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Gli eroi in bianconero: Antonio CONTE

di Stefano Bedeschi

Antonio Conte il capitano – scrive Nicola Calzaretta su “Hurrà Juventus” dell'agosto 2011 –  adesso mister, suo padre, Cosimino, lo ha sempre detto: «Diventerà un grande allenatore». Più che una profezia, una certezza. Il modo indicativo è lì a certificarlo. Non sogni di babbo, pur consentiti, ci mancherebbe. Ma previsioni fondate di chi è del mestiere. Di chi al pallone ha dedicato una vita intera, presidente-allenatore-segretario della Juventina di Lecce per oltre trent’anni.
Lì (e poteva essere diversamente?) ha mosso i primi passi Antonio. A tre anni già seduto in panchina accanto al babbo, a nove ufficialmente tesserato nel settore giovanile della Juventina. Maglia bianconera, pantaloncini e calzettoni bianchi: la perfetta copia della Juventus vera, la squadra del cuore del biondissimo Antonio. Un amore senza se e senza ma. La riprova quando un giornale lancia un concorso, chiedendo ai partecipanti di inviare il disegno del proprio calciatore preferito: il piccolo Conte manda quello di Roberto Bettega, il suo idolo. Anno Domini 1979.
Non è dato conoscere se e quanti poster bianconeri abbia nella sua camera. Di certo si sa che cresce bene e che gioca ancora meglio. Inevitabile e meritato, arriva il passaggio al Lecce. La testa rimane saldata al collo e i piedi alla terra. Unica concessione, a quattordici anni, una Vespa usata. Ma a correre in campo è lui. Due anni dopo arriva addirittura il debutto in A.
È il 6 aprile 1986, Antonio non ha ancora 17 anni. Scommette su di lui mister Fascetti, uno che vede lontano. Gioca gli ultimi dieci minuti al posto di Vanoli. La gioia per il debutto, però, non dura molto. La sfortuna, che con lui sarà particolarmente accanita, si presenta subito sotto forma di una tibia rotta dopo uno scontro con un compagno. Stop forzato ai box. Tempra e carattere che si rafforzano ulteriormente. Torna più forte e sicuro di prima. Impressiona la sua grinta e la voglia di arrivare. Nel mezzo ecco pure il diploma di ragioniere, dopo cinque anni di superiori senza mai andare a settembre. Accidenti che tipo!
Gli anni ‘80 stanno per chiudersi. Per Conte si aprono sempre di più le porte della Prima Squadra. È Carlo Mazzone che gli mette le ali. Lui prende al volo l’occasione e non molla più la maglia da titolare. È una bella squadra quel Lecce: Pasculli, Virdis, Barbas, Giacomo Ferri. C’è anche Checco Moriero, anche lui classe 1969, quello che da piccoli lo batteva nelle gare di atletica, ma poi Antonio si rifaceva con le ragazze, confidando sul gentile aspetto e sull’azzurro dei suoi occhi. La consacrazione arriva con il campionato 1989-90: 28 presenze e un gol, il primo in A, contro il Napoli, davanti a Maradona. Compimenti e successi. I primi soldi veri. Una parte destinati all’acquisto della Golf usata che gli vende Giuliano Terraneo, il portiere-poeta che chiude la sua lunga carriera proprio a Lecce nel 1990.
Il nome di Conte inizia a circolare. Debutta anche con l’Under 21, si fa un altro buon campionato con i giallorossi fino all’improvvisa chiamata della Juventus. Novembre 1991. A dire il vero il suo arrivo a Torino passa un po’ sottotraccia. È il mercato d’autunno, quello di “riparazione”; ultimo appello. In quei primi anni ‘90 è ancora così. Le sessioni di mercato sono due e molto contenute. Estate e autunno, per gli ultimi e definitivi ritocchi.
È Giovanni Trapattoni, alla sua seconda tornata sulla panchina bianconera, che chiede l’acquisto di Conte. Al Trap, si sa, i mediani tutto cuore e grinta piacciono da matti, forse perché ci si specchia un po’ dentro. Boniperti lo accontenta. E chiama casa Conte. Dall’altro capo del telefono mamma Ada: «Immagino quanto le costerà rinunciare a un figlio che si trasferisce a 1.000 chilometri – sono le parole del presidente –. Ma voglio tranquillizzarla, alla Juve troverà un’altra famiglia che saprà crescerlo e aiutarlo nei momenti difficili».
Sarà così. Intanto l’acquisto è concluso facilmente. Antonio arriva a Torino. La nebbia gli mette un po’ di ansia. Le labbra sono cucite dall’emozione. Il cuore è in tumulto. Boniperti gli mostra le scarpette con cui ha giocato a Wembley e i trofei della Juve. «Ricordo bene il giorno che arrivai a Torino. Per l’emozione non spiaccicai una parola. C’erano campioni come Roberto Baggio, mi venne istintivo dare del “lei” a tutti. Anzi, del “voi”, perché sono leccese e dalle mie parti si usa così. Pensai: “Qui non duro a lungo, sono di passaggio, non posso permettermi un salto così lungo, dalla B in Puglia alla squadra più forte d’Italia”».
Ma per fortuna il vento che scaccia la nebbia, si porta via anche i timori del giovanotto pugliese. Le foto, la figurina Panini stampata in extremis per inserirla nell’album e Antonio Conte si trova in mezzo a Schillaci e Baggio, Tacconi e Marocchi, Julio Cesar e Kohler. Inutile dire che lui è felicissimo, bianconero nel sangue com’è. L’inizio è in salita. Nella prima amichevole che gioca, con un maldestro passaggio indietro al portiere, favorisce il gol avversario. Lui ci rimane malissimo, ma sono peccati veniali. Trapattoni lo tiene sulla corda e gli offre supplementi di lezioni tecniche e tattiche. Lui risponde presente e alla fine gioca 14 partite e cosa più importante, si conquista un posto da titolare per l’anno successivo.
È già maturato tantissimo, dopo soltanto pochi mesi di cura Trap. Di lui si parla come il mediano del futuro, erede di Furino e Bonini. Antonio ci sta, non si spaventa. Brillano sul suo viso gli occhi azzurri chiarissimi.
La stagione ‘92-93 è trionfale per la Juve e per lui. Arriva la Coppa Uefa. Conte si tiene ben stretto il posto in squadra, né il Trap è intenzionato a dare la sua maglia ad altri. È cresciuto ancora. Non solo mediano. Centrocampista globale, perno della manovra, cacciatore di palloni ed anche goleador. E che goleador. Reti spesso spettacolari, gol frutto dell’istinto e di una tecnica di base che Conte migliora giorno dopo giorno. Il popolo juventino, che già l’ha in simpatia, lo eleva agli onori della canonizzazione bianconera il 10 aprile 1993. È domenica di derby, la partita che mette i brividi. Il Torino e il suo furore, con quel tremendismo granata che alla Juventus temono. Ci pensa Antonio Conte a dare la giusta misura alle cose e, dunque, alla superiorità ancestrale dei bianconeri. A nove minuti dall’inizio porta in vantaggio la Juventus. A nove minuti dalla fine realizza il gol del definitivo 2-1, dopo il pareggio granata di Aguilera. La sua corsa, folle e gioiosa, dopo la marcatura decisiva, è la corsa, folle e gioiosa, di ogni tifoso vero della Juve.
In soli due anni, Conte è una delle colonne della Juventus e uno dei nomi nuovi su cui punta Arrigo Sacchi per la sua Nazionale che nel 1994 arriva seconda dietro il Brasile. Antonio c’è, uno dei pochi bianconeri stimati e voluti dal Commissario Tecnico Sacchi. E non è cosa da poco. Anzi. Umile e generoso, educato e colto, quando arriva Marcello Lippi ha l’intelligenza di mettersi a disposizione, senza reclamare nulla. Conte è juventino. Aspetta il suo turno, con pazienza e dedizione. Che arriva, impreziosito da gol stupendi, come il colpo di testa in tuffo contro il Borussia Dortmund nella prima di Champions League.
La fascia di capitano ben presto gli circonda il braccio sinistro. Gliela consegna Vialli, l’avallo Io appone mister Lippi. «È un grande onore, oltre che una responsabilità di cui vado fiero. Questa fascia è anche simbolica, in squadra ci sono, infatti, più capitani!». I tifosi, poi, gliene regaleranno una personalizzata: “Senza di te non andremo lontano. Antonio Conte è il nostro capitano”. «Penso che i tifosi apprezzino il mio modo di essere dentro e fuori dal campo. Con me sono sempre stati davvero fantastici. Nei momenti più difficili mi sono stati vicini, dimostrandomi calore e simpatia».
Conte capitano e la Juve va lontanissimo. Champions, Intercontinentale e un’altra dozzina di trofei tra scudetti, coppe e supercoppe assortite, alla fine saranno 15 in totale. Lui c’è, anche quando la malasorte si diverte a rendergli più dura la giornata. Tre le stazioni della sua personale via crucis. La prima durante la finale dell’Olimpico il 22 maggio 1996, dopo uno scontro con Davids. La coscia gli si gonfia come un cocomero. Addio Europei. «Quella sera, provai la soddisfazione più grande e l’amarezza più intensa. Pochi giorni dopo, i miei compagni partivano per gli Europei ed io ero in un letto di ospedale con una coscia gonfia e dolorante».
La seconda il 9 ottobre dello stesso anno, con la maglia della Nazionale. Salta il legamento crociato del ginocchio sinistro. Lungo stop e addio Tokyo. Terza stazione, il 24 giugno 2000, durante gli Europei che lui ha bagnato con una rovesciata-gol (sua specialità) di rara bellezza. Contro la Romania, un’entrata da codice penale di Hagi gli frantuma una caviglia e il torneo per lui finisce lì. Dolorose cadute e resurrezioni miracolose. Anzi no: resurrezioni figlie legittime della volontà di ferro e della tenacia di un ragazzino che con la maglia della Juve è diventato uomo.
Dice di lui il Trap: «Era duttile e intelligente. Una forza della natura nella fase difensiva e in quella offensiva: non è un caso che sia diventato allenatore. Giocando in mezzo capisci meglio le dinamiche di tutti i reparti».
“Voglio arrivare alla Juve”, lo dichiara subito, appena seduto sulla panchina dell’Arezzo, nel 2006: «L’idea di approdare alla Juventus prima o poi non è stata un’ossessione, semmai un pensiero piacevole e soprattutto inevitabile. Perché appena ho smesso di fare il calciatore e ho intrapreso un nuovo mestiere ho pensato subito che mi sarebbe piaciuto arrivare alla Juventus. Il motivo è molto semplice: questa è casa mia. Non si può stare lontani troppo a lungo».
Tredici stagioni in bianconero. Dal 1991 al 2004. Prima capitano, adesso mister. Antonio Conte, il terzo leccese juventino in ordine di tempo, dopo Causio e Brio. Anche lui, come i suoi concittadini, ha lasciato un’impronta indelebile nella storia della Grande Juventus da calciatore. Ora, siamo sicuri, saprà farlo anche da mister.

STEFANO DISCRETI, DAL LIBRO “I NOSTRI CAMPIONI”
In una testimonianza scritta rivelata al sottoscritto, mi raccontò questo episodio: «Era un periodo in cui mister Lippi mi faceva giocare mediano sulla destra, ruolo che non gradivo troppo. Fui intervistato proprio in quei giorni ed evidentemente il giornalista fu bravo a estrapolare questo mio leggero malumore. Sai come fanno poi i giornali. Il giorno dopo il titolo fu: “Conte: vinco ma non mi diverto”. Successivamente, al mio ingresso negli spogliatoi trovai, attaccato al mio armadietto, questo messaggio: “Se vuoi divertirti, vai all’Una Park”. All apostrofo una! Ti rendi conto che cosa provocò in me quella frase scritta da quell’ignorantone di Angelo? (scrivi pure ignorantone, tanto è in senso affettuoso). Ancor oggi, quando rincontro Di Livio, lo prendo in giro».

IL FRATELLO, DA “TUTTOSPORT” DEL 25 NOVEMBRE 2011
Antonio è un vincente, ha chiamato la figlia Vittoria perché non sa parlare di altro, sua moglie è una santa: prima o poi parlerà di tattica anche lei, Siamo una famiglia bianconera, papà fondò una squadra a Lecce e la chiamò Juventina. Antonio al tempo era già determinato, per lui non esistono ostacoli impossibili ma solo sfide da vincere e ora pensa a far vincere la Juve 24 ore al giorno. Cosa temiamo in famiglia? La prima sconfitta. Quando è capitato in passato da giocatore e da allenatore si nota il cambiamento di umore, diventa intrattabile, non esce di casa. Pensa e ripensa agli errori. Io reagii male quando nel 1991 Antonio andò alla Juve, A dieci anni mi veniva a mancare in casa il fratello maggiore. Mia madre? All’inizio era preoccupata ma poi ci pensò Boniperti che parlo anche con lei per velocizzare la trattativa visto che c’era anche la Roma su Antonio. Mio padre invece fu orgoglioso del passaggio in bianconero ma non se ne vantò mai, è sempre stato schivo.

Comincia l’avventura di Antonio sulla panchina bianconera. Questa volta il mercato è basato sulla “qualità”: arrivano Pirlo, Vucinić, Lichtsteiner e un semisconosciuto cileno, Arturo Vidal. E proprio il dover utilizzare il cileno e mettere Pirlo in condizione di esprimersi al meglio, “costringe” Conte ad abbandonare il suo amato 4-2-4 per un più produttivo 3-5-2. «Abbiamo lavorato due mesi su quel sistema di gioco, secondo me il più difficili da adottare. Poi, col passare dei giorni e degli allenamenti, mi sono convinto sempre di più che sarebbe stato un delitto non utilizzare insieme Pirlo, Vidal e Marchisio. Da qui ho studiato nuove soluzioni, senza abbandonare mai la nostra proposta di gioco».
Il trio difensivo è composto da Chiellini, Bonucci e Barzagli, la famosa BBC. Una specie di linea Maginot, quasi impossibile da superare. Gli attaccanti non segnano molto, ma ci pensano i centrocampisti (Marchisio in primis) e i difensori (lancio di Pirlo e gol di Lichtsteiner, vero leitmotiv della stagione) a riempire il tabellino delle realizzazioni. Ottimo anche il rendimento della panchina: Giaccherini, Padoin e il redivivo Cáceres non deludono mai quando chiamati in causa.
La Zebra non perde mai, anche se i pareggi sono tanti. «L’imbattibilità è qualcosa di straordinario, di impensabile. Adesso sappiamo che al massimo ci potranno raggiungere, mai superare».
Ma si batte due volte l’Inter, i campioni in carica del Milan allo Stadium e si rimonta in modo clamoroso la partita a Fuorigrotta. L’inseguimento al Diavolo è serrato ma i rossoneri cedono sul finale. E quando a Trieste, vincendo contro il Cagliari per 2-0, lo scudetto è cosa matematica, il pensiero dei tifosi non può non andare a chi ha provato ad affossare la Juve, all’anno in serie B e ai due settimi posti. «Ho avuto la fortuna di veder subito accettata la mia idea di calcio e la mia gestione del gruppo. Si trattava di tornare a giocare da grande squadra, non da provinciale. Dissi che, se proprio dovevamo perdere, era meglio che succedesse trafitti da un contropiede mentre attaccavamo, piuttosto che aspettare la fine difendendoci nella propria area. Ebbi la sensazione che i calciatori non aspettassero altro che sentire queste parole. La vittoria più importante è stata quella di Palermo, quando abbiamo sorpassato il Milan. Ho capito che potevamo arrivare fino alla fine, che avevamo rimesso l’osso in bocca. E che togliercelo sarebbe stata dura».
Si arriva anche in finale di Coppa Italia contro il Napoli, ma gli azzurri sono molto più motivati dei bianconeri e la partita non ha storia.
Conte, il condottiero, il martello, va all’assalto del bis e della Coppa dei Campioni. Per la prima volta, dopo 18 anni, in ritiro non c’è Ale Del Piero. Il capitano, infatti, non rientrando nei piani dell’allenatore leccese, emigra in Australia. Ritorna Giovinco dal prestito, arrivano dall’Udinese Isla e Asamoah. Ma il colpo grosso è costituito da un giovinotto francese, detto il Polpo. Paul Pogba è il suo nome e sarà lo spacca campionato. Si parte con la conquista della Supercoppa italiana a spese del Napoli, coi partenopei che non si presentano per la cerimonia di premiazione. Lo scudetto viene vinto in carrozza, mentre in Europa le cose non andranno così bene. Si battono i Blues allo Stadium, ma il Bayern elimina la Vecchia Signora con una doppia vittoria per 2-0. «Qualche problema all’inizio c’è stato. Anche se facevamo buoni risultati la squadra non esprimeva sempre i nostri concetti di gioco e abbiamo avuto anche fortuna in certi casi. Ma appena siamo rientrati nella giusta dimensione, abbiamo vinto uno scudetto a ritmi da record. In Champions abbiamo avuto la sfortuna di incontrare il Bayern nei quarti. In Europa è difficilissimo e alla vittoria finale devi arrivare per gradi, con pazienza, attraverso un progetto vincente e il nostro lo è».
Estate 2013: con l’arrivo di Fernando Llorente e Carlos Tevez, Conte cambia nuovamente volto alla squadra. La BBC è sempre sugli scudi, ma questa volta c’è un attaccante di razza in mezzo all’area. Ma è Carlitos che farà la differenza con una stagione strepitosa condita da 21 reti. Continua la crescita di Vidal che metterà insieme ben 18 realizzazioni, le stesse di Fernando. Ancora una Supercoppa italiana, con un roboante 4-0 in casa della Lazio. Ancora uno scudetto vinto, con tanto di record di punti (102) per il campionato a 20 squadre. «Il nostro obiettivo era vincere lo scudetto, ma dopo la certezza matematica abbiamo fatto di tutto per raggiungere questo incredibile traguardo», dice un raggiante Conte.
Purtroppo, le note dolenti arrivano dalla Coppa Campioni. La Juve non supera ai gironi anche a causa della sconfitta contro il Galatasaray, su un vergognoso campo arato dalle ruspe turche. Retrocessi in Europa League e sconfitti in semifinali contro il Benfica. L’impressione generale è che, per inseguire un effimero record, Conte abbia snobbato la competizione che avrebbe visto disputare la finale proprio allo Stadium.
E si arriva al triste epilogo. Dopo due giorni di ritiro Conte abbandona il ritiro e la Vecchia Signora. «Non si può mangiare in un ristorante da 100 euro con soli 10 euro i tasca», solo le rabbiose parole di commiato, in netto contrasto con la società, rea (a suo parere) di non mettergli a disposizione una squadra competitiva. Peccato che Allegri, il suo successore, con la stessa squadra sfiorerà la vittoria in Coppa Campioni, perdendo immeritatamente la finale contro il Barcellona.
Ma questa è tutta un’altra storia.
 


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