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Gli eroi in bianconero: Antonio CABRINI

di Stefano Bedeschi

Si è imposto subito come un ottimo terzino moderno: le sue qualità apparvero talmente evidenti, che anche in un club come la Juventus, rispettoso della tradizione e, soprattutto, delle gerarchie, decisero che sarebbe stata follia rinviare il lancio di quel giovanotto dal volto d’attore e dal fisico di atleta. La vita juventina di Antonio Cabrini inizia ufficialmente alle quindici di domenica 13 febbraio 1977 a Torino. L’incontro, con la Lazio, è vinto per 2-0 dai bianconeri. Buon auspicio, del resto anche quello era un anno scudetto. 7 partite e 15 nel campionato successivo, tutte giocate ad altissimo livello. Quando la stagione del Mundial di Buenos Aires si apre, Enzo Bearzot decide che Cabrini avrebbe fatto parte della comitiva azzurra. E così, il debutto in azzurro avviene nella più famosa ribalta del mondo.
Cabrini è nato l’8 ottobre 1957 nella fattoria dove, da 200 anni, vive la sua famiglia, fra i paesi di Casalbuttano e Casalverde, a pochi chilometri da Cremona. Il nome della cascina è singolare: Mancapane, perché, si dice, in tempi remoti, una volta al mese, arrivava il gabelliere per riscuotere le tasse e gli abitanti protestavano che mancava tutto, anche il pane. A 13 anni si trasferisce a Cremona, in casa di una nonna. Libri e gioco del calcio. Frequenta le medie, gli piacerebbe il diploma di perito agrario e arriva fino al penultimo anno quando l’impegno nel calcio diventa totale. Il futuro campione del mondo gioca nel San Giorgio, squadra di Casalbuttano. Poi il salto nelle giovanili della Cremonese.
«Mi sono presentato da solo, avevo 14 anni. Cercavano ragazzini, quel giorno eravamo una cinquantina. C’erano diversi allenatori, fra i quali Nolli, ex giocatore della Sampdoria ai tempi di Baldini. È stato il mio vero scopritore, lui mi ha creato come giocatore. Inizialmente giocavo all’attacco, ala sinistra. Negli allievi c’era bisogno di un terzino e Nolli mi mise lì».
Il football, allora, era ancora soltanto un gioco, ma presto sarebbe arrivato il debutto in Serie C: «Fu a Empoli, cercavamo un punto, mi resi conto che in questo mestiere c’era da lottare, ma potevo starci».
Tre anni con la Cremonese allenata da Titta Rota, poi l’Atalanta, in Serie B: 35 ottime partite e un goal.
Cabrini era in comproprietà con la Juventus che, a fine stagione sborsò, senza batter ciglio, i 700 milioni per il riscatto.
E in bianconero l’ascesa è rapida: la maglia da titolare, le convocazioni nelle Nazionali giovanili, l’ingresso nel Club Italia.
«Ho un carattere abbastanza espansivo e aperto, per cui non ho avuto difficoltà di ambientamento a Torino e non ho mai avuto problemi di solitudine; per questo devo ringraziare Tardelli e Scirea, due ragazzi straordinari con i quali ho legato tantissimo, sin dai primi giorni del mio arrivo alla Juventus. Non ho avuto nessun problema nemmeno in Nazionale; al mio esordio, in Argentina, i 9/11 della squadra erano bianconeri, quindi avevo la sensazione di giocare ancora nella Juventus».
È l’idolo delle teenager, elegante di un’eleganza alla moda, un po’ casual, forse un po’ vistosa e così, nelle rare partite mediocri, allo stadio, qualcuno lo chiama “Uomo Vogue”.
Nessuno lo discute come giocatore: è diventato The best in the world, più bravo dell’argentino Alberto Tarantini, più bravo del brasiliano Leandro.
Non beve, non fuma, ama leggere, soprattutto Hemingway; gli piace la musica, più leggera che classica, e apprezza Bob Dylan; al cinema lo hanno incantato Jacqueline Bisset e Robert De Niro.
Qualcuno gli ha anche suggerito di fare l’attore, con quel volto da bello dello schermo. Un giorno avrebbe sospirato: «Sarebbe bello girare un film sotto la regia di Ingmar Bergman».
Gira il mondo con la Juventus, ma nel cuore gli rimarrà sempre la sua fattoria e a Cremona corre appena può.
Quando decide di mettere su famiglia, conferma di essere oramai maturo. In campo il rendimento è sui livelli più alti: gli affondo verso la porta avversaria appaiono incontenibili.
«Per me il calcio è un fatto anche dinamico. Anzi, è soprattutto un fatto dinamico. Io non sarò mai un tattico», ha spiegato.
Ma quando gli viene chiesto di seguire le consegne, lo fa con scrupolo. Pochi si accorgono che accarezza il pallone, soprattutto con il sinistro. Come Sivori, del resto, o Puskás.
Un grandissimo, da primi cinque di ogni epoca nel suo ruolo; sa mettere il silenziatore ad ali veloci e temute, spingersi avanti e rifornire di cross gli attaccanti e, alla bisogna, è frequentemente in grado di risolvere personalmente l’incontro, sia di testa, eccellente tempismo ed elevazione fuori dal comune, sia su calcio piazzato, sia con ciabattate da fuori.
Una continuità di rendimento impressionante, fu fuori fase solo dopo il Mundial argentino; non seppe, infatti, reggere l’impatto con l’improvvisa fama.
Stuoli di ragazzine lo avevano eletto loro idolo, al punto che il Trap non esitò a rispedirlo in panchina; rischiò di perdere il posto anche in Nazionale (la concorrenza non era affatto male, Maldera, Baresi e, soprattutto, Nela).
Superato il momentaneo sbandamento, ritornò a essere il miglior esterno sinistro al mondo in quegli anni, nonostante gli antagonisti: l’inglese Sampson, il brasiliano Junior (bravissimo, ma in realtà centrocampista, dirottato sulla fascia solo perché quel Brasile aveva un numero impressionante di centrocampisti di grande valore: Socrates, Falçao, Cerezo, Batista e Dirceu), il francese Bossis, il belga Renquin, il tedesco Briegel (il grandissimo Breitner era stato oramai dirottato in mezzo al campo, per mere ragioni anagrafiche).
Tutta gente di assoluto valore ma che non poteva competere con Cabrini nel ruolo di esterno.
Con la Juventus totalizza 440 presenze con 52 goal. Vince tutto: oltre al Mondiale 1982, 6 scudetti, 2 Coppa Italia, una Coppa Campioni, una Coppa delle Coppe, una Coppa Uefa, una Coppa Intercontinentale, una Supercoppa Europea.

VLADIMIRO CAMINITI
Quel terzino casalese che aveva convogliato su di sé tutte le nuvole e tutte le stelle, che il calcio concepì primigenia passione, senz’altro che il calcio così da morire sboccando sangue per un match fra scapoli e ammogliati che fu Caligaris, ha avuto per me il suo seguito ideale in un cremonese bello come il sole, di nome Cabrini.
Caligaris si agitava con il suo fazzoletto bianco attorno alla fronte, anticipando oniricamente le soluzioni tattiche che Cabrini, ex attaccante, avrebbe realizzato in modo perfetto, sgusciando in dribbling sull’out, andando al tiro anche in mischia, con quel piede sinistro versatile e acrobatico.
Un  puro giovane, tal da stupirsi, appena iniziata a Bologna la carriera di direttore sportivo, di vedere certe scene al mercato, di ragazzi di vent’anni con i loro genitori al seguito a caccia di un qualsivoglia ingaggio.
Cabrini ha scritto una favola e l’ha vissuta interamente. Prima di sposare Consuelo, tutte le ragazze d’Italia l’hanno amato, senza essere divo l’hanno divinizzato, come ideale di uomo e di calciatore. Molto vero.
Ha occupato nella Juventus e in Nazionale un ruolo spesso nevralgico, dalle sue incursioni e dai suoi tiri molte partite hanno trovato soluzione.
Mi rivedo in quello che è il palcoscenico culminante della sua carriera, il bianco stadio Bernabéu la sera magica della finale per il titolo di Campione del Mondo fra Germania e Italia.
È l’11 luglio 1982. Tutti i nodi vengono al pettine, ma c’è un momento di viva tensione, di accoramento, di lacrime; appartengono a Cabrini, che manca un calcio di rigore, e le squadre vanno al riposo sullo 0-0.
Come andrà a finire? Nel miglior modo, siamo Campioni del Mondo e con tutti i meriti del gioco. La squadra si è superata, Cabrini ha confermato la sua classe alata.
Un terzino di ostruzione sempre sprigionante anticipo ed eleganza, che diventa ipso facto terzino di costruzione, il più ispirato e incisivo dell’intera storia della pedateria italica. Forse, come eclettismo, il massimo, anche a paragone del più potente e lineare Facchetti.
Poi l’uomo. Tornito dentro e fuori come un capolavoro, un ragazzo sentimentale, un esteta che ha sempre rifuggito da ogni atteggiamento forzato, il più bello juventino di un ciclo insuperabile, un Rodolfo Valentino del calcio senza le falsità e le angosce del divo per forza.

NICOLA CALZARETTA, DAL “GS” DELL’APRILE 2013
Una grande macchia azzurra colora Coverciano, tra rappresentative Under delle varie categorie e quella femminile, allenata dal maggio 2012 da Antonio Cabrini. L’appuntamento con lui è nella hall. Scegliamo un angolino nello stanzone dietro al bar, dopo un bel caffè. Cabrini è in grande forma. Solare e sorridente. Ha accettato con entusiasmo la proposta della Federazione di guidare la Nazionale rosa, dopo aver fatto l’osservatore per Cesare Prandelli. Non poteva essere altrimenti: il Bell’Antonio Commissario Tecnico della Nazionale delle ragazze, un cerchio che si chiude. «A parte le battute, mi sento allenatore, come mentalità. Ho fatto anche il Direttore Sportivo appena chiuso con il calcio giocato, ma quella era una vita che non faceva per me. Mi piace allenare, insegnare, guidare un gruppo. Questa è una bella opportunità e ringrazio la Federcalcio per avermela offerta».
Esperienza ne ha, avendo giocato ad altissimi livelli per una vita intera. Ma oggi siamo qui per parlare dei suoi trascorsi di calciatore. Gli mostro un libro sulla Juve e lui va subito a controllare il suo palmares. Ci sono degli errori? «Non mi sembra. Ci sono gli scudetti e tutte le coppe internazionali. In verità lo guardo per ricordarmi cosa ho vinto (ride)».
– Hai vinto molto. «Con quella squadra lì era impossibile non vincere. Eravamo quasi tutti nazionali. Nel 1978, ai Mondiali in Argentina, siamo stati anche nove su undici. Ognuno di noi era un leader nel suo ruolo. E la nostra forza, spesso, la leggevamo nei volti degli avversari».
– Cosa dicevano quei volti? «C’era preoccupazione, alcune volte paura. Vedevi questo timore e di qua ti sentivi ancora più convinto, la partita era già vinta ancora prima di giocarla. La stessa soggezione che si ha quando entri perla prima volta in certi stadi, per esempio a San Siro».
– Tu hai avuto paura? «Ero emozionato, certo. Spaventato no. Diciamo che la maglia della Juve stempera molte tensioni. Indossare il bianconero è una bellissima corazza che ti protegge da tutto e ti dà le giuste motivazioni per vincere. Sempre».
– Tu quanto tempo hai impiegato ad assorbire la mentalità vincente? «Pochissimo. Ho capito in fretta dove ero e cosa mi veniva richiesto. C’era molto istinto da parte mia, il feeling è stato immediato. Ovviamente sono stato aiutato, anche perché quando sono arrivato alla Juve ero veramente un ragazzino».
– Non avevi ancora compiuto i diciannove anni. Era l’estate 1976. «È così. Boniperti mi aveva preso già l’anno prima, dopo il mio primo vero campionato in Serie C con la Cremonese. Mi aveva segnalato Vycpalek, osservatore della Juve. Ricordo che a fine stagione Luzzara, il presidente grigiorosso, mi disse: “Ti abbiamo venduto alla Juventus, ma il prossimo anno andrai a Bergamo”. All’epoca ero così: Cremonese e Atalanta erano molto legate alla società bianconera. Era giusto che io facessi esperienza in B. E stato un anno molto positivo e a fine campionato sono andato subito a Torino».
– Quando hai incontrato per la prima volta Giampiero Boniperti? «A Villar Perosa, durante il ritiro, per il mio primo contratto. Boniperti arrivava alle otto di mattina. In sette ore sistemava tutti i contratti. Oggi ci vogliono sette mesi. Andava in ordine alfabetico, partiva da Alessandrelli e finiva con Zoff».
– A te è toccato presto, allora. «Sì, in mattinata. Entro nella stanza dove c’è anche il dottor Giuliano. Mi metto a sedere e, pronti via, Boniperti prende una foto e mi fa: “Chi sono questi?”. Ed io: “Quelli del Torino”. “Se arriviamo un’altra volta dietro questi qua, non contiamo un c...o. Arrivare secondi alla Juve è come avere perso, ricordatelo”. Questo il messaggio di benvenuto».
– E il contratto? (risata) «Mi disse: “Firma qui”. Firmai. Durata dell’incontro: tre minuti e mezzo. Ah, ovviamente la cifra non c’era».
– Ricordi di quanto fu il tuo primo ingaggio? «Credo dodici milioni e il mio primo acquisto fu una BMW 316. Comunque, prima di uscire dalla stanza, Boniperti mi disse: “Non preoccuparti, a fine stagione sarai contento”. Alla Juve c’erano dei bei premi. All’epoca era in uso dare un tot a punto, oltre a una cifra robusta in caso di scudetto o coppa. Più vincevi, più guadagnavi. Boniperti era avanti, i contratti legati ai risultati li faceva già negli anni Settanta. Un grandissimo presidente».
– Mai avuto screzi con lui? «Mai. Con Boniperti il rapporto è stato meraviglioso. Aveva legato anche con mio padre, in fondo le radici erano comuni: la terra. Mio padre aveva un’azienda agricola. Una volta invitai tutta la squadra alla nostra cascina a Cremona. Facemmo una grande merenda. Venne anche il presidente e, a un certo punto, comparve perfino Ugo Tognazzi. Un pomeriggio fantastico».
– Quali erano i punti di forza di Boniperti? «Intanto le fondamenta: la famiglia Agnelli. Boniperti ha avuto la fortuna di avere basi solide e l’Avvocato quella di scegliere il miglior dirigente sportivo. Boniperti aveva mentalità vincente, grinta, grande competenza tecnica, juventinità, carisma. E il suo passato di calciatore gli consentiva di capire noi. Certo, era un tipo intransigente, faceva le bucce a tutti, specie ai giovani. Ma sapeva dare il consiglio giusto. Ah, dimenticavo una cosa. La capacità progettuale. A partire dal totale rinnovamento del 1970, ogni stagione c’era l’inserimento di un giovane. Gentile, Scirea, Tardelli, io. L’anno dopo Fanna e Virdis, quindi Brio. Idee chiare e grande prospettiva, non è da tutti».
– Hai un ricordo tutto tuo del presidente? «Tra i tanti ce n’è uno, per me molto significativo. A metà anni Ottanta mi operai a un ginocchio. Appena dimesso dall’ospedale, per prima cosa Boniperti mi rinnovò il contratto. Un gesto che va aldilà degli aspetti materiali e che dà il senso di quali valori ci fossero in quell’ambiente».
– E uno degli esempi dello Stile-Juve? «Certamente. Perché quella era la cifra di comportamento tipica di quella società. Che aveva alle spalle la famiglia Agnelli. E tu che indossavi la maglia bianconera dovevi essere così, ti sceglievano soprattutto se possedevi certi valori. Per questo per me lo Stile-Juve vuol dire essere un eletto».
– Non abbiamo ancora parlato di Giovanni Trapattoni. «Il Trap è stato il completamento dell’opera, iniziata molti anni prima quando Boniperti scelse il povero Armando Picchi. Con Trapattoni si è creato un connubio vincente. Ricordo che Boniperti ci diceva: “Se venite a lamentarvi, sappiate che noi stiamo sempre con l’allenatore”. Il confronto tra loro era costante. E non è un caso che nei suoi dieci anni sulla panchina bianconera, la Juve abbia vinto tutto, specie all’estero».
– E per te cosa ha significato Trapattoni? «Mi ha insegnato a calciare di destro. Alla fine dell’allenamento, mi prendeva con sé e stavamo sul campo parecchio. Lui ed io. Il pallone e il muro. I primi mesi alla Juve li ho passati così. E giuro, non mi è mai pesato».
– E poi? «E poi stato l’allenatore che mi ha lanciato, che mi ha fatto crescere sotto tutti i punti di vista. Un maestro. E un martello. Non mollava mai la presa, parlava molto con i giocatori. Ogni sabato, in ritiro, faceva il giro delle camere. Ti faceva il film della partita. “Mi raccomando domani fai così, succederà questo, tieniti pronto a quest’altro”».
– Hai parlato di camera: chi era il tuo compagno nei tuoi primi tempi in bianconero? «Beppe Furino, un altro juventino fino all’osso. Anche lui è stato fondamentale con i suoi insegnamenti, non sulla tecnica (ride); piuttosto i tempi degli inserimenti, le marcature, le diagonali. E qualche dritta sul comportamento, sia fuori che dentro il campo».
– Era Furino il leader dello spogliatoio? «Per certi versi sì. Ma leader era anche Dino Zoff. O lo stesso Bettega, che era intelligente, sveglio e il più cattivo in campo. Durante le partitelle erano scintille, siamo arrivati anche a scontri duri, in fondo erano tanti i personaggi di spicco. Ma la forza di quella squadra era che ogni cosa rimaneva all’interno dello spogliatoio».
– Ma allora la regola aurea che per vincere bisogna essere un gruppo di amici non è sempre vera. «Non credo che esistano regole fisse. Ti posso dire come funzionavano le cose da noi. Eravamo legati, senza dubbio, nel rispetto delle proprie personalità, del carattere, dell’età».
– Tradotto? «C’erano due tronconi. I giovani, quelli dal 1953 in giù, e i senior. Scirea era l’ago della bilancia: stava un po’ con noi e un po’ con gli anziani. Un grande, Gaetano, sempre calmo e serafico. Negli anni successivi ha iniziato a fare coppia fissa con Bodini, li chiamavamo Stanlio e Ollio, perché, nel loro modo, erano buffissimi».
– Ma Scirea si è mai arrabbiato? «Non succedeva spesso, ma quando si incavolava, aiuto. Erano cinque minuti di fuoco. E accaduto qualche volta in allenamento, meno spesso in partita. Capitava quando non si sentiva sicuro dei compagni e percepiva imminente il pericolo».
– Torniamo al gruppo, o meglio ai due tronconi. «Ci si divertiva, com’era normale che fosse per dei ventenni, ma senza sgarrare. Boniperti era uno al quale non sfuggiva niente. Io stavo tutto il giorno con Tardelli, abitavamo nello stesso condominio (trovato da mio padre) in Corso Trapani: lui al quarto piano, io al secondo. Sono stati tempi bellissimi, sempre insieme: colazione, pranzo e cena».
– E il dopo cena? (ride) «Torino non offriva molto. Si passavano le serate a casa, qualche festa tra amici. Ma non abbiamo mai passato certi limiti. Anche noi giovani eravamo ben consapevoli delle regole. Io, per esempio, non bevevo, né fumavo. Non lo nego, avevamo due soldi, eravamo bei ragazzi, ambiti, talvolta ne abbiamo approfittato».
– Ne parlavate l’indomani nello spogliatoio? «No. Le avventure erano condivise solo tra i protagonisti. Per il resto, vigeva la regola del segreto. Cosa che applico anche oggi. Su certi argomenti, non trovo giusto a distanza di anni andare a rimestare. Hanno fatto parte della tua vita, di un momento ben preciso e stop».
– Tra gli anziani, oltre a Furino tuo compagno di camera, chi ricordi con particolare affetto? «Roberto Boninsegna. Io lo adoravo. Anche lui era appena arrivato alla Juve e per noi ragazzi è stato un punto di riferimento importante. Ci invitava spesso a casa sua a mangiare, ci dava consigli, ci ascoltava. In campo ci proteggeva: gli scatti più impegnativi che gli ho visto fare servivano per andare a difendere il compagno in difficoltà. Poi c’era Dino Zoff, una persona sensibile e attenta. Ma anche spiritoso. Ricordo che quando si facevano le serie di tiri in allenamento, ogni sua parata era accompagnata da una presa in giro».
– Che bilancio fai del tuo primo anno alla Juventus? «Meglio di così! Scudetto record a cinquantuno punti e Coppa Uefa, il primo trofeo internazionale per la Juve. Io debutto a febbraio, gioco anche in Europa, faccio parte dell’Under 21. Una stagione bellissima. Su questa scia abbiamo costruito le vittorie degli anni successivi».
– Qual era il segreto? «Quella Juve lì, oltre a essere fortissima dal punto di vista tecnico, era una squadra granitica, mentalmente inattaccabile. E poi c’era la coppia Boni-Trap e la loro sete di vittoria. Il presidente, nello spogliatoio di Bilbao, con la coppa in mano che dice: “Ragazzi, basta festeggiare. Ricordatevi che domenica c’è la Sampdoria, io voglio vincere anche lo scudetto”. E Trapattoni non era da meno. La partita era appena finita: “Bravi, abbiamo vinto, ma ora scordatevi tutto, perché domenica c’è un’altra battaglia”. Secondo me qui sta il segreto della continuità».
– E veniamo alla stagione 1977-78, quella che ti ha portato ai Mondiali d’Argentina. Credevi che saresti diventato titolare? «No, sapevo di essere considerato, percepivo un clima di fiducia. E di natura sono un ottimista».
– Qual è stata la prima spia che le cose stavano cambiando? «In verità il primo segnale si era già verificato l’anno prima, in occasione del mio debutto con la Lazio. Quella domenica mancava Gentile. La soluzione più logica sarebbe stata quella di sostituirlo con Spinosi, che era la prima riserva. Invece Trapattoni mise dentro me. Fu una precisa scelta tecnica».
– Questa è la base di partenza per il tuo decollo. Tu cosa ci hai messo di tuo? «Ho messo dentro un miglioramento continuo. Dovuto a quattro motivi».
– Partiamo con il primo. «La grandissima concentrazione. Ero sempre sul pezzo. La testa è stata la mia vera forza. E poi la convinzione di iniziare a essere una pedina fondamentale e non solo un rincalzo».
– Secondo. «Il rapporto con l’allenatore. Trapattoni, specie con i giovani, ha una marcia in più. In quel secondo anno si è preso cura di me al cento per cento. Anche perché aveva in mente un nuovo assetto tattico che io, con le mie caratteristiche, gli potevo garantire».
– Immagino che qui ci stia il terzo motivo. «Sì. Io coprivo tutta la fascia, avevo facilità di corsa e tecnicamente, con la cura del destro, ero cresciuto moltissimo. Mi rendevo conto che avevo delle doti particolari, forse uniche. Ma la cosa più bella è che mi veniva tutto naturale, non ero impostato, era istinto».
– E pensare che da piccolo giocavi all’attacco. «Fu Mister Nolli a cambiarmi posizione quando ero negli Allievi della Cremonese. All’inizio non fui per niente contento, anche perché a me piaceva fare goal, ma lui mi disse che in quel ruolo li avrei raggiunto grandi traguardi. Ha avuto ragione. Mi piace ricordare Nolli e i tempi della Cremonese, anni bellissimi. Pensa che nella squadra c’erano Gozzoli, De Gradi, Azzali, Malgioglio, Cesare Prandelli: tutta gente che è arrivata ai massimi livelli».
– Manca l’ultimo motivo alla base della tua esplosione. «Il divertimento: per me il calcio è sempre stato un gioco. I soldi hanno avuto il loro peso, ma mai superiore alla passione e alla gioia che mi dava giocare».
– E un bel giorno arriva Enzo Bearzot. «Il Commissario Tecnico mi convocò nell’Italia Sperimentale, che a Verona, a fine aprile 1978, avrebbe fatto un’amichevole con la Lega scozzese. Giocai tutta la partita e feci bene. A fine gara Bearzot mi prese da parte e mi disse: “Tieniti pronto perché ti porto in Argentina, ma non dire niente a nessuno”. Mi si chiuse lo stomaco, ero felicissimo, ma mantenni il silenzio assoluto. Fino al giorno delle convocazioni».
– Sapevi anche che avresti debuttato al Mondiale? «No, anche se la spinta al rinnovamento era forte. La Nazionale era sotto assedio. Per me la svolta ci fu con la partita contro il Deportivo Italiano, a pochi giorni dal Mondiale. Entrai nel secondo tempo al posto di Maldera e, dall’allenamento successivo, nei vari schemi da provare, nel ruolo di terzino sinistro c’ero io».
– E così il 2 giugno 1978 debutti in Nazionale, addirittura in un Campionato del Mondo. «Seppi tutto due giorni prima della gara. Bearzot me lo disse, senza la necessità di tante parole. Io mi sentivo pronto, sia mentalmente che fisicamente. Mettiamoci anche un po’ di incoscienza dell’età. Debuttai, e feci un bel Mondiale. Lì in Argentina è nato il trionfo di quattro anni dopo».
– Già: 11 luglio 1982, Campioni del Mondo. A distanza di oltre trent’anni, cosa rimane? «La sensazione di aver fatto qualcosa di eccezionale, storico, unico. Specie per come eravamo partiti e per il trattamento che ci avevano riservato in molti. La Nazionale di Spagna è figlia di quella dell’Argentina. Meno potente ma più rapida, più cinica, più brillante».
– Quali sono le tue foto personali di quel trionfo? «Non il rigore della finale (ride). Piuttosto il goal contro l’Argentina. Sinistro di prima intenzione a incrociare sul palo più lontano. Uno dei miei gol più belli in Nazionale. E poi Sandro Pertini e il suo abbraccio a ciascuno di noi: ci ha dato l’esatta misura di quel che avevamo fatto. Che andava oltre l’ambito sportivo».
– Chiusa la parentesi azzurra, torniamo alla Juve. A un certo punto ti raggiunge in bianconero anche Cesare Prandelli. «L’amico di sempre, nonché il vero artefice del mio cambio di look nell’estate del 1983».
– Una scommessa? «Più o meno. Eravamo insieme dal parrucchiere e lui disse: “Tu decidi il taglio per me ed io faccio lo stesso con te”. Feci l’errore di far andare per primo lui, acconciatura normale. Poi toccò a me: e mi tolsero tutti i riccioli. Fu uno shock. Cesare è così, di scherzi ne ha sempre fatti».
– Aveva una vittima preferita? «Era Roberto Tavola, un altro dei mattacchioni che nell’estate del 1979 passarono dall’Atalanta alla Juve. Il top era Marocchino, lui era incontenibile. Tavola, invece, era condizionato da tutto. Ricordo sempre il giorno in cui Trapattoni gli consegnò la maglia con il numero dieci e lui: “Ma io non so se ce la faccio a portarla”. Ma come, porca miseria, il Mister ti dà la maglia da titolare e tu rispondi così?».
– E tu hai mai avuto paura della maglia bianconera? «Mai. Semmai me l’ha fatta pesare il Trap dopo l’Argentina».
– Perché, cosa successe? «Mi tenne fuori per le prime domeniche di campionato. Me la presi molto, caspita avevo fatto un Mondiale incredibile. Ma aveva ragione lui. In quel momento non ero all’altezza di giocare titolare. Il problema è che quando sei calciatore non riesci a valutare appieno le cose. In più c’è un dato statistico: chi ha giocato ai Campionati del Mondo paga pegno nella stagione successiva per almeno quattro-cinque mesi».
– Successe così anche dopo Spagna 1982? «In campionato sì. Facemmo meglio in Europa, a parte Atene».
– Eppure cerano anche Platini e Boniek. «Due fuoriclasse. Stratosferico Michel, era un piacere vederlo giocare. Zibì era devastante, ma non riusciva a capire come “regolarsi”».
– Siamo alle pillole finali: il tuo gol più bello con la Juve? «Goal-partita nel derby del 26 marzo 1979: collo pieno e pallone nell’angolino opposto. Il tutto a un paio di minuti dalla fine. Venne giù il Comunale. Al secondo posto, il goal scudetto due anni dopo, contro la Fiorentina: più di prenderla con il sinistro, mi avvitai in aria, ancora non so come feci».
– L’avversario più duro? «Odoacre Chierico, ai tempi della Roma. Era una finta continua, con lui ho durato fatica. Poi c’è Bruno Conti che passava da Gentile a me. È capitato spesso che le convocazioni in Nazionale arrivassero dopo Juve-Roma e che il duello, verbale, continuasse pure li, anche se ridotto a livello di scherzo».
– Tra le tante, quali sono le vittorie più significative con la Juve? «La Coppa delle Coppe perché venne subito dopo Atene. E poi l’Intercontinentale a Tokyo nel 1985. Alzai la Coppa da capitano perché Scirea era uscito».
– L’Heysel? «Una tragedia incancellabile. Era giusto non giocare, eravamo tutti frastornati. Siamo stati obbligati e, a quel punto, è stata partita vera, soprattutto da parte loro. Doveva essere una festa, è stata una sciagura».
– Perché nel 1989 hai lasciato la Juve? «Non l’avrei mai lasciata, qualche anno prima avevo rifiutato una buona offerta della Roma. Ma era finito un ciclo. Per me ci sarebbe stato un ruolo di secondo piano. Io, invece, volevo giocare e, d’istinto, scelsi Bologna».
– Ti è pesato andare via? «Molto. Dopo tredici anni. Ero arrivato ragazzino, me ne andavo via da adulto, con tutti i sogni realizzati. La Juve mi ha dato tanto ma credo di averle dato pure io, giocando oltre i limiti».
– Quando è successo? «Nella finale di Supercoppa Europea contro il Liverpool nel 1985, avevo il distacco della retina per una pallonata presa da Brio nella partita contro la Sampdoria. Il medico mi disse di stare fermo per un mese. “Non posso” rispondo io . Allora lui si raccomanda che non prenda il pallone di testa. Bene: prima palla, colpo di testa. Per non parlare del ginocchio sfasciato».
– Parliamone. «Ho giocato più di mezza stagione con le stecche d’acciaio a protezione del ginocchio. Il tutto coperto da una fasciatura color carne per non far vedere niente all’arbitro. Oggi non ti farebbero neanche avvicinare al campo! Per me questo era normale. Sopportavo il dolore, non volevo mollare. C’era la maglia, c’erano i tifosi. E c’era la Juve».
 


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