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Gli eroi in bianconero: Benito SARTI

di Stefano Bedeschi
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«Giocavamo per divertire il pubblico, quel pubblico a cui dovevamo fama e, perché no, qualche soldo. Ci si allenava duramente per essere pronti la domenica, per non fare mai brutte figure, per fare in modo che i nostri tifosi fossero contenti e soddisfatti per una bella partita o una vittoria. Ai miei tempi non era concepibile battere la fiacca, altrimenti ci si rimetteva per sempre la faccia».

ANGELO CAROLI, DA "HURRÀ JUVENTUS" DELL’AGOSTO 2000
Anima semplice e grande terzino, lo chiamavamo “boccolo d’oro” per via dell’uso maniacale che faceva del “fon” per increspare la testa bionda di riccioli.
Andiamo indietro negli anni, a cavallo dei ‘50 e ‘60. Benito è un difensore naturale, cresciuto a Padova dove, adolescente, scopre l’arte italiana di piegare la schiena sotto il peso di una cinghia di canapa per trainare un carretto pieno zeppo di frutta e ortaggi. Suo padre fa l’ortolano. Ogni giorno il bocia spinge quel trabiccolo per 40 chilometri e alla fine della giornata si riposa all’ombra del monumento del Gattamelata, nella Piazza del Santo. E intanto gioca al pallone. In quel periodo di sacrifici e passione rifinisce il senso del dovere. E il suo angelo custode è il perfezionismo. I tifosi ricordano quando prima di entrare in campo il giovane Benito si inginocchiava per controllare se le scarpe fossero ben allacciate. Era molto di più che un semplice rituale scaramantico.
Cresce con Nereo Rocco, il Paròn. E vola verso la gloria. Nel ‘57 viene acquistato dalla Sampdoria. È già una fionda con la testa bionda. La rima gli piace. E vola ancora, tanto che nel ‘59 lo chiama il club più prestigioso d’Italia. La Juve lo compera per 80 milioni, una cifra esorbitante per un difensore. Benito non smette di saltare e volare, elegante, sicuro, tempista, con garretti che sembrano di caucciù. Ha due piedi d’oro, come la testa. È buono ma schivo e introverso. Parla poco e brontola a voce bassa. Si sfoga solo con chi entra in sintonia con lui. È attento e scrupoloso, Cesarini e Parola gli insegnano segreti fantastici e lui mette tutto in un cassetto, come i sogni. E li esibisce sul campo per migliorare la sua figura di terzino versatile e anche di centromediano dalla battuta sicura e rapida. Diventa una colonna anche con la maglia azzurra. Gioca in Nazionale sei partite, il debutto si celebra nel ‘59 nel famoso pareggio di Colombes, quando Nicolè sigla due gol che fanno delirare i fans italiani.
Sarti non si ferma, continua a volare e a trasformare la teoria in pratica. E ad accarezzare i boccoli biondi con interminabili soffi di “fon”. È sempre l’ultimo a lasciare lo spogliatoio, con la testa vaporosa come una colata di zucchero filato. La carriera nelle fila bianconere si allunga. Conosce anche Heriberto Herrera, un mastino che sta scomodo a tanti. Benito vince con lui il terzo scudetto.
Poi lascia il calcio ma non si allontana dal Piemonte. Mette su famiglia, la moglie gli dà due figlie, Isabella e Sabrina, che sono bionde come lui. Lascia il calcio con un secco e coraggioso colpo di machete. Non brontola più il padovano buono come il pane, però sono sicuro che insiste tutt’oggi nel custodire con gelosa delicatezza quei riccioli che a 64 anni si sono inceneriti un po’.

«Rammento come fosse accaduto ieri un episodio buffo che ha per protagonisti proprio Umberto Agnelli e il sottoscritto. Siamo nel ‘59, e vengo convocato in Nazionale a Firenze per l’incontro con l’Ungheria, nonostante fossi influenzato da una settimana. Ma in campo dimentico gli acciacchi, e me la cavo piuttosto bene. Al termine della partita, davanti alle telecamere della Rai il mio intervistatore è proprio lui, il Dottor Umberto: “Sarti, ci dica: come ha fatto a salvare tre gol, praticamente già fatti, sulla riga di porta?”. “Presidente, il trucco è semplice: giocando, ho imparato anche a fare il portiere senza usare le mani”. Qualche giorno dopo a Torino gli regalai la medaglia d’oro con la quale all’epoca venivano ricompensati gli azzurri».

EMILIO FEDE, DA “HURRÀ JUVENTUS” DEL MAGGIO 1965
Nell’alloggio al terzo piano di via Barletta, Isabella e Sabrina hanno smesso di giocare. Stanno buone, sedute sulla stessa poltrona vicine al nonno Edmondo che fra poco, a bordo di un’autoambulanza, ritornerà nella sua città, a Padova. Lo accarezzano, gli fanno vedere gli ultimi giocattoli avuti in regalo dal papà, Sabrina gli offre anche le caramelle. Vogliono molto bene al nonno e sanno che è malato. È venuto da Padova, perché voleva rivedere il figlio, la nuora e le nipotine che adora. Ha voluto fare una sorpresa, è arrivato senza avvisare. Sabrina che ha quattro anni ha il compito di badare alla sorellina, Isabella, di due anni. «Non fare chiasso, il nonno deve stare tranquillo», dice a Isabella con tono molto serio.
Edmondo Sarti ha compiuto sessant’anni, ha lavorato tanto, la sua salute è logora, ma non si sente di starsene fermo nella sua casa in Borgo San Carlo, a Padova. Dei sette figli, quello che sta a Torino, Benito, è il più lontano ed è quello che gli è più caro. «Da bambino lo portavo sempre con me, Io tenevo per mano mostrandogli le cose curiose che accadono nel mercato generale di una grande città. Noi, oltre al negozio, avevamo anche un banco per il commercio della frutta e verdura e speravo che diventato vecchio toccasse a Benito di mandarlo avanti. Chi avrebbe pensato allora che invece la sua strada era il calcio?», dice Edmondo Sarti. È un uomo magro, dai capelli bianchi, lo sguardo dolce. Per Benito Sarti, il terzino titolare della Juventus, non è stato soltanto padre affettuoso, ma soprattutto un amico comprensivo e intelligente: «Si può dire - racconta Benito - che fino a pochi mesi fa mi ha tenuto per mano. Quando andavo a trovarlo a Padova e uscivamo insieme, lui mi prendeva una mano come da ragazzino e mi parlava del lavoro, delle difficoltà, del suo programma per il futuro. Della salute non voleva dire nulla, per non preoccuparmi. Era felice di ricordare gli anni della mia infanzia».
Benito Sarti è nato il 23 luglio del 1936 in una casa modesta del rione San Carlo di Padova, dove i genitori avevano un negozio per il commercio all’ingrosso di frutta e verdura. È penultimo di sette fratelli, cinque maschi e due femmine. Aveva undici anni quando il padre lo portò per la prima volta al mercato spiegandogli come funziona il commercio e facendogli vedere gli aspetti più curiosi di quel mondo che si sveglia all’alba fra clamori insoliti e rumori di camion e motorette. A Benito bambino, quel mondo piaceva. Seguiva spesso il padre e fu ben presto in grado anche di aiutarlo. Restava al banco, sorvegliava il carico e lo scarico della merce, imparò a conoscere la qualità della frutta, a dare consigli utili.
Ma non era destinato a quella vita. Pochi mesi dopo lo videro giocare nella squadra della parrocchia San Carlo e fu chiamato fra i «pulcini» del Padova. Dalle file dei piccolissimi, passò in quelle dei ragazzi, poi fra gli allievi e infine, nel 1954, debuttò in prima squadra. Il Padova militava in Serie B, ma proprio al termine del campionato di quel l’anno fu promosso alla massima serie e Sarti disputò, a diciotto anni, la sua prima partita della Serie A. Era un ragazzo serio, di poche parole. I dirigenti già allora dicevano che avrebbe avuto un avvenire brillante. Due anni dopo fu ceduto alla Sampdoria, dove rimase fino al 1958 quando la società bianconera decise di acquistarlo. Benito Sarti, che all’età di undici anni era stato portato in un mercato generale, per imparare i segreti del commercio di frutta e verdura, indossava la maglia di una fra le più importanti società di calcio italiane. «Scrissi una lunga lettera a mio padre e pochi giorni prima di trasferirmi a Torino andai a trovarlo. Gli feci una sorpresa. Mi presentai all’alba al negozio e lui aveva le lacrime agli occhi. Stava leggendo sul giornale la notizia della mia cessione alla Juventus. Mi disse di non montarmi la testa, di continuare a vivere come avevo sempre fatto, allenandomi scrupolosamente, senza trascurare il minimo particolare. Restai con lui tutto il giorno, poi andai a Torino, la mia nuova città», racconta Benito.
La sua prima partita con la Juventus fu contro il Vicenza. Quella domenica i bianconeri scesero nella seguente formazione: Mattrel; Castano e Sarti; Emoli, Cervato e Colombo; Nicolè, Boniperti, Charles, Sivori e Stivanello. Vinsero per 4-0 e alla fine del campionato conquistarono anche lo scudetto. Era il primo che Benito fece cucire sulla sua maglia: «Mi ero sposato da un anno. Milena, mia moglie, era l’unica persona che capisse l’importanza di quel momento. Stava realizzandosi tutto ciò che di più bello avevo sognato. La Juventus, lo scudetto, una vita serena e felice. Cosa potevo chiedere di più alla vita?». Quell’anno fu il più importante per Sarti. Disputò la prima partita in maglia azzurra nella rappresentativa B a Saragozza e in seguito nella A, a Parigi contro la Francia che si concluse in pareggio con due reti a due. Che ricordo ha di quell’incontro in Nazionale? «So che abbiamo giocato tutti molto bene. Io ero terzino con Corradi, eravamo affiatati. I giornali scrissero che avevo fatto il mio dovere».
Dopo Parigi Benito Sarti ha giocato sei volte in maglia azzurra. L’ultima a Firenze contro l’Argentina dove gli azzurri vinsero per cinque reti a una.
Ci sono stati, in seguito, anche momenti tristi nella vita del forte difensore bianconero, com’è destino per ogni individuo. Quando fu chiamato Amaral alla direzione tecnica della squadra, Sarti rimase un lungo periodo fuori squadra e si parlò anche di cederlo: «Lasciare la Juventus sarebbe stato grave. Anche se mi avesse acquistato un’altra società importante avrei provato un profondo senso di sconforto. In quei giorni ero di cattivo umore, demoralizzato. Amaral diceva che il mio gioco non si inseriva nel metodo che lui voleva e non potevo che rassegnarmi. Devo ringraziare mia moglie che ha avuto tanta comprensione ed ha saputo aiutarmi a superare la crisi; anche la direzione della società che si è mostrata affettuosa nei miei riguardi. Oggi quel periodo è come cancellato dalla mia mente. Mi sento rinascere. Con Herrera facciamo tutti una nuova vita; abbiamo imparato certe cose che sono estremamente importanti nella vita e nello sport».
Sembra strano il modo vivace che ha di raccontare, di metterci al corrente dei suoi stati di animo. Lui che è schivo di confidenze, che appare spesso chiuso, impenetrabile. Ma è così Benito Sarti? «No, assolutamente no. Anzi a me piacerebbe parlare, intrattenermi con la gente. Ma è difficile farsi capire. La nostra è una professione che richiede molto controllo nei rapporti umani. Capita che si sia fraintesi. Uno ha voglia di sfogarsi, di parlare delle proprie aspirazioni, invece finisce con l’apparire presuntuoso. Così penso che sia meglio non dire niente. Quel che ho voglia di dire lo racconto a mia moglie la sera quando gioco con Sabrina e Isabella».
Ma questo modo di essere schivo può crearle delle antipatie: «Lo so, ma non importa. Faccio il mio dovere di atleta, gioco sempre con impegno, non mi trascuro mai, perché so che il pubblico è giustamente esigente e vuol veder giocare. Io cerco di accontentarlo. Per quanto riguarda i rapporti umani non ho colpa. È il mio carattere, non posso cambiare».
Nella sua casa elegante e ordinata, Milena Sarti aiuta le due figliolette a cambiarsi di abito. Fanno tutto piano, piano per non disturbare il riposo del nonno. Sono giorni tristi questi per Benito Sarti. Ha smesso di andare a caccia, i suoi fucili moderni sono rimasti appesi nello studio e non li tocca da diverso tempo. L’ultima volta era andato con Sivori in riserva per cacciare anatre e beccaccini. Una malinconica giornata nebbiosa. Avevamo parlato dei loro problemi personali, lontani dalle polemiche del gioco, dalle grida della folla. Sivori è suo buon amico, perché anche lui come Benito ha avuto tanti momenti tristi nella vita.
È un tardo pomeriggio quando lasciamo Benito Sarti nel suo alloggio di via Barletta. Fuori c’è in attesa l’ambulanza che riporterà a Padova papà Sarti, un uomo dal volto magro, i capelli bianchi che ha voluto fare l’ultima sorpresa al figlio che per tanti anni ha tenuto per mano. Sarà ricordando questo pomeriggio di fine marzo che proveremo più affetto, la domenica, quando fra le maglie bianconere vedremo quella di un ragazzo biondo che da bambino era destinato a occuparsi di un banco ai mercati generali.
 


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