Gli eroi in bianconero: Antonello CUCCUREDDU
«Essere stati juventini è come aver fatto il bersagliere. Per tutta la vita resti tale. Perché una società come la Juventus non esiste, non ha riscontri come età, come ambiente, come tutto. Il suo stile, il rispetto reciproco, soprattutto l’impronta della famiglia Agnelli».
Scelse il più difficile, ma anche il più diretto modo di presentarsi alla Juventus. In una partita di Coppa Italia del settembre 1969 allo stadio Comunale torinese scese in campo con la maglia del Brescia e marcò così bene Luis Del Sol da impressionare la dirigenza bianconera. Era l’inizio della sua storia juventina che doveva portarlo a vincere, in dodici anni, sei scudetti, una Coppa Italia e una Coppa Uefa, totalizzando 434 presenze con trentanove goal. Un bottino che ricorda tuttora con affetto e gioia.
Terzino, mediano, mezzala, giocatore eclettico, alla Juventus arriva nella stagione 1969–70 ai tempi di Luis Carniglia, anche se a lanciarlo è Rabitti, dopo il licenziamento del tecnico argentino. Ricorda quel giorno come uno dei più belli: «La Juventus era malmessa in classifica, io debuttai a Cagliari, ci trovammo sotto di un goal, la gente urlava: “Serie B, Serie B”. Nel finale mi giunse fra i piedi la palla buona e infilai Albertosi. Quel goal rappresentò molto, fu una specie di trampolino per la Juventus che finì in bellezza il campionato».
Di goal importanti, comunque, ne ha realizzati tanti: Cuccureddu ricorda quello dello stadio Olimpico che consacrò la Juventus Campione d’Italia il giorno del disastro del Milan a Verona; i goal segnati contro il Magdeburgo in Coppa; un altro in Coppa Uefa l’anno del successo. In dodici anni passati alla Juventus, Cuccureddu ha avuto come tecnici: Carniglia, Rabitti, Picchi, Vycpálek, Parola, Trapattoni.
Ora ne parla, e allinea il povero Picchi a Trapattoni: «Non ci fu il tempo di valutarne appieno le doti e la personalità. Però una cosa è certa: Picchi era un allenatore giovane con idee nuove che capiva di calcio, che sapeva applicarlo, spiegarlo, che aveva un dialogo e, soprattutto, era pieno di umanità e sapeva esserti amico. Come Trapattoni, insomma, che non viveva all’ombra di Boniperti come sostengono i maligni. In primo luogo per una questione di personalità che Trapattoni ha e che ha sempre difeso, poi perché la Juventus non ha mai tolto e non toglie spazio a nessuno».
In Nazionale Cuccureddu gioca sedici volte: debutta a Varsavia contro la Polonia nel 1975, chiude in Argentina nella partita col Brasile per il terzo–quarto posto. Ancora oggi si domanda perché fu estromesso dal giro dopo il Mondiale del 1978. «Non discuto le scelte di Bearzot: certamente avrà avuto le sue ragioni. Però un discorsino mi avrebbe fatto piacere. In fondo il mio contributo l’avevo dato».
Il suo eclettismo, in fatto di ruoli e di compiti, lo sottolinea nella stagione 1975–76. Ricordava su “La Gazzetta dello Sport” Beppe Conti, che nella Juventus che eguaglia o fallisce di un soffio record prestigiosi, c’è Antonello Cuccureddu in possesso di un primato perlomeno curioso. In quel campionato ha giocato, infatti, con ben sette differenti numeri di maglia. Il due (Napoli, Roma, Bologna, Sampdoria e Perugia), il tre (Verona, Como, Fiorentina, Cagliari e Cesena), il quattro (Fiorentina), il sette (Como), l’otto (Verona), il dieci (Inter e Ascoli) e l’undici (Torino).
Mentre Cuccureddu cambia maglia in continuazione, restava in tribuna elementi del calibro di Altafini, Spinosi, Gentile, Gori, Damiani e lo stesso Capello, ai quali l’allenatore di volta in volta preferisce il sardo. Il suo passaggio da terzino d’ala a centrocampista avviene in seguito ad un infortunio occorso a Bob Vieri dopo una trasferta in Germania per un impegno di Coppa Uefa: «Da quel giorno entrai in pianta stabile; la mia impostazione tattica venne cambiata. I dodici anni che ho passato a Torino sono indimenticabili anche per questo».
I difensori lo cercano non appena possono evitare la respinta casuale e lui serve l’interno oppure l’ala tornante in linea con lui, rilancia il compagno che sfrutta le fasce con secche battute di collo, invita il centravanti a scattare verso l’area avversaria e scatta, a sua volta, negli spazi. Quello che pratica Cuccureddu è un gioco moderno e valido per lo spettacolo e il risultato. Le partite di Antonello sono novanta minuti di corsa sul passaggio obbligato del gioco avversario. Filtrare e ricostruire: non esiste fatica più improba; correre, perché si vuole e rincorrere, perché si deve; il cuore a stantuffo e i polmoni a mantice. Il vigore fisico gli consente di reggere la fatica della partita, il talento gli scopre gli orizzonti della bella giocata; sa alternare, con estrema disinvoltura, l’intervento risoluto e l’azione sciolta ed elegante.
Una delle sue prerogative è il tiro a rete, forte, teso, imparabile. I suoi calci di punizione sono carichi di dinamite. Come tiratore puro è il più forte della compagnia. I suoi calci di punizione sono carichi di dinamite. Cuccureddu tira delle vere e proprie bordate; il pallone parte dritto e non cambia mai traiettoria. I tiri di Cuccu sono onesti, non cercano di ingannare il portiere. Niente “foglia morta”, “tiro a giro” o “cucchiaio”. Il pallone parte dritto per dritto e il portiere non può fare altro che raccogliere il pallone in rete. «Finiscila di minacciare la mia incolumità!». Gli grida scherzosamente Carmignani, durante gli allenamenti.
Due aneddoti: nel 1973 la Juventus (pur sconfitta nella finale di Coppa Campioni) ha, grazie alla rinuncia dell’Ajax, l’opportunità di disputare la Coppa intercontinentale. Si gioca a Roma, contro l’Independiente di Buenos Aires: Sullo 0–0, la Juventus usufruisce di un calcio di rigore a favore per un fallo subito dallo stesso Cuccu. Il sardo tira una delle sue proverbiali cannonate, ma la palla sorvola la traversa; a un minuto dalla fine, su passaggio di un ventenne che avrebbe fatto strada, Daniel Bertoni, Bochini infila il goal decisivo, portando la coppa in Argentina.
Campionato 1980–81: è il passo d’addio di Antonello, che sa di dover lasciare a fine stagione la casa tanto amata. La partita è Pistoiese–Juventus, Cuccu sblocca il risultato con un missile su punizione; non fa alcun gesto di esultanza, solo un mezzo sorriso (scriverà Giglio Panza: «Raramente ho visto tanta serenità esteriore in un giocatore dopo un goal»). Quel mezzo sorriso, quel commiato così sottovoce, con una tenerezza e un affetto enormi, dimostra tutto l’uomo in un piccolo gesto.
Rientra alla Juventus agli inizi degli anni Novanta, come allenatore della squadra Primavera, con la quale vince il prestigioso Torneo di Viareggio e lancia alcuni giovani promettenti: Cammarata, Dal Canto, Manfredini, Binotto, Squizzi e, soprattutto, Alessandro Del Piero.
VLADIMIRO CAMINITI
Era il 1969 quando il direttore di “Tuttosport” mi spediva a intervistare al volo Antonello Cuccureddu, che sbarcava alle dieci di una sera di novembre alla stazione di Porta Nuova a Torino, proveniente da Brescia. Detto e fatto, e scrissi in quel mio articolo sul quotidiano al quale ho dedicato trentadue anni di vita, che approdava in bianconero un giocatore con un cognome davvero strano: «Cuccureddu nome da uccello più che da calciatore», scrissi. E poi da Juventus! L’esordio in prima squadra avvenne subito, a Cagliari, l’allenatore della Juventus era il mite orgoglioso Rabitti, di nome Ercole, da me soprannominato il piccolo monsù. In realtà, era più che altro un grande allevatore e maestro di giovani (tra le sue scoperte Furino e Bettega), come allenatore dei grandi gli facevano difetto polso e tranquillità psicologica; era insomma il primo a perdere la testa, soprattutto a contatto con i media televisivi. Oramai il grande calcio era anche televisione, con annessi e connessi, Rabitti disponeva dei suggerimenti di Boniperti oramai rientrato nella Famiglia e in procinto di assumerne la presidenza, ma non ascoltava nessuno. Cagliari-Juventus finì 1–1, il figlio di Sassari a pochi secondi dalla fine di un match molto combattuto (erano i giorni del guerriero Riva) infilò il pallone del pareggio.
Di snella presenza, dalla corsa molto alacre, Cuccu avrebbe giocato 298 volte in campionato, sessantasei in Coppa Italia, settanta volte nelle Coppe europee, testimoniando un eclettismo razionale con sventole di destro possessive e perentorie che lo portarono a risolvere molte partite cruciali. Forte e sicuro come terzino, diventava un “half” in grado di assolvere felicemente alle più ardue consegne tattiche: fu, infatti, come jolly valorizzato da Enzo Bearzot, che lo convocò tra i ventidue azzurri di quella mancata sfolgorante vittoria del Mundial d’Argentina. Della Juventus destinata a vincere tutto, subito protetta dallo stellone per le doti di corsa e di tecnica del suo collettivo, ispirata al vertice da un presidente geniale e imperativo come Boniperti, Cuccu diventava dunque il perno così detto mobile, giocatore buono per molti usi, anche stopper, in qualche circostanza, tenace nella marcatura, puntiglioso quanto corretto, con momenti di recitativo ispirati al suo piede destro che senza esagerare si poteva definire ciclonico.
Alla fine del campionato 1980–81, Cuccureddu lasciava la sua Juventus per la Fiorentina. Una decisione motivata soltanto dal desiderio di poter guadagnare ancora qualcosina in vista del futuro che non si può mai programmare. Perché negli anni Settanta, la “bonipertiana” Juventus, giunta a vincere tutto, mica arricchiva i suoi campioni, mica li blandiva o vezzeggiava; essendo campioni e per giunta juventini, quindi uomini veri.
ANGELO CAROLI
Antonello era un ragazzo adorabile, ma ne aveva sempre una. Andavo allo stadio per intervistarlo, lo incrociavo nello spogliatoio mentre si faceva curare da De Maria. Gli chiedevo come stava e lui, diventando serio, quasi triste mi rispondeva: «Ho un dolorino qui giù, anzi quassù». De Maria mi guardava e rideva, aggiungendo: «Sono tutte storie». E Cuccureddu scendeva in campo regolarmente. Un giorno, l’anno in cui Zoff arrivò alla Juventus, Antonello voleva lasciare il ritiro di Villar Perosa. Era giovanissimo e si era innamorato di un’adolescente. Aveva la borsa pronta, ma fu bloccato dall’amico Scanu, sardo come lui, il quale gli assestò un ceffone, accompagnato da questa frase: «Se non hai capito cosa vuol dire la parola Juventus, vattene pure a Torino, ma una volta abbandonato il ritiro, ricordati, non sarai più degno della maglia che ti è stata affidata». Antonello pianse, chi non ha pianto nella vita! E non lasciò più la “Signora”, finché non prese la strada per Firenze.
NICOLA CALZARETTA, DAL “GUERIN SPORTIVO” DEL LUGLIO 2017
In dialetto sardo, il termine “Cuccuru” sta per “cima della montagna”, promontorio, colle. E Cuccureddu è il monte sul quale si adagia la cittadina di Villacidro, nel Sud della Sardegna. Per gli amanti del pallone, e per il popolo bianconero in particolare, Cuccureddu è solo e soltanto Antonello, protagonista di tanta Juventus, dal 1969 al 1981: 434 presenze e trentanove reti, sei scudetti, una Coppa Italia e una Coppa Uefa. Un mutante di qualità, per tredici volte azzurro d’Italia, Mondiale d’Argentina otto compreso. Nato in Sardegna, ad Alghero per l’esattezza, il 4 ottobre 1949, cresciuto nella Fertilia tra i Dilettanti, esploso a diciotto anni nella Torres in C, quindi emigrato in continente a Brescia tra i cadetti per la stagione 1968–69. L’immediata promozione in A, la prospettiva di continuare con le “Rondinelle” anche l’anno dopo e invece, l’improvvisa chiamata della Juventus a campionato iniziato. Dodici anni di fila con il bianconero tatuato sulla pelle, quindi l’addio, non voluto. Tre anni alla Fiorentina, prima di chiudere con il Novara in C2 nel 1984–85 e intraprendere la carriera di allenatore. Le giovanili bianconere come prima esperienza con tanto di scudetto Primavera e Viareggio vinto insieme a un giovanissimo Del Piero e poi molta Serie C tra Crotone, Perugia e Grosseto, con alcune storiche promozioni. Adesso, se ne sta ad Alghero, intento alla prossima apertura della sua scuola–calcio. Ma, sempre e comunque, con la Juventus nel cuore.
Quando è nato il tuo amore per la Juventus? «Fin da bambino. Raccoglievo le figurine dei giocatori bianconeri. Amavo Boniperti, Sivori, poi anche Haller, ma avevo un debole per chi correva in mezzo al campo, come Luis Del Sol».
È stato grazie a lui che sei arrivato alla Juventus? «In un certo senso sì. Lo marcai durante la partita di Coppa Italia tra Juve e Brescia giocata al Comunale di Torino il 7 settembre 1969. Avevo il numero dieci. Ero emozionatissimo, giocavo contro giocatori che avevo visto in TV fino a pochi giorni prima. Con Del Sol fu un gran duello. Per un po’ mi stette dietro anche lui, poi si arrese perché io correvo più forte».
Sognavi di indossare la maglia bianconera da bambino? «Sognavo di diventare un calciatore. Era la mia passione. La scuola in inverno e i classici lavori stagionali d’estate. Ma su tutto il calcio. Si giocava dappertutto, nei campi, per le strade, in mezzo ai palazzi. Con i muri a fare da sponda. Sapessi quante cose si imparano così. Poi ho seguito mio padre Pino che allenava la Rinascita. Quindi mi ha portato con sé alla Fertilia. Avevo sedici anni, fisicamente ero messo bene, giocavo a centrocampo e avevo già un bel destro. Si vinse il campionato, da imbattuti. E su di me si posarono diversi sguardi interessati».
La spuntò la Torres che ti pagò due milioni. Era il 1967. «La Torres faceva la Serie C. Non mi sembrava vero, non avevo ancora diciotto anni e avevo alle spalle una sola stagione tra i dilettanti. Ero felicissimo. Feci il mio primo contratto, 150.000 lire al mese».
Come hai affrontato il salto di categoria? «Con una determinazione pazzesca. Sono sempre stato serio, ho sgarrato poco. Mi sono applicato, ascoltavo i consigli, mi fermavo anche dopo l’allenamento a calciare in porta, L’allenatore, Colomban, mi ha dato i primi insegnamenti tattici».
E a Brescia come ci sei finito? «(sorride) La Sardegna aveva scarsa visibilità, nonostante il Cagliari stesse facendo molto bene. Si doveva andare in continente, c’era poco da fare. Devo tutto a un torneo di fine stagione che si disputò a Treviglio, il paese natale di Facchetti. Mi vollero lì in prestito. Fui uno dei migliori di quella competizione. E gli osservatori del Brescia mi segnalarono».
1968, diciannove anni da compiere e giochi in Serie B. «Non mi sembrava vero: due anni prima ero in seconda categoria. Andai a Brescia per firmare il contratto ed era la prima volta in vita mia che prendevo l’aereo. La squadra era appena retrocessa dalla A e puntava all’immediato ritorno. Abitavo vicino allo stadio, insieme al nostro terzo portiere Renzo Restani. C’erano giocatori esperti come Gigi Simoni e Virginio Depaoli. L’allenatore era Arturo Silvestri detto Sandokan. Mi ha insegnato tanto. Era stato calciatore, sapeva correggere l’errore. Meglio se non sbagliavi però (sorride)… Io feci ventidue partite su trentotto, quasi sempre schierato a centrocampo. Giocai anche con la De Martino insieme a Gigi Cagni e vincemmo lo scudetto di categoria. Adesso c’era la Serie A. Iniziamo il ritiro, quindi la Coppa Italia e poi è arrivata la partita contro la Juventus».
E dopo quella partita che succede? «Succede che non ci capisco più niente. Non gioco più. Mi alleno più che mai, ma la domenica sto fuori. Nessuno mi dice nulla. E intanto il tempo passa. Fino a quando la società mi comunica che la Juventus mi vuole subito, alla riapertura del mercato di novembre. Non ho giocato perché altrimenti il passaggio a stagione in corso non si sarebbe potuto fare, visto che tutte e due le squadre militano nella stessa categoria».
Sensazioni? «Impossibile spiegare cosa ti succede dentro. Sollievo, stupore, incredulità. Ma soprattutto gioia, tanta, tantissima. Andavo alla Juventus, la mia squadra del cuore. La realtà, stavolta, aveva superato anche il sogno».
Qualcuno ironizzò sul tuo cognome. «A Brescia mi proposero di cambiarlo. A Torino ricordo Vladimiro Caminiti che scrisse nel suo primo pezzo: “Cuccureddu nome da uccello più che da calciatore”: Con Caminiti poi ci fu tempo dopo un episodio curioso. Lui amava la Juve e stravedeva per i siciliani, Furino e Anastasi su tutti. Con me, nelle pagelle, era sempre molto severo. Una sera, ospiti comuni di un club di tifosi, glielo feci notare. Da quella volta i voti migliorarono sensibilmente».
Che ricordi hai del tuo primo giorno da juventino? «Mi vennero a prendere alla stazione. Il giorno dopo andammo allo stadio. C’era un gruppetto di tifosi e qualche altro dirigente della Juventus fuori ad aspettarmi. Raggiungemmo lo spogliatoio. Era finito l’allenamento da poco, vidi i miei nuovi compagni. Ricordo Zigoni allo specchio a sistemarsi i capelli. A un certo punto uno dei dirigenti indicando una poltroncina, mi disse: “Ecco, quello è il tuo posto”. Io, in tutta quella situazione, non riuscii a spiccicare parola. Facevo dei cenni con la testa, il sorriso stampato in faccia, mentre lo stomaco ribolliva di emozione».
Poi sei andato in sede a firmare il contratto. «E ho incontrato per la prima volta Giampiero Boniperti che era stato appena nominato amministratore delegato della Juventus. Io sono stato il suo primo acquisto».
E per te, chi è stato Boniperti? «Il mio presidente, prodigo di consigli e che mi ha tenuto con sé dodici anni. Più in generale lui era la Juve. In tutto e per tutto. La passione, lo stile, ma soprattutto, la fame di vittoria. Ci sono due episodi che danno il senso del personaggio: il primo è relativo all’estate del 1976. Siamo a Villar Perosa, in ritiro precampionato. È il giorno dei rinnovi dei contratti. Tocca a me, chiedo un ritocco e lui mi fa vedere la foto del Perugia dell’anno prima, la squadra con cui si perse all’ultima di campionato, regalando così lo scudetto al Torino. Come a dire: e hai anche il coraggio di chiedere un aumento?».
Il secondo? «Maggio 1977, abbiamo appena vinto la Coppa Uefa, il primo trofeo internazionale della storia della Juve. Siamo felicissimi. Ma non si festeggia. Boniperti ci dice bravi, ma subito dopo ci ricorda che quattro giorni dopo ci aspetta l’ultima di campionato contro la Sampdoria. Novanta minuti decisivi, visto che il Torino è a un punto».
Torniamo ai tuoi primi passi bianconeri in quel novembre 1969. «La Juventus era terzultima. Era stato addirittura esonerato l’allenatore Luis Carniglia. Al suo posto c’era Ercole Rabitti, che veniva dal settore giovanile. Io non ebbi tempo di pensare a nulla che il 12 novembre ero già in campo, in Coppa delle Fiere, contro l’Hertha Berlino. Avevo il numero due e ricordo che giocammo con la maglia bianca».
Il 16 novembre 1969 giochi la tua prima in Serie A: a Cagliari! «Neanche a farlo apposta. Allo stadio c’era mezza Alghero a vedermi, tra amici e parenti. Avevo il dieci, la maglia era quella bianconera».
Ma la cosa ancora più incredibile deve ancora venire. «(sorride) Stavamo perdendo 1–0. I tifosi di casa, invece, ci urlavano “Serie B. Serie B”. Mancava un minuto alla fine. Corner per noi, Un difensore respinge di testa e il pallone arriva a me che sono appostato all’altezza del dischetto del rigore, un po’ decentrato. Botta di destro al volo senza pensare ad altro. Pallone in rete, Albertosi nemmeno ha visto partire il tiro. È il goal del pareggio definitivo».
La realtà, ancora una volta, ha superato l’immaginazione. «Proprio così! Anche se il giorno sui giornali c’era scritto “Cuccureddu malufigliu”. Ma vabbè. A noi, invece, quel pareggio colto all’ultimo minuto contro la prima della classe, dette una bella spinta: dopo facemmo sette vittorie consecutive».
Ma era comunque una Juventus non più competitiva. «Infatti nell’estate del 1970 Giampiero Boniperti con l’aiuto di Italo Allodi, ringiovanì la rosa. Furono cedute alcune bandiere come Leoncini, Castano, Del Sol. Arrivarono molti giovani tra cui Causio, Bettega, Spinosi, Capello. In più c’eravamo io, Furino, Anastasi, Giampiero Marchetti, Francesco Morini, tutti under venticinque. Gli unici ultratrentenni rimasti furono Sandro Salvadore e Helmut Haller».
A guidare la Juve baby fu chiamato un giovane allenatore: Armando Picchi, trentacinque anni. «Fu una magnifica intuizione della società. Picchi era stato il capitano della Grande Inter, sapeva di calcio, aveva un grande carisma e, soprattutto, sapeva dialogare con i giocatori. Una persona straordinaria, un allenatore che avrebbe fatto una grande carriera, se il destino non fosse stato così crudele con lui».
Come hai vissuto la malattia di Picchi? «All’inizio ci avevano tenuto nascosto la verità. Poi abbiamo capito e saputo. È stata moto dura, eravamo tutti molto giovani e con lui ciascuno di noi aveva già instaurato un bel rapporto. Non è stato facile. Ci hanno aiutato la società e il nuovo allenatore Vycpálek. Un uomo di una bontà unica. Sarebbe stato bellissimo conquistare la Coppa delle Fiere per poter dedicare la vittoria a Picchi. Arrivammo in finale con il Leeds, ma ci fregò la regola dei goal in trasferta che valgono doppio».
Come era quella tua prima Juventus? «C’era molto entusiasmo e molta tecnica. Tanti bravi ragazzi, diversi già nel giro delle Nazionali. Gente seria. E su tutti c’era Boniperti».
Prima hai detto gente seria? Proprio tutti? «(sorride). Ogni tanto qualcosa succedeva. Haller era un po’ anarchico. Come in campo. Correva il giusto e spesso mi toccava marcare anche il suo avversario. Ma è stato bellissimo giocargli a fianco. Un genio, si passava il pallone dal destro al sinistro con una rapidità mai vista».
Quella Juventus dei primi anni Settanta aveva molti giocatori di origini meridionali: tu, Causio, Anastasi, lo stesso Furino. «Per giocare nella Juve non bastava essere nati da Roma in giù (ride). Diciamo che a Torino c’erano tanti operai della FIAT che venivano dal Sud, forse era giusto che anche la Juve avesse questa caratteristica. Rispecchiava meglio l’anima della città. E poi, noi giocatori del Sud, con le nostre storie di sacrifici e rinunce, forse rappresentavamo una sorta di riscatto per i giovani che dovevano lavorare in fabbrica».
Come era il rapporto con i tifosi? «Era ed è ancora meraviglioso. Ho fatto più di 400 partite con la Juve, la mia maglia è al Museo. Poi ho anche allenato. Quando giocavo era meraviglioso stare in mezzo alla gente. A Villar Perosa, per fare le poche centinaia di metri che separavano l’albergo dal campo, ci si metteva una vita. Durante la stagione, lo stesso succedeva nel breve tratto di strada che separava il Comunale (dove ci spogliavamo) e il campo Compi dove facevamo allenamento».
Hai qualche storia particolare da raccontare? «Vicino allo stadio avevo conosciuto un parrucchiere, sardo come me e tifoso della Juve. Siamo diventati amici. Allora spesso andavo da lui per farmi lisciare i capelli che avevo un po’ crespi. Questo perché un po’ andavano di moda, un po’ per far star buono il presidente».
E dell’avvocato Gianni Agnelli che mi dici? «Un uomo dall’enorme carisma, molto curioso e ironico. Prima della partita, scendeva nello spogliatoio, si metteva da solo da una parte a bere, senza dire una parola. Poi se ne andava in tribuna. Non è mai successo che si sia intromesso nelle questioni tecniche».
Nel 1972 arriva il tuo primo scudetto. «Giocai poco per colpa della pubalgia. Una brutta bestia. Mi rifeci l’anno dopo. Alla Juve erano arrivati Zoff e Altafini. Si puntava anche alla Coppa Campioni. In panchina c’era ancora Vycpálek, colpito duro nel maggio del 1972 dalla morte del figlio in un incidente aereo. Anche questa fu una pagina molto dolorosa della storia della Juventus. Boniperti, che era anche amico del mister, gli stette molto vicino, così come tutta la società. Noi gli abbiamo voluto ancora più bene. Lo scudetto vinto all’ultimo minuto dell’ultima giornata è stato un segnale importante».
E tu in quello scudetto ci hai messo la sigla finale. «Avevo giocato con più continuità rispetto all’anno prima. Quasi sempre a centrocampo. Mi sentivo parte integrante della squadra. Arrivammo all’ultima giornata in programma il 20 maggio 1973 con un punto in meno rispetto al Milan capolista che ne aveva quarantaquattro e a pari merito con la Lazio a quarantatré».
Il calendario vi fa giocare tutte in trasferta: il Milan a Verona, la Lazio a Napoli e voi a Roma. «Il segreto è che ci abbiamo creduto. Non abbiamo mai mollato. Il “fino alla fine” che è diventato adesso il motto della Juve, vuol dire questo. Noi lo mettemmo in pratica».
Però al 45’ eravate sotto di un goal. «La scossa decisiva è arrivata proprio nell’intervallo, quando abbiamo saputo che i rossoneri stavano perdendo per 3–1. Allora ci siamo guardati in faccia e abbiamo detto: “Proviamoci’: Vycpálek mise subito dentro Altafini per Haller. Josè quell’anno aveva segnato diversi goal pesanti partendo dalla panchina».
E, come da copione, Altafini al 61’ pareggia. «E noi prendiamo coraggio sempre di più. Il Milan era oramai naufragato, la Lazio stava pareggiando. A tre minuti dalla fine, dopo un nostro calcio d’angolo, vedo un pallone vagante al limite dell’area, gli vado incontro. Stoppo e tiro una sassata di destro a occhi chiusi. Quando li riapro, sono sommerso dagli abbracci dei miei compagni. È’ il goal del 2–1. È il goal dello scudetto. Il Milan ha perso. La Lazio pure. Siamo campioni d’Italia, Festeggiamo e andiamo tutti ad abbracciare Vycpálek».
Manca la finale di Coppa dei Campioni in programma a Belgrado il 30 maggio 1973. «Che io giocai solo per pochi minuti, alla fine. Fu una delusione immensa. Avevo disputato tutte le partite del torneo, quasi sempre da titolare. Non c’erano motivi perché dovessi stare fuori nella gara più importante. La decisione definitiva fu presa la sera prima della finale, a mezzanotte. Qualcuno convinse l’allenatore che si sarebbe dovuto giocare con tre punte. Non lo avevamo mai fatto, non era la soluzione tattica migliore, contro l’Ajax poi. E così, per far entrare un attaccante, fecero uscire me».
E tu quando hai saputo della novità? «La mattina seguente. Me lo disse Vycpálek. Era dispiaciuto, quasi più di me. Ed io me ne andai in camera e mi misi a piangere. Quella è stata una delle note più amare della mia esperienza juventina».
Nella stagione successiva segni dodici goal in campionato. «Haller non c’era più, giocavo stabilmente come mezzala, La porta era più vicina, in più calciavo le punizioni e i rigori, anche se quello più importante quell’anno lo sbagliai».
Ti riferisci al penalty in Juventus–Independiente? «Giocammo per l’Intercontinentale al posto dell’Ajax. Finale unica, a Roma, 28 novembre 1973. Sullo 0–0 rigore per noi. Tiro io, ma il pallone va altissimo, lo stanno ancora cercando. Poi loro fanno goal, vincono per 1–0 e si prendono la coppa».
Toglimi una curiosità: perché eri tu il rigorista? In quella squadra c’era gente come Anastasi, Bettega, Causio. «Ricordo che facemmo una gara durante il ritiro estivo, sui dieci a chi ne segnava di più. Vinsi io, Tiravo forte al centro, a mezza altezza. Mi allenavo durante la settimana, anche sulle punizioni. Sapessi quante volte ho fatto incazzare Zoff che mi diceva di tirare più piano!».
1974, alla Juve arriva Parola e tu diventi stabilmente terzino. «Parola era un altro juventino vero, in perfetta sintonia con Boniperti, un babbo per noi giocatori. All’inizio della stagione ci propose alcuni cambiamenti. Era arrivato Scirea. Non c’erano più Salvadore e Marchetti. Lui mise Gaetano libero. Spostò Spinosi da terzino a stopper. Dette la maglia numero due a Claudio Gentile e a me disse di fare il terzino sinistro visto che gli mancava un difensore esterno».
Ti convinse quello spostamento? «A parte che nella Juve pur di giocare avrei fatto anche il portiere. Un anno, nel 1975–76, ho indossato quasi tutte le maglie, e all’epoca al numero corrispondeva il ruolo. Comunque il cambio mi convinse, anche perché il mio modo di interpretare il ruolo era moderno, scendevo molto sulla fascia. Io e Gentile siamo stati la prima coppia di terzini fluidificanti. E poi da difensore sono arrivato in Nazionale. E da terzino in maglia azzurra ho un ricordo bellissimo: il duello, vinto, con Kevin Keegan, nella partita dì qualificazione ad Argentina 1978. Keegan a metà anni Settanta era uno dei top player mondiali, oltre che Pallone d’Oro».
In azzurro hai messo via tredici presenze di cui cinque ai Mondiali del 1978. «Eravamo nove juventini a quel Mondiale. Giocammo tutti insieme dall’inizio contro l’Olanda. Il blocco Juve è sempre stato una colonna delle Nazionali vincenti».
Torniamo al bianconero e facciamo un passo indietro, stagione 1976–77. «L’anno della doppietta campionato–Coppa Uefa. Parola fu sostituito da Giovanni Trapattoni, un allenatore giovane, brillante, con una grande fame di vittorie. Come tipo di operazione mi ricordò molto quella fatta nel 1970 con il povero Picchi. Il Trap poteva contare su una grande società e su una squadra formidabile e affiatata. Ci furono gli innesti di Benetti e Boninsegna. Lui poi avanzò Tardelli, che era arrivato l’anno prima, a centrocampo. Io e Gentile ci scambiammo le fasce, con Antonio Cabrini che iniziava a fare capolino. E venne fuori lo squadrone che vinse lo scudetto record dei cinquantuno punti e la prima coppa internazionale: 1–0 a Torino e 2–1 in Spagna e la Coppa Uefa è nostra».
Del trionfo europeo che ricordi conservi? «Il San Mamés, lo stadio dell’Atletico Bilbao. Una bolgia, il pubblico spagnolo che urla, noi che lottiamo con il coltello tra i denti e alla fine la liberazione, la gioia e l’entusiasmo per una coppa che meritavamo di vincere perché avevamo superato le migliori squadre europee».
In Spagna avete sofferto molto. «È la partita più intensa che abbia mai disputato. Specie nel secondo tempo eravamo in apnea. Ricordo che Benetti fece un fallo a centrocampo e fu circondato dagli avversari. Nessuno di noi ebbe la forza di andarlo a difendere: eravamo tutti a riprendere fiato».
La Juve di fine anni Settanta è una delle formazioni juventine più forti di sempre. Sei d’accordo? «Sì. E tutta italiana. Vincemmo ancora lo scudetto nel 1978 e la Coppa Italia nel 1979».
Il 1980–81 è il tuo ultimo anno alla Juventus. «Ho giocato uno dei migliori campionati in maglia bianconera. Con la Pistoiese realizzai il mio ultimo goal con la mia classica “cannonata” da trenta metri. Alla fine arrivò per me il sesto scudetto. Un numero che oggi suona giustamente come leggenda per la Juventus di Allegri. E poi l’addio».
Non te lo aspettavi. «No, credevo di chiudere la carriera alla Juve. Invece rimasi invischiato in una trattativa con la Fiorentina che avrebbe dovuto portare Vierchowod alla Juve, ma ciò non avvenne. E quando la dirigenza bianconera pretese il mio ritorno a Torino, da Firenze dissero di no».
Rimane lo spazio per un’ultima risposta. «Ed io lo sfrutto per ricordare: Romolo Bizzotto. Per anni è stato l’allenatore in seconda della Juve, soprattutto con Trapattoni. Una persona a modo che ha lavorato nell’ombra e in silenzio per il bene della squadra e dei giovani».
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