Gli eroi in bianconero: David PLATT
David Andrew Platt raggiunse la Juventus nell’estate del 1992, come 13° juventino di madrelingua inglese e costando 13 miliardi di Lire: Giampiero Boniperti, da sempre attento a cabala e scaramanzia, aveva deciso che quello fosse un numero fortunato. Del resto era scritto che Platt sarebbe arrivato a Torino, lo era da oltre un anno. Da quando, cioè, il Bari specificò sul contratto del giocatore che, in caso di cessione, sarebbe stata interpellata subito la Juventus.
Trattativa complessa ma abbastanza scontata: alla fine Trapattoni ebbe il giocatore dinamico ed eclettico che cercava. Platt diventò il “Tardelli di Chadderton”: simile forza agonistica, simile rapidità di esecuzione.
«Sono nato attaccante», disse lui, in un italiano rodato dall’anno trascorso a Bari, appena arrivato a Torino, «ed il goal rimane la componente del calcio che preferisco. Però so adattarmi d ogni circostanza e mi ritengo valido anche in fase di copertura. Il raffronto con Tardelli mi lusinga; è stato un grande campione, magari la mia carriera potesse davvero assomigliare alla sua».
Platt ammirò Tardelli dal vivo, anni prima: «Ricordo come fosse oggi la magnifica Juventus che nel 1983, in Coppa dei Campioni, venne a vincere a Birmingham contro l’Aston Villa. Reti di Rossi, Boniek e di Cowans per noi. Posso dire che da quella sera ho sognato i colori bianconeri».
Fascino di un ricordo. Ma se la fine della storia è facile, comoda e piacevole, non altrettanto si può dire degli inizi: Perché Platt ha fatto parecchia fatica per sfondare, per convincere i più scettici che il suo fisico, non proprio mastodontico, poteva produrre un campione.
«Ha i muscoli ed il cervello di un criceto», scrisse un giornale britannico. Ed in maniera non troppo diversa la pensava l’allenatore Ron Atkinson e fu proprio quel tecnico rude a convincere David che il Manchester United non avrebbe mai puntato su di lui; difatti, venne dirottato in quarta serie, nel Crewe Alexandra: sembrava la fine, invece, era l’inizio. In quella specie di jungla agonistica, Platt imparò a lottare e non solo in campo. Fino ad allora, la vita non gli aveva negato nulla: una famiglia ricca, l’autista per la scuola, la governante brasiliana. Diciotto anni comodi e piacevoli, vissuti tra campi di calcio e scuola: e sui libri andava forte, Andrew, tanto da essere considerato quasi un latinista in erba.
Il Crewe Alexandra gli regalò le prime vere soddisfazioni: 127 partite di campionato, 65 goal. Sul ragazzo si posarono gli occhi di Graham Taylor, destinato a diventare selezionatore della Nazionale. Taylor lo portò all’Aston Villa ed il suo intuito fu presto ricompensato: ottimi campionati, molti goal, un titolo della “Premier League” sfiorato, la convocazione nell’Inghilterra, infine il Mondiale italiano: «Devo ringraziare Italia ’90, se oggi sono qui, se tutti mi hanno apprezzato. Devo ringraziare, soprattutto, quel goal al Belgio, nei tempi supplementari: una girata al volo utile a me, al mio futuro ed alla squadra».
Che, ricordiamolo, venne sconfitta solo in semifinale dalla Germania, ai rigori, e si piazzò poi quarta, battuta anche dall’Italia nella "finalina" di Bari. Già, Bari, un destino: «Purtroppo è andata male e quella delusione non l’ho dimenticata. La retrocessione si poteva evitare, siamo stati sfortunatissimi».
Dopo la mazzata della B, quella degli Europei: «È stata durissima: pensavamo di poter conquistare il titolo, invece siamo tornati a casa al primo turno. In Svezia ho vissuto la più grossa delusione della carriera, però nello sport come nella vita è necessario guardare avanti. La Juventus mi offre questa ed altre possibilità».
Platt raggiunse Torino con un notevole carico d’ottimismo. L’inglese non aveva dubbi: per lui, la rinnovata Juventus era già pronta. «Sulla carta abbiamo raggiunto il Milan e credo che lo scudetto sarà una questione a due. Vialli e Baggio sono due dei migliori giocatori italiani, la squadra è forte ed equilibrata. Troppi attaccanti? Non credo proprio. È anche andato via Schillaci. Sul mio futuro sono tranquillo, non farò la fine di Rush, che comunque resta un campione. Ma per un attaccante è molto più difficile inserirsi nella realtà del vostro calcio; io ho modelli diversi, gente che in questo Paese ha lasciato il segno, Brady, Wilkins e Souness. Non a caso, centrocampisti».
Il “nuovo Tardelli” ha conosciuto la Juventus in giorni un po’ particolari. Prima della sua presentazione alla stampa, qualche imbecille aveva infatti imbrattato il monumento di piazza Crimea, con scritte non proprio amichevoli. Un atto vandalico che, nelle intenzioni anti/inglesi dell’autore, doveva collegarsi alla tragedia di Bruxelles o, forse, un gesto di puro teppismo senza bandiera. Comunque Platt non si lasciò condizionare da questa episodio extra sportivo: «Sono venuto a Torino da straniero, ma conto di diventare, presto, un amico di tutti. Perché lo sport è amicizia».
A Bari ricordavano David come un tipo socievole ed allegro; a Birmingham si dilettava registrando improbabili segreterie telefoniche a sfondo osé: i suoi amici raccontavano di una sensuale voce femminile che rispondeva «David non può venire all’apparecchio; in questo momento è molto, molto occupato». Un altro messaggio era letto addirittura dalla regina Elisabetta.
Non si trattava, comunque, di un buontempone eccessivo. Nulla a che vedere, tanto per intenderci, con quel matto autentico di Gascoigne: Nonostante lo spiccato ed assai britannico senso dell’humour, David Platt era un tipo tranquillo e riservato. Trascorreva la maggior parte del tempo con la sua Rachel, una biondina sposata prima di raggiungere il ritiro di Macolin. Era appassionato di musica rap, giocava spesso a snooker (il biliardo inglese), amava i cavalli da corsa (ne ha persino posseduto uno, General Sulky, che però vinceva pochino), adorava gli hamburger e la salsa ketchup, tanto che in Inghilterra lo chiamavano “MacDonald”. Comunque la passione per il fast-food gli era passata presto, dopo pochi giorni di cucina pugliese. Quindi il Piemonte, terra di infinite tentazioni gastronomiche: Platt di appetito, anche in senso metaforico, cioè sportivo, ne aveva parecchio.
David fallì, con pochissime colpe e fu venduto alla Sampdoria; in maglia bianconera raccolse il misero bottino di 22 e 4 goal. Giocatore sveglio, intelligente, mobile, grintoso, molto bravo sotto porta; considerato che il campionato italiano si rivela spesso molto e troppo complicato tatticamente per quasi tutti i calciatori britannici (eccezion fatta per Wilkins, Brady, che era irlandese e Souness), poteva stare alla Juventus da protagonista (come è ovvio che sia, essendo il capitano della nazionale inglese) solo in un contesto a lui propizio, anziché in uno a lui assolutamente sfavorevole.
Nella Sampdoria andò meglio, intanto perché l'ambiente doriano era molto più rilassato (non è poco per un britannico, storicamente a disagio a calarsi nella realtà italiana) di quello juventino. Venivano dai successi di Mantovani, quindi pubblico sazio ed accomodante; la Juventus, invece, era nel pieno del periodo di vacche magre che sembrava non aver fine.
Fallita la rivoluzione di Maifredi, era stata operata la restaurazione targata Boniperti con esiti deludenti (la coppa Uefa sarebbe arrivata l'anno successivo) e poi perché, a Genova, fu fatto giocare nel suo ruolo: un organizzatore di gioco dietro di lui, Jugović; nessun compito sulle fasce, riservate a Lombardo e Serena; due punte, Gullit e Mancini, mobili, capaci di creargli spazi e con i piedi fatati, in grado di innescarlo nelle sue incursioni nell'area avversaria, una delle su qualità, considerato che nella nazionale inglese giocava addirittura seconda punta.
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