Gli eroi in bianconero: Antonio CABRINI
Antonio Cabrini si è imposto subito come un ottimo terzino moderno: le sue qualità apparvero talmente evidenti, che anche in un club come la Juventus, rispettoso della tradizione e, soprattutto, delle gerarchie, decisero che sarebbe stata follia rinviare il lancio di quel giovanotto dal volto d’attore e dal fisico di atleta. La vita juventina di Antonio Cabrini inizia ufficialmente alle 15:00 di domenica 13 febbraio 1977 a Torino.
L’incontro, con la Lazio, è vinto per 2-0 dai bianconeri. Buon auspicio, del resto anche quello era un “anno scudetto”. Sette partite e quindici nel campionato successivo, tutte giocate ad altissimo livello. Quando la stagione del Mundial di Buenos Aires si apre, Enzo Bearzot decide che Cabrini avrebbe fatto parte della comitiva azzurra. E così, il debutto in azzurro avviene nella più famosa ribalta dei mondo.
Cabrini è nato l’8 ottobre 1957 nella fattoria dove, da 200 anni, vive la sua famiglia, fra i paesi di Casalbuttano e Casalverde, a pochi chilometri da Cremona. Il nome della cascina è singolare: “Mancapane”, perché, si dice, in tempi remoti, una volta al mese, arrivava il gabelliere per riscuotere le tasse e gli abitanti protestavano che mancava tutto, anche il pane. A tredici anni si trasferisce a Cremona, in casa di una nonna. Libri e gioco del calcio. Frequentava le medie, gli sarebbe piaciuto il diploma di perito agrario ed arriverà fino al penultimo anno quando l’impegno nel calcio diventa totale.
Il futuro campione del mondo giocava nel San Giorgio, squadra di Casalbuttano. Poi il salto nelle giovanili della Cremonese.
«Mi sono presentato da solo, avevo quattordici anni. Cercavano ragazzini, quel giorno eravamo una cinquantina. C’erano diversi allenatori, fra i quali Nolli, ex-giocatore della Sampdoria ai tempi di Baldini. È stato il mio vero scopritore, lui mi ha creato come giocatore. Inizialmente giocavo all’attacco, ala sinistra. Negli allievi c’era bisogno di un terzino e Nolli mi mise lì».
Il football, allora. era ancora soltanto un gioco, ma presto sarebbe arrivato il debutto in serie C.
«Fu ad Empoli, cercavamo un punto, mi resi conto che in questo mestiere c’era da lottare, ma potevo starci».
Tre anni con la Cremonese allenata da Titta Rota, poi l’Atalanta, in serie B: 35 ottime partite ed un goal. Cabrini era in comproprietà con la Juventus che, a fine stagione sborsò, senza batter ciglio, i 700 milioni per il riscatto. Ed in bianconero l’ascesa è rapida: la maglia da titolare, le convocazioni nelle Nazionali giovanili, l’ingresso nel Club Italia.
«Ho un carattere abbastanza espansivo ed aperto, per cui non ho avuto difficoltà di ambientamento a Torino e non ho mai avuto problemi di solitudine; per questo devo ringraziare Tardelli e Scirea, due ragazzi straordinari con i quali ho legato tantissimo, sin dai primi giorni del mio arrivo alla Juventus. Non ho avuto nessun problema nemmeno in Nazionale; al mio esordio, in Argentina, i 9/11 della squadra erano bianconeri, quindi avevo la sensazione di giocare ancora nella Juventus».
È l’idolo delle teenager, elegante di un’eleganza alla moda, un po’ casual, forse un po’ vistosa e così, nelle rare partite mediocri, allo stadio, qualcuno lo chiama “Uomo Vogue”. Ma nessuno lo discute come giocatore: è diventato “The best in the world”, più bravo dell’argentino Alberto Tarantini, più bravo del brasiliano Leandro. Non beve, non fuma, ama leggere, soprattutto Hemingway; gli piace la musica, più leggera che classica, e apprezza Bob Dylan; al cinema lo hanno incantato Jacqueline Bisset e Robert De Niro. Qualcuno gli ha anche suggerito di fare l’attore, con quel volto da bello dello schermo. Un giorno avrebbe sospirato.
«Sarebbe bello girare un film sotto la regia di Ingmar Bergman».
Gira il mondo con la Juventus, ma nel cuore gli rimarrà sempre la sua fattoria, ed a Cremona corre appena può. Quando decide di mettere su famiglia, conferma di essere ormai maturo. In campo il rendimento è sui livelli più alti: gli affondo verso la porta avversaria appaiono incontenibili.
«Per me il calcio è un fatto anche dinamico. Anzi, è soprattutto un fatto dinamico. Io non sarò mai un tattico», spiega.
Ma quando gli viene chiesto di seguire le consegne, lo fa con scrupolo. Pochi si accorgono che accarezza il pallone, soprattutto con il sinistro. Come Sivori, del resto, o Puskas. Un grandissimo, da primi cinque di ogni epoca nel suo ruolo; sa mettere il silenziatore ad ali veloci e temute, spingersi avanti e rifornire di cross gli attaccanti e, alla bisogna, è frequentemente in grado di risolvere personalmente l'incontro, sia di testa, eccellente tempismo ed elevazione fuori dal comune, sia su calcio piazzato, sia con ciabattate da fuori. Una continuità di rendimento impressionante, fu fuori fase solo dopo il Mundial argentino; non seppe, infatti, reggere l'impatto con l'improvvisa fama. Stuoli di ragazzine lo avevano eletto a loro idolo, al punto che il “Trap” non esitò a rispedirlo in panchina; rischiò di perdere il posto anche in nazionale (la concorrenza non era affatto male, Maldera, Baresi e, soprattutto, Nela).
Superato il momentaneo sbandamento, ritornò ad essere il miglior esterno sinistro al mondo in quegli anni, nonostante gli antagonisti: l'inglese Sampson, il brasiliano Junior (bravissimo, ma in realtà centrocampista, dirottato sulla fascia solo perchè quel Brasile aveva un numero impressionante di centrocampisti di grande valore: Socrates, Falçao, Cerezo, Batista e Dirceu), il francese Bossis, il belga Renquin, il tedesco Briegel (il grandissimo Breitner era stato ormai dirottato in mezzo al campo, per mere ragioni anagrafiche). Tutta gente di assoluto valore ma che non poteva competere con Cabrini nel ruolo di esterno.
Con la Juventus totalizza 440 presenze con 52 goal. Vince tutto: oltre al Mondiale 1982, sei scudetti, due Coppa Italia, una Coppa Campioni, una Coppa delle Coppe, una Coppa Uefa, una Coppa Intercontinentale, una Supercoppa Europea.
IL RACCONTO DI VLADIMIRO CAMINITI:
Quel terzino casalese che aveva convogliato su di sé tutte le nuvole e tutte le stelle, che il calcio concepì primigenia passione, senz’altro che il calcio così da morire sboccando sangue per un match fra scapoli ed ammogliati che fu Caligaris, ha avuto per me il suo seguito ideale in un cremonese bello come il sole, di nome Cabrini. Caligaris si agitava col suo fazzoletto bianco attorno alla fronte, anticipando oniricamente le soluzioni tattiche che Cabrini, ex attaccante, avrebbe realizzato in modo perfetto, sgusciando in dribbling sull’out, andando al tiro anche in mischia, con quel piede sinistro versatile e acrobatico.
Un puro giovane, tal da stupirsi, appena iniziata a Bologna la carriera di direttore sportivo, di vedere certe scene al mercato, di ragazzi di venti anni coi loro genitori al seguito a caccia di un qualsivoglia ingaggio. Cabrini ha scritto una favola e l’ha vissuta interamente. Prima di sposare Consuelo, tutte le ragazze d’Italia l’hanno amato, senza essere divo l’hanno divinizzato, come ideale di uomo e di calciatore. Molto vero. Ha occupato nella Juventus ed in Nazionale un ruolo spesso nevralgico, dalle sue incursioni e dai suoi tiri molte partite hanno trovato soluzione.
Mi rivedo in quello che è il palcoscenico culminante della sua carriera, il bianco stadio “Bernabeu” la sera magica della finale per il titolo di Campione del Mondo fra Germania e Italia. È l’11 luglio 1982. Tutti i nodi vengono al pettine, ma c’è un momento di viva tensione, di accoramento, di lacrime; appartengono a Cabrini, che manca un calcio di rigore, e le squadre vanno al riposo sullo 0-0. Come andrà a finire? Nel miglior modo, siamo Campioni del Mondo e con tutti i meriti del gioco. La squadra si è superata, Cabrini ha confermato la sua classe alata.
Un terzino di ostruzione sempre sprigionante anticipo ed eleganza, che diventa “ipso facto” terzino di costruzione, il più ispirato ed incisivo dell’intera storia della pedateria italica. Forse, come eclettismo, il massimo, anche a paragone del più potente e lineare Facchetti. Poi l’uomo. Tornito dentro e fuori come un capolavoro, un ragazzo sentimentale, un esteta che ha sempre rifuggito da ogni atteggiamento forzato, il più bello juventino di un ciclo insuperabile, un Rodolfo Valentino del calcio senza le falsità e le angosce del divo per forza.
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