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Gli eroi in bianconero: Francesco MORINI

di Stefano Bedeschi

Veste la maglia bianconera nell’estate del 1969, arrivato, dalla Sampdoria, in compagnia di Bob Vieri. Due personaggi completamente differenti: lui pisano (nato a Metato, frazione di San Giuliano Terme) concreto, attento, preciso, attaccato alla professione; il pratese geniale, quanto incostante, promessa mai mantenuta nel nostro calcio. L’allenatore della Juventus è Luis Carniglia, un esigente sognatore, il quale avrebbe voluto che tutti i propri giocatori, anche uno stopper, saltassero gli avversari con un tunnel. Morini non aveva per niente queste caratteristiche e si trovò a disagio.
Era una piovra che, con mille tentacoli, toglieva il pallone dai piedi del diretto rivale, uno stopper perfetto, dalla marcatura ferrea.
«Sapevo di avere dei limiti, ma sono sempre stato sorretto da un buon fisico e da un’ottima condizione atletica; seppure fossi alto, ero molto veloce e scattante, sicché potevo marcare, indifferentemente, avversari piccoli o ben messi. Anche se non cattivo, sono sempre stato molto spigoloso, rognoso e appiccicoso, pronto in ogni momento a far valere il mio anticipo, Di certo, non mi cimentavo in lanci millimetrici, preferivo appoggiare la palla a un compagno vicino a me».
Soprannominato Morgan, come il pirata, perché, come scriveva un giornalista a quel tempo, da pirata era il suo modo di depredare l’avversario del pallone roteandogli addosso i bulloni, di arrangiarsi con i gomiti. Fisico poderoso e asciutto (181 centimetri per settantatré chili), undici volte nazionale, Morini era uno di quei rari atleti mai domi, di grandissima utilità, capaci di giocare anche con una caviglia a pezzi, con un muscolo dolente. Arrivò a marcare un extra terreste come Cruijff, malgrado avesse un tallone fuori uso. Bastava un’iniezione antidolorifica per farlo scendere in campo: «In bianconero ho passato degli anni meravigliosi. Abbiamo centrato risultati eccezionali, sia in Italia che in Europa, ho avuto per compagni di squadra, dei veri campioni. È importante giocare con dei campioni, perché ti trascinano ed io mi sono fatto trascinare. Ricordi ne ho tanti, rimpianti un solo: Belgrado, eravamo nel 1973, finale di Coppa dei Campioni, persa contro un Ajax grande, ma non poi così grande. Insomma, avremmo potuto anche giocarcela, invece andò come tutti sanno».
Francesco lascia la Juventus alla fine del campionato 1978-79. Si trasferisce in Canada, nel Toronto Blizzard a studiare lingue, per poi presentarsi, successivamente, al corso di manager di Coverciano. Terminato il corso, Cecco, ritorna alla Juventus come dirigente: «Un tipo di lavoro che mi ha sempre affascinato e appassionato». Mette a disposizione la sua esperienza maturata sul campo, che unisce la professionalità all’amore per colori per i quali ha dato molto ma dai quali, dice, ha ricevuto moltissimo: «Ho sempre cercato di imparare dai più bravi, sia da calciatore che da dirigente ed ho sempre continuato a farlo. Sono stato onorato di far parte della famiglia bianconera, mi sono sempre identificato in questo ambiente, conoscendone i segreti; non mi sarei mai visto a lavorare altrove».
Non ha mai segnato una rete ufficiale: «A dire il vero, una volta un goal l’ho fatto, in un torneo italo-inglese, disputato in un’estate di tantissimi anni fa. In ogni caso, la mancata segnatura di reti non mi ha mai contagiato più di tanto, perché ciò che mi esaltava era fare in modo che non andasse in goal l’uomo che dovevo marcare. Questo equivaleva, per me, a una rete, perché se in squadra devono essere particolarmente attivi i bomber, altrettanto devono esserlo i difensori a imbrigliare il gioco delle punte avversarie». Come dargli torto?

GIANNI GIACONE, DA “HURRÀ JUVENTUS” DEL MAGGIO 1980
Lo stopper più granitico e guerreggiante dei tempi moderni, dunque, prende e se ne va. Francesco Morini, gloria vivente di tanto calcio italiota degli anni Sessanta e Settanta, decide che è giunto il suo momento, ma prima vuole, fortissimamente vuole, concedersi una divagazione sportiva che è emblematica del tempo presente, inimmaginabile per il pioniere. Morini va a chiudere la sua carriera di ineguagliabile lottatore in America, Canada per l’esattezza, ed è decisione niente affatto sorprendente, semmai perfettamente allineata con la personalità di questo difensore tra i più illustri della Juventus trionfante di questi anni. Duro è il mestiere di stopper, dove il talento non basta e spesso il coraggio e la cattiveria sono valori ben più essenziali. Durissimo, poi, fare lo stopper nella Juve. 1969, anno di grazia e di parecchie disavventure. Francesco Morini arriva venticinquenne dalla Sampdoria con la fama di marcatore ruvido ancorché insormontabile. Deve rilevare le incombenze dell’araldo difensivo della Juve heribertiana, dell’ultimo centromediano antico del nostro calcio, di Giancarlo Bercellino da Gattinara, eroe con Tino Castano del tredicesimo scudetto. È un’eredità grave, un fardello dei più ingombranti.
Gli inizi non sono facili, né potrebbero esserlo. La Juve che dovrebbe voltare pagina e tornare a essere trionfante, in realtà inciampa spesso in ostacoli all’apparenza agevoli e le colpe si ripartiscono tra tutti, stopper compreso, stopper prima di altri. Il derby di andata in una luminosa e calda giornata di ottobre si vinceva a una manciata di secondi dalla fine grazie ad una rete di Zigoni detto Zigo e va a finire che si perde per una dabbenaggine di Morini nostro, che fa saltare indisturbato Bui sotto porta, e gli consente la più comoda delle realizzazioni. Lo sguardo solare di Francesco si rabbuia, ci sono giornate tristi di solitudine per quest’atleta in cerca di comprensione tecnica. Carniglia, l’allenatore che nulla ha da insegnare a Vieri e Haller fuoriclasse d’altri tempi, non riconosce l’indispensabile lavoro di rottura del biondo stopper toscano e si lascia andare ad affermazioni poco felici che rattristano il ragazzo. Ci vuole tempo, non molto, ma ci vuole. Carniglia non può avere futuro in questa Juve che vuole proiettarsi sugli anni Settanta. Morini fa parte della Juve Settanta. Il dilemma tecnico tra il vecchio hidalgo e il giovane stopper non si pone neppure.
La leggenda bianconera di Francesco Morini, certo, passa attraverso tappe e momenti speciali. Per esempio, momento importante e altamente significativo il suo duello con Gigi Riva, che inizia nel novembre del 1969 all’Amsicora di Cagliari e prosegue per anni, sempre all’insegna della massima correttezza pur nel massimo dispiego di energie e sforzi. Tenacemente assertore del gioco all’inglese, dotato di un anticipo che non concede scampo all’attaccante in cerca di leziosità, Morini costruisce il suo stile in pochi tratti essenziali e lo spiega al volgo con prestazioni monumentali. I duelli rusticani con Giorgione Chinaglia esemplificano al massimo grado questa concezione di gioco, di tempesta e assalto, di pionierismo nel senso di impegno cristallino, di dedizione alla causa bianconera. A qualcuno può non piacere questo modo brusco di cercare il tackle, questa volontà tremendamente applicata alla marcatura. Nessuno, però, può discuterne l’efficacia.
Cesto Vycpálek, chiamato a proseguire il lavoro del povero Picchi su un telaio di giovani campioni in cerca di grandi traguardi, eredita già lo stopper di tutte le leggende. Nella Juve 1971 che sta per vincere tutto, Morini è già colonna insostituibile. I centravanti del campionato imparano a conoscere e a temere la disfida lanciata dallo stopper toscano oramai saldamente trapiantato a Torino. Lo scudetto della sofferenza, il quattordicesimo, arriva con il determinante contributo dello stopper giunto a piena maturazione tecnica e umana. Morini onora la maglia con un rendimento medio altissimo e giganteggia con fior di campioni, soffrendo praticamente in una sola circostanza, un Juventus-Napoli che anche per questo finisce pari, 2-2. Morini nell’occasione è chiamato a controllare un centravanti che ne sa una più del diavolo e che, secondo alcuni, sta per appendere le scarpe al fatidico chiodo. Non sarà così, per fortuna della Juve che anche grazie a costui costruirà il suo mito. Fin troppo chiaro che stiamo parlando di Altafini. Trenta presenze nel magico campionato 1971-72, trenta erano pure state le presenze nel 1970-71. Due stagioni senza manco un’assenza che è una rappresentano già un fatto significativo.
Ma il bello deve ancora venire. Lo scudetto numero quindici, quello del 1972-73 propone un Morini ancora migliorato sul piano della sicurezza, oramai dotato di un bagaglio di esperienza che solo un veterano può permettersi di vantare. E Francesco a tutto si può avvicinare, meno che a un veterano. 1973-74 e 1974-75 coinvolgono anche il biondo difensore bianconero, ne toccano assetti umani non inediti ma comunque suggestivi in prospettiva futura. Morini accusa qualche infortunio, il dispendio di energie e gli elevati rischi che comporta il suo modo di giocare, sempre estremamente battagliero, intaccano, talvolta, la sua dura scorza. Accade che talvolta la critica non sia benevole nei suoi confronti. Sono accadimenti, episodi, che lasciano il tempo che trovano. La volontà contribuisce ad assorbire infortuni e critiche a tempo di record. Il tallone che lo fa soffrire è spesso ignorato a scusante di certe prestazioni non propriamente inappuntabili, e sono le poche volte che il personaggio, che poi personaggio non è almeno nel senso comune del termine, esce allo scoperto e affronta le critiche con la medesima risolutezza e linearità con cui duella con i centravanti.
Le fortune bianconere non coincidono che raramente con analoghe soddisfazioni azzurre, e questa è la principale ragione di rammarico di Morini. La Nazionale messicana, che giustamente Valcareggi, per meriti effettivi oltre che per normale riconoscenza, mantiene a lungo intatta o quasi, non concede spazio allo stopper bianconero, all’oramai leggendario Morgan delle mille battaglie. Né si può dire dei più fortunati l’impatto di Francesco con la maglia azzurra, alle porte del Mondiale di Germania. A trent’anni, coinvolto negli esiti infausti di una spedizione nata male e finita peggio. Morini paga colpe che non ha mai avuto e finisce nel dimenticatoio, proprio mentre la sua vicenda bianconera raggiunge vertici assoluti, tanto in campo nazionale che a livello di coppe. È un neo assolutamente ingiustificato, sul quale Francesco ha lungamente filosofeggiato, senza acredine e inutili polemiche.
Anche questo contribuisce a rendere grande e assoluto il personaggio. Il Morini più grande, quello cui tutti i supporter bianconeri sono maggiormente legati, è però senza dubbio l’ultimo, il più vicino a noi. La maturità del campione è spesso segnata da una lenta quanto inesorabile parabola discendente sul piano del rendimento: nulla di tutto questo nel caso di Morini che conosce nella Juve trapattoniana i momenti forse più esaltanti di una carriera sfolgorante. Le battaglie di Coppa Uefa esaltano l’ardore e l’attaccamento alla causa bianconera dello stopper più roccioso dei tempi moderni, ne affinano l’acume tattico, ne rendono sempre più efficace il contrasto. Anche gli esteti devono alfine ammettere uno stile Morini, e di stile autentico si tratta, affinato dalla partecipazione a tutti i massimi eventi della recente storia bianconera.
Entrato di diritto, nella stagione passata, tra i grandi della Juve quanto a fedeltà di presenza, Francesco Morini lascia in modo glorioso, in perfetta sintonia con il suo carattere. In America ritroverà una fetta del suo passato, e rivivrà con sfumature diverse gli attimi esaltanti della sua ineguagliabile carriera. E sarà tramonto ancor più glorioso. Il momento di appendere le scarpe al chiodo rappresenta per molti giocatori un vero e proprio trauma; vediamo esempi quasi quotidiani di uomini dal passato eccellente che, non sapendo rassegnarsi, accettano ruoli quasi patetici in squadre, per così dire, periferiche. Nel caso di oggi c’è, al contrario, chi impegna le sue attività sempre nel calcio ma in altra direzione restando in servizio attivo ad alto livello. Non poteva essere altrimenti: Francesco Morini stopper tutto di un pezzo, terrore di tanti attaccanti di casa nostra e del resto del mondo, non soddisfatto delle sue esperienze ha deciso di studiare il calcio straniero e in particolare quello d’America. Poiché, in casa, vi era oramai un degno e promettente sostituto, se n’è andato a vedere da vicino le società calcistiche del nuovo mondo.
Sir Morgan, come lo soprannominano i tifosi, giunto quasi al momento di ritirarsi in pensione, ha voluto rimanere se stesso: infatti, il segreto della sua carriera è sempre stato condensato in queste due parole: saper osservare. «Vi sono due modi di essere buoni giocatori – ha detto Morgan in un’intervista – avere innato il senso del gioco e della posizione oppure imparare guardando per far tesoro delle prestazioni altrui». Nella sua lunga carriera, non ha mai sgarrato da questo intendimento. Per lui non vi sono mai state polemiche se doveva starsene in panchina, sia quando militava nella Sampdoria, sia quando vestiva in bianconero: «Anche stando ai bordi del campo c’è tutto da apprendere; certo, dipende da chi vedi all’opera ma, stai tranquillo, se hai occhio critico, impari come comportarli anche se fai la riserva».
Il ruolo che ha ricoperto nella sua carriera non è stato dei più facili, eppure in virtù della sua umiltà è riuscito a intimidire e ridicolizzare tanti avversari di grido. Tralasciando l’attività nelle squadre minori, la sua carriera si è svolta in sei anni alla Sampdoria e undici alla Juventus, vivendo due aspetti diversi di gioco, due modi distinti di lottare: il primo quasi totalmente intento alla ricerca della salvezza, il secondo diretto invece alla conquista di tanti primati. Il segreto di una carriera sempre, in crescendo è costituito esclusivamente dalla professionalità di Morini e dal suo comportamento lineare che non ha mai sgarrato dalle precise regole che si era imposto. Comportarsi secondo i dettami della disciplina sportiva non gli è mai costato sacrificio: ubbidire all’allenatore è sempre stato per lui facile, mantenersi in forma altrettanto, nessuno può imputargli crisi o impennate di carattere.
Il nostro biondo Vichingo, ha un cruccio: «In mezzo a molti successi, a tanti trofei, sento la mancanza di una Coppa dei Campioni. Ogni volta che la Juventus ha giocato in quella competizione è sempre arrivata a due passi, a un soffio da quel traguardo e ogni volta se l’è vista sfuggire». È vero, fare previsioni specie in quel campo, è assai arduo: quella è una strada intessuta di tanti piccoli frammenti di mosaico che fanno storia a sé e poi vi partecipa la crema del calcio mondiale per cui il successo ti arriva con la stessa difficoltà di un terno al lotto o di una vincita al totocalcio.
Si è parlato troppe volte di un Morini terribile come se fosse un pirata dell’area di porta: «Non mi sono sempre fermato in quel punto, sovente mi sono spinto in avanti, perché così mi ha imposto di fare il gioco praticato dalla Juventus. Ho fatto anche lo stopper avanzato e, credetemi, il mestiere in quel punto del campo è quanto mi ardito». Le più grosse soddisfazioni di Morgan sono quelle di aver fatto passare notti insonni agli avversari e di aver mandato a monte innumerevoli piani tattici di allenatori avversari che pensavano di poterlo distogliere facilmente dai suoi compiti: «Cruijff mi ricorderà certamente, Bersellini e tanti altri mi sogneranno, però dovranno dare atto della mia lealtà sportiva, perché falli cattivi con il preciso intento di far male, non ne ho mai compiuti. Non fanno parte del mio bagaglio mentale e neppure del mio stile». Con queste parole, egli intende chiudere la bocca a taluni denigratori che, per poter segnare reti, avrebbero voluto incontrare un Morini suonatore di violini o clavicembali. Nella vita di ogni giorno, Cecco, è tutt’altro che un duro: legato sì alle tradizioni e ai ricordi ma è anche previdente e sa mettere le mani avanti con oculata preveggenza: «La vita di un calciatore è veloce, possa con la rapidità di un lampo per cui bisogna aver gli occhi ovunque: sul passato, sul presente e sul futuro».
In vista del futuro si è inserito nella concessionaria Otma e volgendo le spalle indietro ha chiamato Jacopo il figlio: «Ricorderò sempre i primi passi che ho mosso sul campetto dell’Oratorio di San Jacopo a San Giuliano in quel di Pisa». Questa è una sorta di legame tra il passato e il più bel presente dello stopper juventino. Ora, è partito per l’America a studiare l’ambiente calcistico di laggiù: «È che non sono tuoi sazio di esperienze, mi sono cercato un’altra panchina perché so quanto sia utile vedere cose nuove per continuare a imparare».
Ecco cosa gravita oggi attorno alla realtà Morini, quell’uomo tutto di un pezzo che non ha mai speso una parola in più del dovuto e che, forse, ha fatto un solo sogno di troppo: la Coppa dei Campioni. Che cosa si poteva chiedergli e cosa poteva darci di più? Nulla! Ha vestito la maglia bianconera e quella azzurra della Nazionale con eguale ardore e impegno, ha collezionato successi in Italia e all’estero in piena umiltà e in nome di un’inimitabile professionalità.

VLADIMIRO CAMINITI
Ciccio Morini detto Morgan, stopper sgranocchiante il pallone come una cabala misteriosa, soltanto in fin di carriera finalmente in grado di stopparlo al volo, eppure negli scudetti juventini della prima serie bonipertiana uno dei fondamentali della squadra, per l’epica grinta. Aveva negli occhi tutto l’infinito della speranza quando lo conobbi nella Sampdoria allenata da Ocwirk. Biondo e aguzzo, andava in campo e risolveva la vicenda del gioco come un fatto personale con l’asso a lui affidato. Bisognava arginarlo e possibilmente annichilirlo, ed ecco Morgan, piratesco il suo stile nell’irruzione tra pallone e piede portante, nella spallata leale ma dura, l’avversario interdetto tentava la replica, ma incespicava fatalmente nel rivale a lui addossato, come una parte del suo stesso intendere, felinamente intuitivo negli anticipi più condizionati. Allenandosi con ossessiva costanza, rispettandosi come un anacoreta, Morini risolse nella Juventus decisa a vincere tutto, allenata da Vycpálek, da Parola e anche dal giovane Trap, ogni problema delle domeniche affliggenti, e se un avversario riuscì a superarlo fu Giggiriva di Leggiuno, che sgomitava anche lui, ferocemente proteso al goal d’autore. Quando, nel 1973, Valcareggi lo convocò in Nazionale, insieme a Zoff, Spinosi, Furino, Causio, Anastasi e Capello, era divenuto proprio necessario. Aveva già due scudetti sul petto, ne avrebbe vinti altri tre, con un rendimento sempre sostanziale, che aveva sbugiardato quel verdetto del Caballero falsamente appassionato Carniglia dei suoi pochi mesi di permanenza juventina. Il cherubino Morini, pur non possedendo l’aire dello stile di Bellugi, completava idealmente la squadra ruggente su tutti i traguardi, in un tempo di calcio a misura di uomo, e di chi uomo era nella vita come in campo.

NICOLA CALZARETTA, DAL “GS” DELL’AGOSTO 2011
Francesco Morini detto Morgan, come il pirata. Capello biondo, eleganza naturale e battuta pronta, in fin dei conti nelle sue vene scorre sangue toscano, nonostante sia di casa a Torino oramai da più di quarant’anni. Morini detto Morgan, due vite per la Juventus. Prima da calciatore, poi da dirigente. Dal 1969, anno del suo arrivo dalla Samp in compagnia di Bob Vieri, al 1994, ultimo tassello della Juve bonipertiana spazzato via dal tornado della Triade. Uomo di fiducia del presidente Boniperti, con cui ha condiviso per anni la passione per la caccia, legato a doppio filo con l’avvocato Agnelli, che lo fece tornare dal Canada per affidargli il ruolo di direttore sportivo.
372 presenze con la maglia della Juve, una ventina di volte capitano, zero assoluto nella casella dei goal fatti, piccolo record. Stopper efficace e concreto, cresciuto alla scuola di Bernardini e affinatosi a quella di Carlo Parola, Cecco Morini è il numero cinque della Juventus del primo Trapattoni, che si siede sulla panchina bianconera a soli trentasette anni. Primo luglio 1976: trentacinque anni fa nasce la Giovin Signora. Non fu un azzardo affidare la guida della squadra a Trapattoni? «Effettivamente il Trap era un ragazzo e con pochissima esperienza come tecnico. Ma per Boniperti l’allenatore giovane era uno schema vincente. Nel 1970 ci aveva provato con Armando Picchi, alla prima esperienza in panchina. Un esperimento che stava funzionando benissimo. Squadra dall’età media molto bassa, guidata da un uomo di grandi valori, con carisma e notevoli capacità tattiche. Lì, purtroppo, ci si è messo di mezzo il destino».
– D’accordo sulla bontà del progetto bonipertiano, ma quella di Trapattoni rimaneva una scelta che faceva discutere: «La scommessa non era facile da vincere. Trapattoni è stato bravissimo a sapersi inserire con noi. Quelli più scafati come me, Zoff e Furino gli hanno dato una grande mano. Per un allenatore è fondamentale trovare buoni giocatori».
– Cosa avevate di speciale? «Per ogni ruolo c’era un ottimo professionista e una brava persona e con questo intendo dire che oltre ad essere tutti bravi calciatori da un punto di vista tecnico, eccetto me (ride), eravamo ragazzi seri, affidabili e disponibili. Trapattoni l’abbiamo fatto diventare noi allenatore. Dirò di più: quella Juve lì avrebbe trasformato in grande allenatore anche uno come Maifredi!».
– Cosa aveva di particolare il Trap? «Era molto presente, si allenava con noi, non mollava mai. Stava moltissimo sul campo, specie con i più giovani. Quando eravamo in ritiro faceva il giro delle camere, continuava a dare consigli in vista della partita. Un martello, mai seccante, però. Anzi, la sua era una carica molto positiva».
– Di chi fu l’idea di rinunciare al regista per un centrocampo di ferro composto da Furino, Benetti e Tardelli? «Certamente Trapattoni privilegiava la gente che mordeva le caviglie e che aveva le capacità di ripartire a razzo, di lanciare il contropiede veloce. Vado sul sicuro se dico che le varianti tattiche nascevano dal confronto tra Boniperti e Trapattoni. Anche se non so a chi dei due veniva prima l’idea».
– Allora è vero che la formazione la faceva Boniperti! «Non è vero. La presenza di Boniperti era un valore aggiunto per l’allenatore. Il presidente sapeva di calcio e aveva grande personalità. Il Trap è stato bravo a lavorare con lui, ogni lunedì era in sede. Cosa che non ha mai fatto Zoff quando è tornato alla Juve da tecnico».
– Perché? «Diceva: “Devo andar lì a sentir parlare di Hansen, di Praest. Ma no, non mi va”. Dino è fatto a modo suo, io sono stato con lui in camera per anni e mi avrà detto tre parole. Ricordo che gli piacevano i gialli del Commissario Sanantonio. Sia chiaro, siamo amici, il suo arrivo alla Juve come compagno è stato fondamentale. Prima, oltre che il centravanti, dovevo marcare anche i portieri, visto che non ne bloccavano mai una».
– Lei a Zoff, invece, hai fatto più di uno scherzo in campo. «Non ho mai segnato. Mi sono sfogato con alcune autoreti di pregio al povero Dino. Quella più incredibile la realizzai all’Olimpico, contro la Roma nel 1975. Ero solo, sul dischetto del rigore, spalle alla porta. Cross lento di Bruno Conti ed io riesco a beccare il sette in rovesciata. Una sassata paurosa. E Zoff che mi fa: “Se la tiravi più piano, la paravo”».
– In fondo i piedi non sono mai stati il suo forte. «Mi ricordo il primo giorno a Torino. Io e Vieri andammo da un barbiere per tagliarci e capelli. Io stavo leggendo il giornale. A un certo punto, uno dei vecchietti che era lì disse: “Porca miseria, hanno mandato via Bercellino e hanno preso quello scarpone di Morini”. Io mi nascosi ancora di più dietro al giornale, chissà forse mi avrebbe preso anche a pedate se mi avesse riconosciuto».
– Non male come accoglienza. «La giornata, in realtà, proseguì con la conferenza stampa di presentazione. C’erano venti giornalisti. A Vieri chiesero di tutto, a me neanche una domanda. Una tristezza enorme. Ma avevo voglia di sfondare dopo le buone stagioni alla Sampdoria. Venivo da una famiglia di contadini. Non mi sono mai buttato giù e quando è arrivato il Trap ero oramai uno dei cardini della Juventus».
– Quali erano i suoi punti di forza? «L’anticipo, la velocità e la grinta. Il centravanti me lo mangiavo. Il mio motto era: munizioni non arrivano, cannone non spara. Se stavo bene fisicamente, era dura farmi goal. Vallo a chiedere a Gigi Riva: in diciassette duelli, non mi ha mai segnato».
– Nella memoria collettiva sono rimasti impressi i corpo a corpo con il Boninsegna interista. «Bonimba era un teppista. Dicono che si strofinasse i gomiti con una pomata irritante. Di sicuro c’è che se gli stavi troppo attaccato, prima o poi ti arrivava un colpo».
– E lei porgeva l’altra guancia? «Col cavolo. Una volta a San Siro gli diedi una gomitata sulla spalla. Nelle interviste del dopo partita mi ricordo che dissi che non solo non ero pentito, ma che la spalla gliel’avrei staccata volentieri! Il guaio è che Boniperti, per quelle dichiarazioni, mi dette 500.000 lire di multa. Lo stile era stile».
– Com’era il suo rapporto con Boniperti? «Ottimo, da cacciatore a cacciatore. Un anno rischiò l’infarto».
– Durante una battuta di caccia? «No (ride), a fine stagione 1971-72. L’anno prima, alla mia richiesta di aumento, mi rispose tirando fuori la foto dell’Inter che aveva vinto lo scudetto. Allora io gli dissi: “Se l’anno prossimo vinciamo, mi regala un fucile”. Accettò la scommessa. Vincemmo il campionato ed io presi un Cosmi, valore commerciale quattro milioni e mezzo. È ancora lì che urla dalla disperazione per i soldi che gli ho fatto spendere».
– Si vendicò in qualche modo? «No. Anche perché lui aveva il totale controllo su di noi. Sapeva tutto. Aveva un braccio destro, il mitico Romildo. Mandava lui a spiarti, a vedere se eri in casa o no. Oltre alle classiche telefonate serali. Non potevi muovere un passo. Niente discoteche, niente trasgressioni».
– Niente donne, quindi. «Era matematicamente impossibile. Solo quando venivamo convocati con la Nazionale, allora in quella settimana lì le briglie si scioglievano. Aspettavamo quel momento per sfogare tutti gli istinti. Meno male che in azzurro ci sono stato poco».
– Le è pesato aver fatto solo una decina di presenze con la Nazionale? «Sinceramente sì. Soprattutto mi rode non essere andato in Argentina. C’era tutta la difesa della Juve, tranne me. Senza contare che Bellugi era mezzo rotto, aveva una gamba più piccola dell’altra. Le provai tutte per andarci, anche una pressione tramite Zoff».
– Si è raccomandato? «Gli dissi: “Tu e Bearzot siete della stessa terra. Gli puoi dire che ti fidi di me, che sono anni che giochiamo insieme”. Insomma avrei voluto che lui facesse presente al commissario tecnico che con me poteva andare sul sicuro, oltretutto avrei giocato con gli stessi miei compagni della Juve. Avevamo un blocco difensivo da urlo, in quegli anni».
– Mi sembra che l’ambasciata non abbia avuto alcun effetto. «Anche perché non ci fu nessuna ambasciata. Dino mi guardò e fu perentorio: “Io non le faccio queste str... e!”. In compenso Bellugi prese goal dopo un minuto con la Francia e poi si fece male. Ed io persi cento milioni. Ma lasciamo perdere, torniamo alla Juventus 1976-77, è meglio».
– Ok. Quali erano i punti di forza di quella squadra? «Tanti, ma non lo spogliatoio».
– Davvero? «Il nostro non era uno spogliatoio in cui regnava la perfetta armonia. Non ci sono stati odi particolari, questo mai. Ma nemmeno una fusione perfetta. C’erano tanti leader, tante personalità forti. Poteva succedere che io, Scirea e Zoff fossimo più legati. Bettega per esempio era un tipo chiuso. Durante la settimana ognuno se ne stava per i fatti propri, ma la domenica o il giorno della partita, la Juve era un blocco unico e di acciaio».
– Mi immagino durante le partitelle d’allenamento. «Ci tiravamo delle legnate bestiali, sa quante volte il Trap è stato costretto a fischiare prima la fine della partita? C’era molta animosità, diciamo pure rivalità. Si litigava spesso, questo sì».
– Qualcuno è arrivato anche alle mani? «Qualche anno prima, tra Salvadore e Marchetti volarono pugni e zoccolate. Oddio, Salvadore, pace all’anima sua, una volta fece andare fuori dai gangheri anche me. Il male è che successe in partita».
– Quale? «Era la finale di Coppa Intercontinentale del 1973, a Roma contro l’Independiente. Mi chiamava ogni secondo: stai attento lì, marca stretto quello, occhio di qua. A un certo punto dissi basta e gli rifilai una gomitata nello stomaco. Lui mi rincorse fino a centrocampo per vendicarsi, poi intervennero i compagni e la finimmo lì. Ora che ci penso, ricordo anche una furiosa litigata in allenamento tra Boninsegna e Benetti, durante il loro primo anno alla Juve».
– Tutti i particolari, prego. «I primi tempi abitavano nello stesso condominio a Torino. Boninsegna aveva un cane con lo stesso carattere del padrone. Abbaiava in continuazione, si scagliava contro le persone. Una volta dette un morso al portiere. Insopportabile. Poco tempo dopo, il cane fu trovato morto. Per questo Bonimba litigò furiosamente con Benetti, fortemente sospettato di avergli fatto fuori il cane».
– Ma era veramente così cattivo Benetti? «Con Benetti nessuno voleva condividere la camera perché fumava e dormiva con le finestre aperte anche a gennaio. Ma in quanto a cattiveria pura, non era il più cattivo. Prima di lui c’era gente come Furino, Tardelli, anch’io. Mettiamoci pure Gentile e sicuramente Bettega. Ecco, lui era capace di farti l’entrataccia».
– Ma era anche l’uomo in più di quella squadra. «Roberto era fortissimo, grande giocatore e grande goleador. In quella stagione fu decisivo, sia in campionato sia in Coppa Uefa, insieme al Barone Causio e a Tardelli, una vera rivelazione».
– Che ricorda del trionfo in Europa, il primo per la Juve? «I primi due turni in cui buttammo fuori i due Manchester. Una svolta decisiva per il resto del cammino. Personalmente il duello con Sparwasser del Magdeburgo, un centravanti tra i più forti dell’epoca. Fu una partita perfetta, non gli feci vedere pallone. È il mio fiore all’occhiello».
– E della finale di Bilbao? «Il Trap fece entrare Spinosi, loro premevano a più non posso. Mi passa davanti, era bianco come un cencio. Ed io gli faccio: “Spina, stai tranquillo, la cosa più importante è che martedì dobbiamo andare a caccia”. Per poco non resta secco e duro per terra. Per il resto la sensazione di assoluta mancanza di forze negli ultimi venti minuti. Non riuscivamo a venir via dall’area. Erano i fotografi a spingerci. Al fischio finale, una gioia mai provata. Finalmente».
– Una giusta ricompensa per chi, come lei, visse la delusione di Belgrado del 1973. «Credo di sì. Quella con l’Ajax fu una partita stregata. Loro erano più forti e correvano di più. A un certo punto dissi a Furino: “Ma li hai contati? Perché secondo me sono più di noi”. Stavolta, invece, la Coppa era nostra».
– Come avete festeggiato? «Festeggiato? Facemmo in tempo a bere un po’ di spumante, poi Boniperti ci richiamò all’ordine, perché la domenica dopo c’era l’ultima di campionato con la Sampdoria, il Toro era a un punto. L’aeroporto di Bilbao era chiuso per nebbia. La mattina dopo arrivammo in Francia in pullman e poi con un aereo messo a disposizione dall’Avvocato Agnelli tornammo a Torino».
– 22 maggio 1977: Juventus cinquantuno punti, Torino cinquanta. È lo scudetto record. «Il derby dell’anno lo vincemmo noi».
– Grazie anche a una difesa mostruosa. «Senza nulla togliere agli altri reparti, era la nostra arma vincente. Gentile e Cuccureddu non erano solo terzini. Scirea era un centrocampista aggiunto. Con lui l’intesa era perfetta. Non abbiamo mai sbagliato un’uscita difensiva. E poi c’era Zoff, insuperabile».
– Nel 1980 chiude la carriera da calciatore e l’anno dopo inizia quella da dirigente. «Non era nei programmi. Ero in Canada, tiravo gli ultimi calci con il Toronto Blizzard. Un giorno mi chiama l’Avvocato: “Morini, la smetta di fare il coglione in giro per l’America. Torni da noi a fare il direttore sportivo”. Mi avevano offerto di dirigere una scuola calcio, mi davano 150.000 dollari all’anno. Sono tornato a Torino per tre milioni lordi al mese. Ma alla Juve potevo dire di no?».
 


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