Gli eroi in bianconero: Michael LAUDRUP
Beato lui, che conserva benessere psicofisico, dopo due anni intossicanti di Lazio – scrive Marco Morelli sul “Guerin Sportivo” del 19 giugno 1985 –. E che si servirà dell’infallibile Juve per entrare nel nostro epos, quale mirabile esempio di tecnica calcistica, sopravvissuto con il sangue intatto ai vecchi germi della confraternita biancoazzurra. Inutilmente i diaconi di Roma hanno tentato di spaccarlo in mille frammenti. Inutilmente a «Michelino» Laudrup abbiamo ripetuto indignati ch’era fragile, di vetro soffiato, vagheggiando generosi Ajaci per la salvezza del club di Chinaglia.
Ora sappiamo che ha prevalso su qualsiasi disfatta il suo gelido istinto di conservazione, né mai avrebbe potuto trasformarsi da ghiaccio in fuoco per amor di giornalismo magniloquente, di fanatica, inutile lazialità. Eccoci dunque ai saluti. Eccoci dunque pronti ad ammettere il clamoroso errore di partenza: quando lo vedemmo, spaurito, arrivar dal Broendby e istintivamente trasferimmo in questo danese figlio d’arte, l’idea della riscossa, d’un diritto al futuro senza spaventi. «Ma nel football si gioca in undici», ripete ancora con la voglia di combattere le delusioni tutt’intorno. «E dominano schemi, geometrie ineliminabili. Nessun Caravaggio del pallone sarebbe riuscito a dare alla squadra del mio passato quanto non aveva. All’interno d’essa pure Maradona si sarebbe messo le mani nei capelli prima o poi. Io ho dato il possibile, non ho rimorsi. La situazione in cui siamo piombati alla svelta avrebbe schiacciato pure Maciste».
La valigia è pronta, la casa è stata disdetta, il passato gramo è alle spalle. Gli leggo negli occhi la fretta di ricominciare in quella specie di castello incantato che deve essergli sembrato sempre il club di Boniperti. Con pudore, però, riduce le emozioni all’essenziale. Gli basta osservare: «Almeno riuscirò a divertirmi di più, diminuiranno i ritiri opprimenti. Da quando fui parcheggiato nella capitale, ho avuto la libertà col contagocce. Sono stato sempre prigioniero di qualche albergo, sempre in clausura ad attendere la domenica successiva alla stregua della fine d’un incubo. Poi l’incubo ricominciava il lunedì... È brutto lottare sempre con, l’acqua alla gola, a vent’anni... Tutto si complica, tutto è condizionato dalla chimera irraggiungibile del risultato. Evidentemente non sono tagliato per soffrire, non sono il missionario che desideravano. Dalla vita, infatti, ho avuto alla svelta il necessario e pure di più, grazie a mio padre, Finn, che dava del tu al pallone in Danimarca o nel Rapid di Vienna, e mi ha trasmesso le sue qualità, la fantasia, l’allegria. Purtroppo, nella Lazio ridevo sempre meno. C’erano solo da dividere ripetute umiliazioni, con Giordano e gli altri».
Vivere non può essere faticoso mestiere, quando si è giovani ancorché predestinati al successo. E nell’estate della Serie B, d’improvviso lo scenario muta dinnanzi al suo sorriso da réclame. C’è la Juve per il principe biondo che deve aver spesso bisbigliato «essere o non essere con Trapattoni, questo il dilemma», nelle ore gravi dello sfascio firmato via via Carosi, Juan Lorenzo, Oddi. Può ammetterlo? Arrossisce quanto basta a capire il senso dell’imminente confessione. «Io vorrei conoscere un calciatore che non sogna la maglia bianconera della Signora degli scudetti. In verità, avevo avuto pure altre proposte, ma non le avrei accettate... Se non mi avessero chiamato a toccare il cielo con un dito, sarei rimasto dov’ero, a soffrire in B. Non dimenticherò mai i giorni della retrocessione. Dalla Lazio ho avuto rari momenti belli: ricordo soprattutto l’ultima partita della stagione scorsa, a Pisa, quando ci salvammo col cuore in gola, per il rotto della cuffia. Avevamo fatto meglio del Genoa nei confronti diretti... Vidi un po’ di luce, m’illusi che il peggio fosse passato. Invece siamo ripiombati subito nel buio e contro l’Udinese all’Olimpico, a metà campionato, mi sono sentito distrutto. Si può perdere, ma guai a ritrovarci demotivati a metà cammino... Ed io, con la Lazio, non ho partecipato a una Serie A intera; ho partecipato a un girone d’andata e successivamente a un calvario...».
Basta così. Michael Laudrup non avrà più da accettare il protrarsi indebito d’irrealizzabili desideri di grandezza. La sua faccia – che non è mai dolorosa e stonerebbe tra quelle «della classe operaia» cui non tocca in premio il paradiso –, risulta semplicemente degna d’entrare nelle aristocratiche foto di gruppo degli eletti cari agli Agnelli, finito il tempo dei sospiri. Juventino per censo, per vocazione, per cromosomi calcistici. Ma la gioia della ventura consacrazione non gli impedisce di dimenticare certi stati d’animo e allora corregge: «Juventino, anche se per colpa del destino o di nessuno, ho rischiato di finir coinvolto nella bufera laziale, compromettendo il futuro. È stato in certo qual senso Boniek a tirarmi fuori dai guai. Si fosse accordato, avrei continuato a rimandare i progetti migliori, a sospirare, a custodire segrete ambizioni. È andata come andata, chi ha avuto ha avuto. Non voglio ulteriormente rattristarmi: Juve, finalmente sono in arrivo e vorrei evitare qualsiasi altro trasferimento. È davvero curioso: grazie alla Roma che accoglie un ex di Trapattoni, posso partire per Torino con un carico di progetti. Al momento posso solo pro- mettere che non si pentiranno di avermi dato fiducia. Saranno gli altri a giudicare se ho i “numeri” per diventare degno erede del polacco. Vado senza tremare: con la nazionale danese sono riuscito sempre a dimostrare che quanto nella Lazio era indimostrabile. Ci sono squadre che valorizzano e squadre che condizionano, inutile nasconderlo...».
Alleuja, Roma scompare in dissolvenza. Dispiace solo alla fidanzata Tina, graziosa ragazza che ha alleviato con amore le afflizioni del suo ventunenne innamorato. Lui, Michelino, giura che della città eterna ha conosciuto bene solo gli alberghi dei melanconici ritiri: «Sono riuscito, semmai, ad andare qualche volta a San Pietro in cerca della benedizione del Santo Padre... Roma sarà pure la più bella del mondo, ma non me ne sono accorto. I luoghi si trasformano in base al nostro umore, alle sensazioni. Pertanto, quando il lavoro va a rotoli, il sole brilla inutilmente, i panorami diventano invisibili, nebbia. A Roma mi sono sentito incompreso e dai giornali ho capito che c’era poco disponibilità a giustificarmi. Le valutazioni del lunedì mi facevano arrabbiare: ho scoperto giornalisti che mi assegnavano regolarmente tre o quattro in pagella... Una volta mi hanno dato zero... da noi in Danimarca è diverso: i critici sono spesso ex calciatori e non tifosi traditi, offesi nel loro culto».
Acqua passata. A cosa serve ricordare adesso che «Michelino» ha dimostrato a Roma d’essere grande giocatore soltanto in potenza? I guizzi, lo scatto irresistibile, l’abilità nel dribbling, sono spesso stati vanificati da madornali errori conclusivi, quasi avesse insopprimibile avversione per il gol, per l’attimo-sintesi. Colpa della Lazio o sua? Nessun osservatore, all’Olimpico o altrove, ha saputo rispondere con durevole precisione. Più semplice giudicarlo abatino pallido, senza cuore, preoccupato del proprio tornaconto, indifferente alle sorti della società, provvisoria, d’appartenenza. Ma è vero? Riesce ad arrabbiarsi ancora qualche attimo. «Vero un corno... Avrei voluto vedere un altro al posto mio: mi hanno messo in discussione, Carosi arrivò a escludermi e i successori mi hanno spesso colpevolizzato. Sembrava che in panchina, in alternativa, avessero Pelé. Chiaro che mi sono demoralizzato: invece di garantire un minimo di serenità, i responsabili raccontavano che, distratto dalla Juve, mi concentravo poco sulla Lazio. Stupidaggini... Quando si perde, pure l’immagine dei più bravi viene danneggiata. Così dicono che non so stringere i denti, che sono troppo morbido nel carattere. Può darsi che sia vero. Ognuno è fatto a modo suo, non ho mai dato a intendere d’essere l’uomo della provvidenza».
Toccherà alla Juve valorizzarlo appieno, affinché non resistano ingombranti differenze tra il Michelino della Nazionale di Piontek e quello del campionato italiano. Incontrerà difficoltà di ambientamento come illustri predecessori quali Rossi e Boniek? Tornerà a tradirlo il carattere, l’incapacità presunta di saper soffrire? Mi guarda finalmente divertito. Vorrebbe spiegarmi che è inutile mettere il carro davanti ai buoi. Nell’attesa lo sorregge un presentimento. Dice: «I danesi alla Juve non hanno mai fallito. Il mio prossimo arrivo rafforza un’antica tradizione del club bianconero: c’erano addirittura tre danesi nel 1951-52 a mostrar meraviglie. Erano Karl e John Hansen, più Praest».
Fino a quando due bianconeri, Astorri e John Hansen, lo segnalarono a Boniperti, trenta mesi fa, Michelino Laudrup scintillava diciottenne nel Broendbyernes, a due passi da casa, realizzando caterve di gol. Doveva pertanto essere nei piani, il «baby» ideale per aiutare Chinaglia a cominciare senza traumi da presidente. O almeno tali erano i convincimenti bonipertiani, cui Long John non restò insensibile. Sappiamo il seguito del romanzo d’appendice. Ma più che scusarsi, Michelino non può: «Probabilmente ho caratteristiche che funzionano meglio in squadre competitive. Di recente, all’Unione Sovietica ho realizzato due gol e Piontek mi ha elogiato commosso. E convinto che con Platini sfonderò anche a livello di club. L’ho ringraziato: anch’io non ho dubbi».
E allora, in alto i cuori, laziali abbandonati in B, Era comunque previsto che la Laudrup-story ricevesse a un tratto la benedizione juventina.
A Torino diventa il pupillo di Boniperti e il beniamino di chi ama il bel calcio. Michelino, in bianconero, sorprende tutti. Trapattoni riesce, in poco tempo, ad assemblare una squadra rinnovata in tanti pezzi, anche fondamentali. Il Laudrup della Lazio, senza nerbo e carattere, regolarmente inutile in trasferta e bravo, soprattutto, a segnare dei gol, anche belli, ma quasi sempre a risultato già acquisito, diventa subito il Principe di Danimarca proprio per la sua capacità di essere spesso determinante e la sua qualità è comunque altissima. Reti come quella segnata a Tokyo, quando, con una giocata impossibile, permette alla Juventus di andare ai supplementari di una finale Intercontinentale che avrebbe poi vinto ai rigori, sono destinate a restare nel tempo e nella memoria dei tifosi.
Quando è in giornata, Laudrup è un giocatore immarcabile: i primi tre passi sono qualcosa di unico, con la palla tra i piedi non perde velocità, capace di saltare chiunque. La sua finta di corpo è micidiale, il tiro, quando ci prova, è notevole, la tecnica è sopraffina, è in possesso di una grande intelligenza calcistica. Insomma, ha tutte le caratteristiche per diventare un grandissimo, ma ha dei notevoli limiti caratteriali. Esemplificativa, in tal senso è la frase di Platini: «Laudrup? È il miglior giocatore del mondo, in allenamento». Definizione straordinariamente sintetica, che racchiude tutto. Michael sarebbe stato, semplicemente, il migliore del mondo se non ci fosse stata la competizione agonistica.
Torino gli piace perché è meno chiassosa e perché, a suo dire, somiglia a Copenaghen. Lui ci tiene a spiegare che i danesi non sono noiosi, ma semplicemente più riservati. Trascorre le giornate con la fidanzata che diverrà sua moglie. Insieme ascoltano Bob Dylan, i Beatles e Joan Baez. Ama il golf, il tennis, gli spaghetti, la pizza napoletana e i film di Woody Allen. «La pressione dell’ambiente è quella che mi dà più preoccupazione, a volte persino angoscia. Certo il tifo degli stadi italiani può esaltarti, può entusiasmarti, ma c’è anche l’altra faccia da tener presente, quella dei fatti banali, dei giornali troppo spesso pronti a fare un dramma di qualunque cosa succede e, infine, quella di veder montare spesso le tue parole fino a non riconoscere più le dichiarazioni che credevi di aver fatto. Così mi sono fatto più accorto. Quest’anno, per esempio, giocando con la Juventus, proprio perché è una squadra, una società che ha vinto molto, ho capito che noi giocatori eravamo sempre sotto il tiro di tutti; troppi infatti vogliono che le cose vadano male alla Juventus. Ho dovuto quindi adeguarmi e imparare una lezione: quando perdi devi stare zitto e quando vinci devi stare molto attento. Lo so che è singolare per non dire malinconico, ma è così».
Le sue doti sono la velocità, le improvvise convulsioni tecniche di un dribbling messo in pratica con leggerezza insostenibile per gli avversari. Però non ha il dono della continuità. Lui accetta elogi e critiche: «Non mi piace parlare molto di me, ma se devo dire qualcosa, credo che le mie qualità principali sono il dribbling, la velocità, la capacità di vedere il gioco e di saper tirare con il destro e con il sinistro, una dote che non hanno tutti i calciatori pur essendo una dote fondamentale perché, se no, devi fare le acrobazie per calciare. I miei difetti? Beh, la cosa che non so proprio colpire di testa. Non ci riesco. Forse ho paura dei difensori che mi saltano addosso».
Purtroppo, per Michelino e per tutti i tifosi, la Juventus è alla fine di un ciclo: arriva Marchesi ma i vecchi eroi sono stremati. «Il Mundial messicano mi ha distrutto fisicamente. Dopo due giorni di ritiro con i bianconeri ho cominciato a soffrire di tendinite, quindi è arrivata la pubalgia. Per settimane non mi potevo muovere e sono state dette cose cattivissime: ma come, Laudrup potrebbe giocare e chiede di stare fermo? Nessuno capiva che per rendere al massimo ho bisogno di correre e scattare. Come me, altri juventini sono stati male e la sfortuna ha insistito: non si può eliminare il Real Madrid se non si è al massimo della condizione. Non nascondo che ho passato i momenti più difficili da quando gioco al calcio: per la prima volta in vita mia ho smesso di divertirmi».
Marchesi predilige il calcio difensivo e obbliga spesso Laudrup a compiti di copertura. E nonostante l’arrivo di Rush e le buone promesse («Devo moltissimo a Marchesi, all’Avvocato, a Boniperti. Hanno creduto in me nonostante i malanni e le incertezze. Farò di tutto per saldare il mio debito, finora mi ha bloccato solo la pubalgia che però è sparita. La nuova Juventus è da inventare e questo mi piace, io amo le novità; sin dai primi allenamenti ho capito che Rush è il compagno ideale. Mi piacerebbe che la nostra squadra copiasse la nazionale danese almeno nello spirito, dando spettacolo. Possiamo farcela, però vincendo: divertire e divertirsi non basta. Capisco benissimo che le maggiori responsabilità peseranno sulle mie spalle, non sono mica uno stupido: Boniperti non mi ha tradito, non lo tradirò. So anche che questa è la mia prova d’appello e non ho paura, purché la salute mi assista. Mi rende ottimista il fatto che ì nuovi schemi saranno impostati sulla velocità, cioè sulla mia arma migliore»), la stagione sua e della Juve è ancora più deludente di quella precedente.
Nemmeno Zoff riesce a fargli fare il salto di qualità. Michelino alterna grandi giocate a prestazione imbarazzanti e così preferisce emigrare in Spagna, dove, col Barcellona e col Real Madrid poi, ritornerà a esprimersi a livelli altissimi, conquistando subito i tifosi.
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