Gli eroi in bianconero: Claudio GENTILE
Nel giugno 1958, cominciava a brillare ed a far parlare di sé la stella di Pelè, ma nessuno di quei ragazzini che sfidavano il sole nelle polverose strade del quartiere Sant’Antonio a Tripoli, disputandosi accanitamente una palla, aveva la benché minima idea che in quei giorni in Svezia si disputassero i campionati mondiali di calcio. Neanche se qualcuno glielo avesse detto, il loro interesse sarebbe mutato: erano ben più importanti le sfide quotidiane tra figli di emigranti e piccoli arabi che, in fondo simili a quelle che tutti i giorni si disputano nei nostri oratori, avevano però protagonisti ben lontani dall’identificarsi o voler emulare i celebrati campioni del tempo.
In quelle sfide, giocate il più delle volte a piedi scalzi, occorreva tanta determinazione, grandi o piccoli che si fosse. E fu lì che Claudio Gentile imparò a forgiare il suo carattere, non potendo immaginare che ventidue anni dopo il suo nome sarebbe stato consegnato alla storia del calcio da un titolo mondiale e dall’essere stato capace di fermare gli ideali successori di Pelè, Zico e Maradona.
«Sono cresciuto in Libia, mio padre si era trasferito con la famiglia a Tripoli ed è lì che ho avuto le prime esperienze calcistiche; esperienze a livello di bambini, ovviamente, ma che mi hanno dato un’impronta incredibile. In parole povere, giocavamo a calcio, ma finiva a botte; io ero piccolo, ma ricordo che ogni pomeriggio, dopo la scuola, ci trovavamo in strada, gli italiani da una parte e gli arabi dall’altra. Si cominciava fra cento sorrisi poi, alla minima discussione, giù botte da orbi; sono stato temprato così alla battaglia, lì bisognava colpire il pallone ma, soprattutto, guardarsi alle spalle, per evitare i calcioni che arrivavano».
Se i Campionati del Mondo in Spagna rappresentano il fiore all’occhiello, sono gli 11 campionati giocati in maglia bianconera (nei quali ha totalizzato 415 presenze e 10 goal) ad aver affermato, partita dopo partita, le qualità di grande combattente di Claudio Gentile. Gli anni juventini rappresentano un magnifico esempio di carattere e professionalità, uniti alla volenterosa capacità di adattarsi alle esigenze della squadra.
Gentile arrivò alla Juventus nell’estate del 1973 dopo una militanza, poco più che anonima, ad Arona (serie D) e Varese (serie B). Per trovar posto in prima squadra non incontrò grosse difficoltà, i problemi vennero in seguito: «Inizialmente, ero l’alternativa a Furino, mi toccò fare il mediano, giocare cioè in un ruolo abbastanza atipico per me. D’altronde la concorrenza come difensore di fascia era terribile: c’erano Marchetti, Spinosi e Longobucco. Giocatori validi e senz’altro più esperti di me. Esordii in bianconero il 2 dicembre 1973 e fu una bella vittoria, 5-1 con il Verona. Giocai mediano ed, almeno a quanto mi disse l’allenatore ed quanto lessi sui giornali, me la cavai benino e venni confermato. I veri guai iniziarono qualche mese più tardi, quando ormai venivo considerato più di una promessa. La forma incominciò a scadere, rischiai di uscire di squadra. Furono giorni bruttissimi. Mi dissi: è ora che dimostri di essere uomo oltre che giocatore. Fu la molla per risalire».
Una molla alla quale Gentile ricorse spesso, rendendosi conto che quella era l’interpretazione professionale giusta per continuare a vestire la maglia juventina: «Giocare nella Juventus, non è né facile né difficile, come vorrebbe qualcuno. Però se non sei uomo, vai sicuramente a fondo. Perché si è condannati a vincere sempre e non ci si può mai permettere di sbagliare. Non è vero che alla Juventus ti vengono chiesti maggiori sacrifici sul piano fisico: l’unico vero guaio è se non riesci a farti la mentalità vincente. Ho visto tanti, più bravi di me, naufragare per non aver retto lo stress psicologico. Io, posso dire di non dover niente a nessuno. A Varese, ad esempio, né Sandro Vitali, né l’allenatore Maroso si accorsero mai di me. Le loro attenzioni erano piuttosto rivolte a Manueli, Calloni e Gorin. Per loro, io ero uno che aveva soltanto tanta volontà».
L’emozione del primo derby: «Mi toccò marcare Claudio Sala, l’elemento più difficile da controllare, perché non sapevi mai dove ti poteva scappare via. Me la cavai benino».
Facendo leva sulla propria grinta e determinazione, Gentile ha dunque costruito la sua carriera juventina vincendo tutto eccetto la Coppa dei Campioni: al suo attivo sono 6 scudetti, 2 Coppe Italia, un Mundialito, una Coppa Uefa, una Coppa delle Coppe. Tanti, naturalmente, i ricordi: «La mia stagione magica fu quella 1976-77. Trapattoni era convinto delle mie qualità, al punto da farmi giocare a sinistra nonostante io non sia mancino e anzi con quel piede ci sappia fare piuttosto poco. Invece di spaventarmi, feci leva anche quella volta sulla grinta. E tutto andò benissimo, dando ragione a Trapattoni. Vincemmo campionato e Coppa Uefa ed io disputai la mia miglior stagione in bianconero».
Nella tarda primavera del 1984 il divorzio dalla Juventus: «Fu una scelta difficile perché, oltretutto, non avrei per nessuna ragione al mondo voluto fare uno sgarbo a Boniperti. Non dimentico certo quello che il presidente ha significato per me, la sua fiducia e la sua stima per la mia carriera. Non ho tradito, bensì fatto una scelta; a trentun anni mi offrivano delle condizioni migliori di lavoro e le ho accettate, come avrebbe fatto qualsiasi professionista con famiglia a carico. Cambiano soltanto le cifre, la sostanza è la stessa».
Nell’album dei ricordi di Gento (soprannome che gli venne dato dai compagni e forse anche per questo gli è sempre stato più gradito di quel Gheddafi riferito alle sue origini) ci sono anche capitoli curiosi. Uno di questi è quello riferito a tal Galuppi, attaccante del Vicenza: «Altro che Maradona o Zico: è quel Galuppi lì che mi fece ammattire ogni volta che lo incontrai. Una vera dannazione, mi sgusciava da tutte le parti ed io non riuscivo a fermarlo neppure ricorrendo alle maniere forti. Mi spiace per lui, ma è stata una fortuna per me che non sia riuscito a sfondare ai massimi livelli del calcio!».
VLADIMIRO CAMINITI
L’artigiano che modella i suoi piccoli capolavori, con quelle mani che gli anni hanno reso rugose e dello stesso colore della creta che adopera, ci fa capire dell’uomo la volontà tesa ad un traguardo, modesto che sia. Ma tante volte un artigiano è più di un artista, alla società da certamente di più; ed il parallelo mi è utile per confrontare la carriera di Claudio Gentile di Tripoli a quella di tanti ragazzoni come lui persi per strada, non avendo posseduto la vocazione del lavoro, l’amore per un ideale, da servire in ogni momento della giornata. La Juventus lo aveva prelevato dal Varese, dove spiccava la sua pelle scura insieme al suo tackle ruvido e cattivo. Ma chi poteva prevedere sviluppi radiosi a quel gioco rudemente difensivo? Invece, prima l’occhio attento di Vycpálek, poi i progressi effettivi del ragazzo gli fecero conquistare la maglia di titolare, presto anche in Nazionale. E nacque uno dei più risoluti cerberi della pedata tattica, un fenomeno per applicazione che anche il piede si decideva a seguire, il Gentile poco gentile che però si allunga nella corsa e la cui discesa sull’out culmina in cross peranco precisi, peranco decisivi. Non credo che il suo capolavoro sia stata la marcatura di Maradona contro l’Argentina al Sarriá di Barcellona. Certo, fino a quel momento il calcio era ancora gioco virile, i ruzzoloni e le capriole di Maradona non commossero l’arbitro romeno. In realtà, nelle sue oltre 400 partite in bianconero, Claudio Gentile ha testimoniato una classe plebea adamantina, per cuore, per vigore, per spirito di sacrificio, anche per tecnica: un grandissimo terzino, che ben può stare al confronto dei migliori, Allemandi, Foni e Monzeglio compresi. Quale migliore elogio, per un tripolino che aveva cominciato a giocare scalzo nei polveroni?
NICOLA CALZARETTA, DAL “GS” DEL DICEMBRE 2013
Ci troviamo a Como. La convocazione è per le tre del pomeriggio, al Sinigallia. Claudio Gentile; maglioncino azzurro su camicia a righe bianche e blu, arriva puntuale. Oltre 400 presenze con la Juve e 71 con la Nazionale: Campione del Mondo nel 1982 da giocatore, Campione d’Europa nel 2004 da Commissario Tecnico dell’Under 21, oltre alla medaglia di bronzo alle Olimpiadi. Prima che gli venisse inspiegabilmente tolta la guida degli Azzurrini. Giusto il tempo di trovare il parcheggio ed entriamo allo Yacht Club Como, tra lo stadio e il lago. Nell’elegante salone d’ingresso luccicano coppe e trofei in quantità. Sulle pareti, le foto di barche vincenti. Dietro un’ampia vetrata, il Lario, sul quale si riflettono i sovrastanti monti e le splendide ville di Cernobbio. Un colpo d’occhio magnifico, anche se la giornata autunnale è grigiognola, con il sole che riesce a malapena a fare capolino. Pochissime le imbarcazioni che escono, giusto qualche canoa per gli allenamenti di canottaggio.
Ci sediamo nella stanza attigua al salone, al bar. Sul tavolino compare un volume con vecchie foto juventine. C'è pure la sua, anni Ottanta, sotto lo scudetto c’è già lo sponsor Ariston. Sorride Claudio Gentile, fresco sessantenne (è nato il 27 settembre 1953) nel rivedersi in maglietta e pantaloncini. Anche se per lui il tempo pare essersi fermato: fisico asciutto e riccioli ancora oggi colore della pece. «Vado molto spesso in bicicletta. Ho sempre apprezzato il ciclismo, soprattutto quella grande componente di sofferenza che si porta con sé». Ci diamo del tu.
Ma è vero che una volta per vedere una gara hai simulato un malessere? «Campionato del Mondo su strada, Mondiale del 1980, si correva a Sallanches, in Francia. Era il 31 agosto ed eravamo in ritiro. Dissi a Trapattoni che non mi sentivo bene per rimanere in camera a guardarmi la corsa. Vinse Hinault, secondo Baronchelli. È stata l’unica volta in cui ho fregato il Trap».
E lui quante volte ti ha fregato facendoti giocare dappertutto? (ride) «No, niente colpi bassi da parte del Mister. Semmai lui ha sfruttato una mia qualità, quella di sapermela cavare discretamente in più ruoli. In difesa li ho ricoperti tutti, e anche a centrocampo ho spesso fatto il jolly, giocando anche con il 10. Su tutte, comunque, me ne ricordo una con il 7 contro Luigi Martini della Lazio, al mio primo anno alla Juve con Vycpálek: non ho mai corso tanto come quella volta».
Tu comunque nasci marcatore: «Sì, fin dai primi passi con il Maslianico, qui vicino Como, la mia prima squadra».
A proposito, com’è che arrivi proprio a Como? «Perché lì vicino, a Brunate, viveva un fratello di mio padre. Era uno dei pochi punti di riferimento che avevamo in Italia quando nel 1961 fummo costretti a lasciare la Libia: l’aria laggiù si stava facendo pesante».
Che ricordi hai della tua infanzia a Tripoli? «Molto belli. Abitavo vicino alla chiesa di Sant’Antonio. Lì nei pressi c’era un campetto, tutti i giorni erano partite di calcio, italiani contro arabi. Loro erano molto più smaliziati di noi e spesso giocavano a piedi nudi. C’era già una discreta rivalità, ma solo per il pallone. Per il resto si viveva in armonia. A Tripoli di italiani ce ne erano molti, la gran parte proveniente dalla Sicilia».
Come tuo padre? «Mio padre è originario di Noto ed è emigrato in Libia molto presto. Lì ha conosciuto mia madre Elvira. Si sono sposati e sono arrivati tre figli. Frequentavamo le scuole italiane, ma avevamo un’ora di arabo al giorno, obbligatoria. Mio padre lavorava nell’edilizia, mentre uno zio aveva un’officina meccanica. Ci raccontava di Gheddafi che aveva una Fiat 124 e che spesso la portava da lui a farla sistemare. Poi tutto si è complicato e siamo stati costretti a lasciare l’Africa».
Fu un viaggio doloroso? «Ho ricordi molto nitidi di quando sono andato via, anche se avevo soltanto otto anni. Lasciavo tutto lì: amicizie, giochi, legami. Non è stato semplice. La passione per il pallone sicuramente mi ha aiutato».
Sognavi di diventare calciatore? «Mi piaceva il calcio, c’era la passione. Volevo arrivare, questo sì. Un giorno dissi che se mai avessi vinto uno scudetto, lo avrei fatto cucire sulla maglia a mia madre. Mi sono fatto veramente un mazzo così per raggiungere l’obiettivo. Ancora oggi mi inorgoglisce avercela fatta».
Quali sono stati i punti di svolta dei tuoi inizi? «Il primo quando entrai nel settore giovanile del Maslianico, paesino nel comasco. Il Como mi voleva, ma non metteva i soldi per pagarmi la funicolare da Brunate. Quelli del Maslianico sì. In casa non si navigava nell’oro, io stesso a quattordici anni lavoravo come operaio per contribuire alle spese».
Andavi ancora a scuola? «No, ma ho recuperato dopo, quando ero già alla Juventus. La mattina mi allenavo e il pomeriggio studiavo, assieme a Scirea che faceva le magistrali. Mi sono diplomato a Torino, odontotecnico».
Odontotecnico? «Mio suocero faceva il dentista».
Torniamo al pallone e agli altri passi decisivi: «La seconda svolta fu l’ingresso nel settore giovanile del Varese. Dissi a me stesso: “Non posso perdere quest’occasione, devo fare di tutto per migliorare”. Così dopo ogni allenamento mi fermavo per lavorare, specie sulla tecnica. I piedi non erano proprio gentili».
È questo il motivo per cui i dirigenti del Varese parevano non avere molta fiducia in te? «Credo di sì. In marcatura ero forte, ma ero un po’ grezzo. Poi magari c’erano altri nomi che riempivano maggiormente gli occhi. Morale della favola, nel 1971, a diciotto anni neanche compiuti, mi mandano in prestito all’Arona, in Serie D».
Bocciato? «Diciamo rimandato (sorride). Ma l’anno di Arona è stato fondamentale. Giocai tutto il campionato, segnai anche 4 goal di cui uno all’Astimacobi del mio amico Antognoni e poi ci fu un colpo di fortuna».
Cioè? «Giochiamo un’amichevole contro il Cagliari, che è in ritiro sul Lago Maggiore. Nel primo tempo marco Angelo Domenghini, poi passo su Gigi Riva. E mi faccio valere, al punto che Arrica, il presidente del Cagliari, stacca un assegno e lo consegna ai dirigenti dell’Arona per il mio cartellino. Che è però di proprietà del Varese».
A quel punto che succede? «La notizia si diffonde e il Varese, nel frattempo retrocesso in Serie B, mi richiama subito alla base. In panchina c’è Pietro Maroso, che ho avuto nel settore giovanile e che mi conosce bene. Promosso titolare. Grande stagione: alla fine fui eletto miglior giovane».
È stato in quel momento che hai avuto la percezione che potevi starci con i grandi? «La molla era scattata qualche tempo prima, sempre durante un’amichevole, stavolta con il Cesena. Marcai Ariedo Braida, ex del Varese, che alla fine della partita, rivolto al Direttore sportivo Sandro Vitali, disse stupito: “Ma dove l’avete preso?”. Ecco, quelle parole le ricordo perfettamente, perché in quel momento mi dissi: “Claudio, ora devi crederci davvero!”».
E quando ti è stato detto che andavi alla Juventus, ci hai creduto o no? «Me lo disse il presidente Borghi, a fine campionato. Era il 1973, non avevo ancora vent’anni. Ci ho creduto, ma nonostante sia sempre stato tifoso bianconero, gli dissi che alla Juve non ci sarei andato».
Che cosa? «Proprio così. Non c’era posto per me alla Juventus con i vari Salvadore, Cuccureddu, Morini, Longobucco, Mastropasqua, Gian Pietro Marchetti e Luciano Spinosi. Gli dissi: “Ed io dove gioco?”. E lui: “Non ti preoccupare. Devi andare e basta”. A quei tempi il giocatore non aveva nessuna voce in capitolo».
Ricordi anche la prima volta con Boniperti? «Mi volle conoscere subito, a giugno, gli avevano detto che ero piccolino. Mi strinse la mano, mi squadrò e si rese conto che non era così. Il secondo appuntamento a luglio, in ritiro a Villar Perosa, per il contratto. Ovviamente fece tutto lui ed io misi solo la firma».
A Villar Perosa ci fu anche il primo incontro con Gianni Agnelli, giusto? «A un certo punto dal cielo spuntò un elicottero. Era l’Avvocato. Dopo l’atterraggio, scese dalla scaletta e venne verso il centro del campo, dove eravamo raccolti tutti noi. Io, in realtà, me ne stavo nascosto, quasi impaurito. Ma lui chiese: “Dov’è il libico che abbiamo preso?”. Alzai la mano, sbucai in mezzo agli altri e lui: “Ma lo sa che abbiamo Gheddafi in società?”».
Fu lui a darti come soprannome quello dell’allora leader libico? «Sì, ma a me in verità non è mai piaciuto, non ho mai nutrito simpatie per Gheddafi. Ma me lo mise l’Avvocato, una figura di incredibile carisma. Ti faceva capire, anche senza grandi manifestazioni esteriori, che aveva stima di te. E tanto bastava».
Domanda uggiosa: telefonava anche a te alle sei di mattina? «Posso dire che dopo i Mondiali del 1982 mi ha chiamato per sapere chi era più forte tra Maradona e Zico».
E tu cosa gli hai risposto? «Che con me nessuno dei due aveva fatto goal».
Come fu decisa la tua marcatura su Maradona? «Diciamo che nel passato era capitato spesso a Tardelli di occuparsi del dieci avversario. Tuttavia, qualche giorno prima della partita, Bearzot venne in camera mia e mi chiese: “Te la senti di marcare Maradona?”. Ed io: “E qual è il problema?”. Non appena il Commissario Tecnico uscì dalla stanza mi maledissi. “Ma che cazzo m’è venuto in mente?”».
Ne hai riparlato con Bearzot? «No. Tra noi giocatori, specie dopo il primo turno, esisteva un patto di ferro. E lo stesso con il Commissario Tecnico. Ci avevano trattati malissimo e senza rispetto, specie alcuni giornali. Per questo fu deciso il silenzio stampa».
Cosa è che vi dette particolarmente fastidio? «Tutto il gioco al massacro, fin da prima del Mondiale. Noi eravamo imballati, per carità, si giocava male, non ci riusciva più nulla. Ma quando scrissero di Rossi e Cabrini gay e che per il passaggio del primo turno a ciascuno di noi sarebbero andati settanta milioni, lì fu chiaro che dovevamo proteggerci in qualche modo».
Per questo portavi i baffi? «In un certo senso sì. Feci una scommessa già nel pre ritiro ad Alassio con alcuni giornalisti sfiduciati. Me li sarei fatti crescere e me li sarei tolti se fossimo arrivati nelle prime quattro. Ho vinto io».
Torniamo a Maradona: «Mi sono messo a studiarlo. Avevo delle videocassette, facevo nottata andando avanti-indietro con il nastro per memorizzare i suoi movimenti, le finte, come lo servivano, cosa faceva appena aveva la palla».
Tradotto in pratica: come andava arginato? «Non andava fatto girare. Quello era il momento in cui rischiavi di non prenderlo più. Per cui giocare d’anticipo e cercare di estraniarlo il più possibile dal gioco dei compagni, in modo che avessero difficoltà a servirlo. In più, evitare di fare fallo in prossimità dell’area di rigore, perché sulle punizioni poteva essere micidiale».
In campo ti sei aiutato con qualche trucchetto? «La regola d’oro è: farsi sentire senza farsi vedere».
E Maradona? «Mi ha insultato per tutta la partita. Ma io non sono caduto nella trappola. Anzi, lui si è innervosito sempre di più. Se non vuoi avere pressione, cambia mestiere».
Maradona annullato, normale che Bearzot ti affidi poi anche Zico: «Normale un bel niente. Per la partita contro il Brasile, le marcature erano Oriali su Zico ed io su Eder, che avevo studiato a puntino. Bearzot in quel caso fu molto astuto. Eravamo sulle scalette del Sarriá, nel sottopassaggio, prima di entrare in campo. Il Commissario Tecnico mi chiama e mi fa: “Marchi Zico”. Ed io: “Solo lui o anche Eder?”».
Anche in questo caso, avversario annullato: «L’unica differenza è che Zico era più portato a giocare con i compagni rispetto a Maradona. Per il resto stesso trattamento e stessi trucchetti».
In più c’è la maglia strappata: «Il tessuto non era dei migliori! A parte le battute, con Zico siamo amici, mi ha anche invitato in Brasile perché recitassi nel film che racconta la sua vita. Lui ha sempre ammesso che la mia marcatura è stata dura, ma non scorretta».
Ne sei proprio sicuro? Tempo fa fece scalpore una sua intervista in cui pareva dicesse il contrario: «Non è così. Lui ha detto altre cose, seminai riferite agli aspetti tattici e alle differenze nel tipo di gioco tra Brasile e Italia. Non ce l’aveva con me. Il problema è che talvolta si travisa la realtà o, peggio, si inventano classifiche che non stanno né in cielo, né in terra».
TI riferisci a qualche Top Ten particolare? «Sì, a quella dei giocatori più cattivi stilata dal quotidiano inglese “The Times” qualche anno fa. Io sono all’ottavo posto e dopo di me ci sono Bergomi e Tardelli. Ma io non ho mai fatto male a nessuno, gli attaccanti che ho marcato hanno tutti giocato la partita successiva. Sono stato espulso solo una volta, per doppia ammonizione, e il secondo giallo fu per un mani a centrocampo».
Ti sento molto carico: «Mi ha dato molto fastidio questa cosa. D’altronde gli inglesi ce l’hanno con noi perché li abbiamo sempre bastonati, come i tedeschi. Ma la cosa che mi ha ferito di più è che nessun giornale italiano mi abbia difeso. Ho dovuto fare tutto da solo».
Però Brera ti chiamava il Feroce Saladino: «A parte che da Brera accettavi tutto, dentro quel nomignolo lui aveva messo assieme le mie origini e il mio modo deciso di intendere la marcatura. Un modo che mi ha permesso di mettere la museruola a tanti attaccanti di livello internazionale: nessuno di quelli che ho marcato ai Mondiali e agli Europei mi ha mai fatto goal. Da Kempes a Krankl, da Fischer a Boniek».
Se ti dico Didier Six? «Un diavolo. Prima azione del Mondiale d’Argentina, palla a loro, Bossis lancia Six sulla mia fascia e lui mi va via in velocità, crossa al centro e Lacombe segna: trentaquattro secondi ed eravamo già sotto di un goal. Il guaio è che io stavo parlando con Scirea, proprio per dirgli che questo Six era veloce e di coprirmi bene le volte che sarei avanzato. Quando è arrivato il passaggio, mi sono fatto sorprendere. Ma nel secondo tempo mi sono riscattato: feci io l’assist per il goal decisivo di Zaccarelli».
Che ricordi hai del Mundial argentino? «Dal lato sportivo un ricordo agrodolce. Bellissima la prima parte, con la ciliegina sulla torta della vittoria contro i padroni di casa e futuri Campioni del Mondo, con il bellissimo goal di Bettega».
A proposito di Italia-Argentina, è vero che voi juventini non accettaste il turn-over con i granata? «No, mai successo. La verità è che chi vinceva rimaneva a Buenos Aires e noi ci tenevamo a vincere».
Dicevi del ricordo agrodolce. «Le amarezze sono venute dopo, soprattutto con il 2-1 con l’Olanda con quegli incredibili tiri da lontano. Meritavamo la finale e sarebbe stato fantastico giocarsi la Coppa con l’Argentina».
Di ciò che accadeva fuori, aveste la percezione che qualcosa non andasse? «Un po’ sì, perché quando ci trasferivamo con il pullman, capitava di vedere la polizia che usava con una certa facilità il manganello. E poi a Buenos Aires vedemmo le madri dei Desaparecidos».
Cosa unisce l’Italia di Argentina a quella di Spagna 1982? «Intanto Enzo Bearzot, un padre per tutti noi, sempre pronto a difendere i suoi ragazzi. Una persona per bene, di valore e di valori. Dal lato calcistico fu bravissimo nel mantenere l’ossatura della squadra giovane e brillante del 1978, migliorandola con alcuni inserimenti mirati. Su tutti Bruno Conti, la rivelazione spagnola».
Quando avete capito di aver vinto il Mondiale? «La vittoria sull’Argentina ci ha rimesso in piedi, ma la svolta è stata con il 3-2 al Brasile. Era la squadra più forte, ma noi siamo stati più furbi. In più si è finalmente risvegliato Paolo Rossi. Da lì è cambiato tutto, soprattutto a livello mentale. La semifinale con la Polonia non la feci, perché ero squalificato, ma ero tranquillissimo perché nessuno ci avrebbe più fermato».
Neanche la Germania? «Figurati! E abbiamo anche sbagliato un rigore. Quella squadra era forte nella testa. Nonostante l’errore, nel secondo tempo li abbiamo massacrati».
E tu al goal di Tardelli ti lasci andare a un’esultanza fuori programma: «Mi venne così, di mettermi a cavalcioni su un mucchio azzurro in cui c’erano Tardelli, Oriali e Pablito. Poi arrivò anche Cabrini. In quel momento, francamente, ho pensato che era fatta».
Qual è l’ultima immagine di quel Mondiale che ti è rimasta nel cuore? «I festeggiamenti con il presidente Pertini dopo la finale. Senza formalismi, senza protocollo. Un momento di gioia pura, semplice. Lì ho avuto la percezione per la prima volta della grandezza del traguardo raggiunto e che dietro di noi c’era una nazione intera a gioire».
Tranne una bella fetta della stampa: «Ci volle ancora un po’ di tempo, ma poi anche i rapporti con chi ci aveva duramente attaccato tornarono buoni. Per i giornali fu una bella lezione Spagna 1982».
Chiudiamo i ricordi azzurri, prima di tornare alla Juve, con la trasferta canadese nel maggio 1984 che, di fatto, costò per alcuni anni la Nazionale a Roberto Mancini: «Eravamo a Toronto, quella con il Canada è stata l’ultima partita giocata in Nazionale. Una sera io e Tardelli chiedemmo il permesso al Mister di uscire e portammo con noi Mancini, che però non avvisò nessuno. Bearzot si preoccupò moltissimo, lo cercò dappertutto».
E quindi? «Il Mister se la legò al dito, arrabbiandosi con il Mancio. Noi cercammo di fargli capire che la colpa era nostra. Ma non volle sentire ragioni. Si era spaventato a morte non riuscendo a trovarlo. Tieni conto che all’epoca Roberto non aveva ancora vent’anni».
Tu li avevi compiuti da poco quando hai esordito in Serie A con la Juventus, 2 dicembre 1973. «Juventus-Verona 5-1. Mediano al posto di Furino. Ma la cosa incredibile era che pochi giorni prima, il 28 novembre, giocai addirittura da titolare la finale di Coppa Intercontinentale contro l’Independiente, sempre con il numero quattro. Presi una serie di gomitate e calci da paura, al che Vycpálek dalla panchina mi gridò: “Ragazzo, se non ti svegli esci fuori nero”. Quelle parole mi dettero la scossa giusta, anche per il dopo».
Infatti, già l’anno seguente avevi in pratica sbaragliato la concorrenza: «Salvadore chiuse la carriera, Marchetti e Mastropasqua andarono all’Atalanta in cambio di Scirea. Sulla panchina arrivò Carlo Parola, che mi promosse titolare. Ero uno dei terzini assieme a Cuccureddu. Saltai solo una partita e ad aprile debuttai anche in Nazionale. Ma soprattutto, alla fine vincemmo il campionato. Ero felicissimo, finalmente si avverava il sogno di far cucire lo scudetto a mia madre».
È la vittoria a cui sei più legato? «Direi di sì, anche se la doppietta campionato e Coppa Uefa del 1977 ha un sapore del tutto speciale, dato che arrivò finalmente la prima affermazione intenzionale. Quella rimane l’ultima Juve totalmente italiana ad aver trionfato in Europa».
Nel frattempo era arrivato Giovanni Trapattoni: «Il Trap ha rappresentato la novità, la rottura con il passato. L’anno prima, tra l’altro, con Parola ebbi qualche problema, mi tenne fuori squadra per un mese: secondo lui non stavo rendendo come prima. Chissà, forse aveva ragione, ma intanto persi anche la Nazionale».
Con il Trap cosa cambiò? «Cambiò tutto, dalla gestione dello spogliatoio alla preparazione della partita, alla cura della tecnica. Il Trap è un maestro, ti insegna a calciare, a stoppare, a marcare. Non molla mai la presa. Un martello. Io da lui ho imparato moltissimo: non mi sono mai sentito arrivato, neanche quando ho vinto il Mondiale».
Con il Trap hai vissuto i tuoi migliori anni alla Juve, vincendo tutto. C’è stato mai uno screzio? «No. Nemmeno quando mi faceva giocare stopper (ride). L’unica volta in cui abbiamo avuto visioni diverse è stato ad Atene, nella finale contro l’Amburgo. Mi disse di marcare Bastrup, che però mi portava sempre a sinistra. Ci siamo trovati io e Cabrini dalla stessa parte, quasi a marcarci a vicenda. Io gli urlavo di cambiare la marcatura, ma lui disse di no. Sia chiaro: non è stata certamente questa la causa della nostra sconfitta, perché quella sera nessuno di noi ha reso al cento per cento».
Hai citato Cabrini. Quando Trapattoni decise di dargli una maglia da titolare, hai tremato? «Francamente no. Anzi, quando è entrato in pianta stabile lui, io sono tornato finalmente a fare il terzino destro. Quello era il mio ruolo, oltretutto con Causio c’erano degli automatismi collaudati. Lui accennava il dribbling ed io partivo in sovrapposizione. In quella Juve si giocava a occhi chiusi e si vinceva spesso».
E perché nelle Coppe facevate fatica? È capitato di uscire al primo turno di Coppa Campioni: «La formula di allora era crudele e talvolta capitava di dover affrontare avversari più avanti nella preparazione, perché il loro campionato iniziava prima del nostro. E buttavi via una stagione. Altre volte non ci ha voluto bene la sorte. Nel 1977-78 siamo andati fuori in semifinale nei supplementari con il Bruges. Ci negarono un rigore e poco prima del goal decisivo di Vandereycken, che marcavo io, fui espulso per aver toccato il pallone con la mano. Ero appena entrato negli spogliatoi che sentii lo stadio tremare. Una maledizione».
E la Coppa dei Campioni rimane un sogno: «E vero, ma sono riuscito a vincere comunque tantissimo e a chiudere con la Juve con un’altra incredibile doppietta: scudetto e Coppa delle Coppe nel 1984».
Perché lasciasti la Juventus a trentun anni e andasti alla Fiorentina? «Mi volevano anche l’Inter e la Roma. Il presidente Viola, nell’estate del 1983, si era persino nascosto nell’aeroporto di Fiumicino con il contratto in mano per farmelo firmare, mentre con la Juve stavo partendo per una tournée negli Stati Uniti. Scelsi la Fiorentina che mi offrì tre anni di contratto e un buonissimo ingaggio. Fui molto onesto con Boniperti e con la società».
Non c’entra nulla quello che era successo nell’estate del 1982 con il divorzio successivo? «No, quella volta lì io, Tardelli e Rossi ci impuntammo perché non ritenevamo giusto che gente come Platini o Boniek prendesse più di noi che eravamo alla Juve da una vita ed eravamo diventati Campioni del Mondo».
Siamo alle ultime battute. Al di là delle vittorie, c’è un altro momento a cui sei particolarmente legato nei tuoi undici anni in bianconero? «È il goal vittoria nel derby, 25 ottobre 1981. Cross di Brady e di testa batto Terraneo. Una soddisfazione enorme, anche perché la partita con il Toro era per noi un mezzo incubo. I granata erano assatanati. Ricordo i duelli con Pulici e Graziani e la fatica enorme una volta con Claudio Sala. Ma la cosa più terrificante era il libero Cereser che ti aspettava al limite dell’area con le braccia larghe per picchiarti».
Chi ha deluso e chi ha avuto meno nelle tue molte Juventus? «Virdis poteva dare di più, non lo vedevo convinto. Meglio potevano fare anche Musiello e Mastropasqua, giovani e dotati. Il più sottovalutato, invece, è stato Massimo Bonini, penalizzato dal fatto di essere nato a San Marino».
Ultima domanda: hai qualche tatuaggio? «No, non mi piacciono. Una volta, però, mi è venuto il desiderio di farmi disegnare sul braccio la Coppa del Mondo. Ma ci ho rinunciato».
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