convenuto sul calcio come il gioco più perverso e più meraviglioso del mondo! Quante volte l’ouverture della forza del destino sembra creata per la parabola infinita raccontata dal pallone. Causio è stato un grande, un grandissimo fantasista. In lui rivive il barocco leccese, quella forma di pittura che evoca altezze e squisitezze del pensiero. La Puglia è tanta parte del paese, quando si parla di sport. Un certo Pietruzzu Mennea ha annichilito le tesi longobardiche sul Sud negato alle conquiste dello sport. Da Costantino a Causio si dirama tutta la verità che spiriti gretti non hanno saputo leggere. Causio inizia la sua favola a San Benedetto, su un campo verde sfiorato dal mare, tra gli schiamazzi di una splendida gioventù. Alla Juventus lo ha segnalato uno dei massimi crani tecnici di sempre, l’imperturbabile segreto dolcissimo Viri Rosetta. La Juventus lo ingaggia e lo manda a farsi le ossa a Reggio Calabria e Palermo. Quando rientra dal prestito ai rosanero, nel luglio 1970, Causio sa già il suo futuro. Imbatte nel vostro scrivagante, nell’antistadio, il giorno del raduno e della partenza per Villar Perosa, e gli fa: «Scrivilo, io sono il più forte, non posso che giocare titolare». Naturale che lo scrivo, e nemmeno rido sotto i baffi, perché di fatto alla Favorita Causio aveva sfavillato in quel campionato di A 1969-70 e tutti (Boniperti in testa) scommettono sul suo talento.
Nel campionato 1970-71, Causio entra in conflitto con il povero sventurato Picchi. Del resto, con chi non conflittuerà il nostro leccese gradasso? Giocherà venti partite, andando a segno cinque volte; a tratti, a sprazzi, il suo talento sarà evidenziato in una squadra che si sta rifacendo un’ossatura e un avvenire. L’avvenire della Juve bonipertiana, l’avvenire di Causio. Una volta, Boniperti dichiarerà che per essere grande, grandissimo, a Causio è mancata la precipua dote dello stoccatore. Ha insomma girato troppo al largo da quella che Heriberto nel suo italiota definì una volta “bocca del lupo”. Nel calcio, parabola della vita, tot capita tot sententia, ma attenzione, il giudizio di Boniperti è importante. Io prescindo da questo giudizio dell’amico Giampiero, e continuo a ritenere Causio il grande grandissimo stornellatore che è stato, e sufficienti tutti i goal che ha segnato.
Causio è stato soprattutto un’ala. Un’ala con molto di più di Muccinelli, ma anche di Biavati, di Claudio Sala, di Costantino. Un’ala antica e nuova, capace di far tutto. Un’ala, dopo gli anni formativi e degli sprechi esosi di immagini, dal talento lucidato a nuovo, dallo scatto progressivo e la finta irresistibile, come il cross di acutissima percezione. Quanti goal di Bettega si debbono al cross spaziante, smarcante di Causio? Io l’ho soprannominato Brazil. Nella solita opera informativa leggo che l’avrebbero fatto i tifosi della Filadelfia. Per quelli resta il Barone, peraltro apposizione geniale. Il barone del calcio, ma un barone arricchito dai piedi. I piedi fastosi, barocchi di Causio. La sua scelta del tempo, la sua capacità di rovesciare tutto il fronte del gioco con una genialità tattica unica, la sua sensibilità di uomo portato alle cose belle (e alle donne belle), tutto me lo farà prediligere. Il fondo del carattere ingenuo e generoso, da vero pugliese. Non importa se dovunque vada, i camerieri degli alberghi lo descrivono come superbo e intrattabile. Causio ha qualche complesso freudiano, una ritrosia personale che lo rende difficile, ma a saperlo capire ci si guadagna. È l’operazione che fa Trapattoni, quando giovane allenatore subentra alla Juventus e lo trova asso già affermato. Parola non riusciva a domarlo. Occorre tanta fermezza con Causio. Anche e specialmente perché la domenica renda come può e sa. L’ago della bussola juventina spesso è lui. Furino riconosce in questo leccese gradasso l’unico giocatore capace di fare la differenza, me lo dice più volte; nemmeno con Zoff e Bettega sarà così ricco di riconoscimenti. E Furino è l’anima plebea, il cuore nobile della squadra.
Il miglior Causio lo vedo in azione in Argentina. Finché i miei occhi non si chiuderanno, avrò ricordi consolatori per le rughe e le stanchezze; Verdi, Bellini, Vivaldi, Beethoven, Mozart; i miei classici: Tolstoj, Čechov, Maupassant, Balzac, Verga; i miei campioni, Causio tra questi. Ognuno di noi si porta addosso un carico di mestizie personali, a me ne sono toccate tante. Appena apro gli occhi, ogni giorno. Il calcio mi consola e mi rallieta. L’Argentina è tantissime cose: i lustrascarpe dalle rughe viziose, con la camicia di seta, seduti davanti ai negozi di lusso delle avenidas, le strade sbattute da una pioggia impietosa che da un momento all’altro restituisce i cieli salotti dell’azzurro; una città giovane come Mar del Plata, o una metropoli infinita come Buenos Aires. L’Argentina è tantissime cose. Le cose degli emigranti, queste bandiere che nello stadio dal prato appena sbocciato con il suo verde tenero, essi stringono sgolandosi con le lacrime agli occhi. Io ho conosciuto più Italia in Argentina nel 1978, di quanta non ne avessi conosciuta da adulto nel paese della partitocrazia. L’Italia della nostalgia assiste Causio nei suoi assoli stupendi, nelle sue fantasie inimitabili. L’Italia finisce quarta, ma lui ha saputo raccontare agli emigrati la patria lontana meglio del più squisito musicista o del più geniale romanziere. Quando un calciatore diventa messaggero di civiltà!
Al termine della stagione 1980-81, che è stata ancora scudettata, Causio arriva logoro di gloria, ma anche di polemiche. C’è l’astro contingente Domenico Marocchino e con Trap l’intesa non è più perfetta. È finito in panchina proprio lui, l’eccelso fantasista. Nel destino delle cose umane, è di nascere e di tramontare. Per molti, forse anche per il Trap, Causio ha chiuso il suo ciclo, è finito come campione. E così è ceduto all’Udinese. Qualcuno, anche il mio bravissimo Trap, ha visto male. Marocchino non manterrà certe promesse, Causio giocherà tre campionati splendidi nell’Udinese, prima di iniziare un’altra carriera all’Inter, a Lecce, a Trieste. Soltanto un’ala? Il ruolo di ala ammodernatosi nei tempi del calcio della tivù e delle strategie applicate; un grande, un grandissimo artista.
 


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