.

Gli eroi in bianconero: Felice Placido BOREL

di Stefano Bedeschi

È stato sicuramente uno dei più grandi attaccanti del calcio nazionale, probabilmente il più forte centravanti della Juventus di tutti i tempi. Felice, figlio di Ernesto Borel, un pioniere del calcio juventino, pertanto figlio d’arte, esordì, appena sedicenne, con la maglia granata del Torino, nella formazione dei “Balon-boys”. I molti osservatori della società granata, sparpagliati per i campi della periferia e negli oratori dei salesiani, avevano sentito certamente parlare di questo autentico talento calcistico.

Ma fu un austriaco, Karl Sturmer, responsabile tecnico del Torino nella stagione 1929/30, a completare la formazione calcistica di Felice Borel. Sturmer è stato il più abile preparatore ed insegnante per i giovani calciatori che mai ci sia stato in Italia. Chi ha frequentato i corsi di Sturmer, poteva vantare un corredo tecnico personale di primissimo ordine. Se poi, come nel caso di Borel, il tecnico austriaco aveva la possibilità di lavorare su una base d’eccellenza, ecco che saltava fuori il fuoriclasse.

La Juventus, abituata da sempre a scegliere gli acquisti non tra gli elementi promettenti, ma nelle esigue file dei campioni già conosciuti come tali, si mosse. Arrivando quasi di sorpresa sulle gradinate dello stadio Filadelfia, il barone Giovanni Mazzonis poté rendersi personalmente conto di quanto fosse abile nel gioco d’attacco quel ragazzino, che altri non era se non il figlio di quell’altro Borel, Ernesto per l’appunto, che con lo stesso Mazzonis aveva giocato nella Juventus nei campionati dal 1906 al 1910.

Giovanni Mazzonis convinse Borel a trasferirsi nelle file della Juventus. Felice non assomigliava per niente a suo padre calciatore; quest’ultimo era tozzo e possente, Felice era alto, snello, d’aspetto gentile, sicuramente il più riuscito, calcisticamente parlando, della famiglia. Anche l’altro fratello, Aldo, dopo una fugace apparizione nelle file del Torino (giocò anche una partita in prima quadra nel maggio del 1930 contro la Pro Vercelli), aveva militato a lungo nelle file del Casale, della Fiorentina e del Palermo, con una breve presenza anche nelle file nella stessa Juventus. Era un buon calciatore, ma sicuramente non della levatura del fratello Felice.

«Mio nonno», racconta Betty, l’unica figlia di Farfallino, «era nato nei pressi di Porta Palazzo ed aveva sposato Gabriella de Matteis, erede della più rinomata fabbrica di pizzi della città. Di carattere assai simile a quello di mio padre, Ernesto aveva tantissime qualità, ma un pessimo senso degli affari: nel 1931 aprì, in piazza Castello, a due passi dal bar di Combi, un negozio di articoli sportivi ed un’agenzia di viaggi che ebbero vita breve. Mio zio Aldo, invece, nato nel 1912, era l’esatto contrario di mio padre, sempre allegro e ridanciano; seppur particolarmente serio, posato ed austero, andava molto d’accordo con papà, anche se nella piena maturità le loro strade si divisero del tutto. Infatti, a metà degli anni sessanta, Aldo si trasferì in Spagna, da dove tornò soltanto qualche mese prima di morire».

Fu soprannominato Farfallino ed i motivi di questo nomignolo rimangono per certi aspetti misteriosi; forse per ricordare il suo inimitabile modo di correre danzato. Aveva una classe che nessuna scuola calcistica, nemmeno quell’eccelsa di Sturmer, poteva prestare ad alcuno. La velocità, lo scatto con il quale riusciva ad umiliare gli specialisti dell’atletica, l’intelligenza, il dribbling, il tiro: Felice aveva proprio tutto.

«Il viso di un ragazzo spensierato», così il giornalista Bruno Roghi terminava il suo entusiastico pistolotto sul nuovo astro nascente del calcio italiano, «ride volentieri con i luminosi occhi neri. Viso da fanciullone, taglia d’atleta. Di alta statura, ben modellato, asciutto, senza essere fragile, Borel ha la classica macchina del centravanti. La sua falcata è ampia, balzante, equilibratissima nel ritmo. Quel Borel ci è proprio sembrato in possessori felicissimo talento calcistico. Egli ha la calma di un veterano del gioco, il tocco di un artista, il senso dell’azione collettiva, lo scatto che brucia il terreno, il tiro a rete che difficilmente sbaglia il bersaglio».

Questo spiega perché, appena diciassettenne. poteva già insidiare il posto ad un grande centrattacco com’era a quell’epoca, Vecchina, il padovano che, nei due campionati vinti dai bianconeri nel 1931 e nel 1932, aveva realizzato 32 goal. Nane era anche stato in Nazionale, il che testimonia del suo valore, ma aveva un ginocchio in disordine e l’allenatore Carlo Carcano sapeva molto bene che, senza nulla togliere a Vecchina, l’inserimento di Borel in prima quadra avrebbe significato un passo decisivo verso la perfezione che raggiunse quella mitica squadra.


Raccontava Borel:

«L’inizio del campionato 1932/33 non fu troppo fortunato per la Juventus. Nella gara inaugurale di quella stagione, disputata in settembre, si dovette andare a giocare allo stadio“Moccagatta di Alessandria. Carcano mandò in campo la nostra migliore formazione, quella con Combi, Rosetta, Caligaris, Varglien I, Monti. Bertolini, Sernagiotto, Cesarini, Vecchina, Ferrari. Orsi. A quei tempi i “grigi” possedevano una squadra di notevoli possibilità, ma nessuno poteva prevedere, come, in effetti, avvenne, che l’Alessandria battesse la Juventus. Due goals li segnò l’ala destra Cattaneo ed uno Scagliotti; per noi andarono in goal Vecchina ed Orsi dal dischetto del rigore.
Il 25 settembre, seconda gara di campionato, giocammo sul nostro campo di corso Marsiglia e battemmo il Padova per 3-1. Cesarini segnò due reti, l’altra la mise a segno Ferrari; ma Renato si fece male e nella successiva trasferta di Napoli, Carcano mi mandò in campo nel ruolo di mezzala. Non credo di aver giocato una splendida partita, ma fui sicuramente sufficiente. D’altra parte, con la tattica del “metodo”‘, non potevo improvvisarmi nel ruolo d’interno.
La Juventus fu battuta da una rete segnata nella ripresa da Attila Sallustro, centrattacco del Napoli; l’undici partenopeo, a quell’epoca, contava su ottimi giocatori, come il portiere Cavanna, i terzini Vincenzi ed Innocenti, il mediano Colombari, la mezzala Mihalic e l’ala sinistra Ferraris II. A Torino contro la Roma tornò in squadra Cesarini che segnò anche l’unico goal della partita. E nemmeno la domenica successiva, a Vercelli, dove non giocò Vecchina, l’allenatore mi ripropose in formazione: fece giocare Imberti.
Poi tornò ancora una volta Vecchina, il cui ginocchio faceva le bizze. E finalmente a Torino, contro il Bari, entrai stabilmente in squadra, nel mio ruolo di centrattacco. Particolare curioso: vincemmo per 4-0, ma non misi a segno neppure un goal. A scagliare il primo pallone in rete riuscii il 20 novembre, alla nona giornata di campionato, nel corso della partita contro la Lazio. Vincemmo per 4-0. Realizzai le prime due reti, facendo molto arrabbiare l’amico Sclavi, passato dalla Juventus a guardia della porta della squadra romana. Gli altri due goal li segnarono Munerati e Cesarini.
Con la formazione al gran completo (quella con Munerati all’ala destra al posto di Sernagiotto) affrontammo poi il Torino nel derby: ed anche in quell’occasione il mio unico goal fu decisivo. Una soddisfazione senza pari, che rinsaldò in modo definitivo il mio morale. La domenica successiva, con Sernagiotto al posto di Munerati, liquidammo la Triestina con un punteggio tennistico: 6-1. Tre miei goal, uno di Sernagiotto, uno di Ferrari ed uno di Orsi. Va ricordato un particolare importante: la facilità con la quale gente come Orsi, Ferrari, Monti, Bertolini, Cesarini e Munerati creavano un alto numero di occasioni da rete.
Dopo l’exploit con la Triestina, segnai mediamente un goal a partita, nel senso che, se stavo una domenica a digiuno, in quella successiva mettevo dentro un paio di palloni. Nella partita contro il Palermo, sapendo che poi a Genova sarebbero andati in campo molti rincalzi, segnai addirittura tre reti. Terminai con 29 reti realizzate in 28 partite.
E mi ripetei nella stagione successiva, andando in goal ben 32 volte in 34 partite giocate. Nell’ultimo dei cinque campionati consecutivi vinti dalla Juventus, segnai solo 13 goal, riuscendo tuttavia a raggiungere la ragguardevole cifra di 74 reti in 91 partite disputate nei primi tre campionati con la maglia della Juventus.
Mazzonis è stato il primo dirigente di calcio veramente proiettato sul futuro del calcio. È andato lui a cercare Orsi, Monti e Cesarini. Soltanto Novo, parlo prima che arrivasse Boniperti, era stato grande come lui. Era democratico per eccellenza, ma di un’autorità dittatoriale. Era come doveva essere perché la squadra la mandava avanti lui, mica Edoardo che gli lasciava carta bianca su tutto.
Si comportò benissimo con Cesarini che era un pazzoide, aveva firmato per tre anni e, nel 1931, voleva ricattare la Juventus. Lui non fece una piega, il barone che poi non era barone. Cesarini voleva essere pagato come Orsi, che prendeva 100.000 lire, invece continuò a corrispondergli trentasei mila annue. Maglio, l’altro argentino se n’era tornato in America, ma Mazzonis non si piegò. Cesarini restò quattro mesi fuori squadra; rientrando, perse quei quattro mesi. Monateri, che era un grasso industriale, quello che ha creato la “Venchi Unica” e lo stadio di corso Marsiglia, e che adorava Cesarini, dovette arrendersi, non ci furono agevolazioni sentimentali.
Mazzonis era uno degli uomini più ricchi di Torino, la sua famiglia veniva per ricchezza dopo quella di Agnelli e Gualino, ma non era nobile, un suo cugino era barone di Pralafera. Vantava anche un contado. Il deficit della Juventus nel 1928 era pagato, un cinquanta per cento da Edoardo Agnelli e l’altro cinquanta per cento da Mazzonis. Nel 1931, il deficit fu diviso in sedici parti che furono divise tre sedicesimi ad Agnelli, tre a Mazzonis, due a Remmert, due al tavolo del poker del Circolo della Juventus di via Bogino, uno a Monateri, uno a Valerio e Gaspare Bona a testa, uno tra Tapparone, Fubini, Nizza, il Conte Ghigo. La squadra incassava per tutto il campionato tra un milione ed un milione e centomila lire.
Avevamo un gioco pratico, il risultato era la base di tutto, lo spettacolo veniva dopo. Facciamo degli esempi. Rosetta non faceva mai un passo più del necessario, Combi si allenava in modo tutto suo, venti minuti di allenamento con quattro palloni scagliatigli addosso che valevano più di dieci ore di lavoro, non voleva che si scherzasse, bisognava tirargli come in partita, era un grande portiere, per qualche numero migliore di Planicka, però meno completo. Cevenini III, che sapeva mettere la palla dove voleva, pur non avendo potenza, tirando ad effetto e tagliando il tiro, lo faceva ammattire.
Caligaris era l’opposto di Rosetta, entusiasta, correva, sprecava, urlava, giocava, ma non era poi tanto coraggioso. Varglien I era l’atleta perfetto, fisicamente ma non tecnicamente. Monti era un giocatore eccezionale, molto grosso ma molto mobile, però non aveva velocità progressiva. Bertolini era idolatrato dagli inglesi, era il calciatore inglese, forte, deciso, generoso, Orsi è stato il giocatore più grande che abbia conosciuto, alto 1.60 pesava sessanta chili e non riusciva a fermarlo nessuno.
Monti faceva sparire tutto, rubava tutto quello che gli capitava a tiro, quando spariva qualcosa si andava subito da lui. Una volta nel 1934, per una partita a Parigi contro il Red Star Racing, entriamo in quel grande albergo, c’era un bel veliero sulla mensola, il giorno dopo non c’era più. “Fuori la barca”, scrisse l’albergatore a Mazzonis, “o vi denunzio tutti; oppure ci spedite, per evitare la denuncia, quattromila franchi”. Monti restituì la barca facendo mille smorfie ed il caso fu risolto.
E quel pazzoide di Cesarini? Sempre nel 1934, a Vienna, il giorno stesso in cui fu trucidato Dolfuss, Caligaris era spaventatissimo dopo il discorso che ci fece Mazzonis di stare tutti uniti e di non aprire bocca con nessuno, perché Mussolini aveva mandato le truppe al Brennero. Al mattino, la partita con l’Admira si giocava all’una e mezzo, vedemmo un negozio con una vetrina meravigliosa, montata tutta con una sola cravatta. Bene. Cè fece sparire la cravatta. Perdemmo 3-1 quella partita, lo stadio era stipatissimo, mai vista tanta gente in uno stadio.
Mazzonis era soprannominato Stalin. Tutti tremavano davanti a Stalin, io no, io gli ho detto e ripetuto cento volte che non credevo nella sua parola d’onore. Infatti, mi manipolò il contratto come voleva, volevo essere lasciato libero alla fine di ogni campionato, ma lui niente, come se parlassi ad un sordo. Ho cominciato a giocare a calcio a sei anni, a sette andavo già alla Juventus in corso Marsiglia. Mi ricordo la prima partita di Combi nel 1923, allora la Juventus andava in campo senza tuta, con quelle giacchette tutte bianche così chic, bordate nero. Al campo non andavano più di 2.500 persone. Anche mio fratello Aldo giocava bene».

Nel campionato 1935/36 Felice Borel giocò solamente 8 incontri a causa dei postumi delle ripetute operazioni al ginocchio.

«Ho giocato tutta la vita con una gamba sola», amava ricordare a chi gli domandava il motivo del suo spostamento a mezzala a soli 26 anni. La stagione successiva, tuttavia, egli tornò a pieno servizio, disputando, in qualità di interno a fianco di Guglielmo Gabetto, 26 partite e realizzando ben 17 goal, uno in meno dell’amico centrattacco.

«Papà», continua la figlia Betty, «era davvero una persona fuori dal comune; assommava in sé le migliori qualità del genitore, del compagno di giochi, dell’amico e del confidente. Io e lui ci siamo sempre capiti al volo, soltanto con uno sguardo. Seppur fosse per certi versi intransigente, mi ha sempre coccolato e viziato con il suo modo di fare garbato ed aperto. Era amato proprio da tutti, in quanto uomo puro e generoso, che dava senza mai chiedere nulla in cambio».

Nel 1941 Borel, insieme a Gabetto ed al portiere Bodoira, passò al Torino con la cui maglia disputò, naturalmente alla grande, un solo campionato. Poi, il ritorno alla Juventus con il doppio incarico di giocatore ed allenatore sino a quando, nel 1946, appese le scarpe al chiodo a soli trentun'anni. Trascorsa qualche stagione, l’ex Farfallino tornò al calcio con grande entusiasmo.

«Dopo la tragedia di Superga, papà (che, nel frattempo, insieme al talent scout Voglino aveva scoperto un certo Boniperti) si mise ad allenare prima il Torino, quindi il Napoli ed infine il Catania. Poi, volendosi avvicinare a casa, decise di voltare pagina cimentandosi nell’attività di assicuratore a Pinerolo sino a che, nel 1961, Umberto Agnelli lo nominò general manager dei bianconeri. Più avanti, quando stabilì che la sua vita si sarebbe divisa tra la casa torinese di via Bertola e Finale Ligure, divenne il responsabile di tutti gli osservatori della società».

In totale Borel ha disputato con la maglia della Juventus 286 incontri di campionato, mettendo a segno 160 goals; nel 1993, dopo aver convissuto per qualche anno con un male che raramente perdona, Farfallino se ne è volato via, sbattendo appena le ali. Era cresciuto nella Juventus, una vera scuola di vita oltre che di calcio; quel calcio di cui non si stancava mai di parlare, raccontando, a chiunque gli desse la possibilità, alcuni dei tanti episodi gloriosi di cui, mezzo secolo prima, era stato un indiscusso protagonista.


VISITA IL BLOG DI STEFANO BEDESCHI
Acquista il libro "Di punta e di tacco" scritto da Stefano Bedeschi
Acquista il libro "Il pallone racconta" scritto da Stefano Bedeschi
Altre notizie
PUBBLICITÀ