Gli eroi in bianconero: Mario VARGLIEN

Pionieri, capitani coraggiosi, protagonisti, meteore, delusioni; tutti i calciatori che hanno indossato la nostra gloriosa maglia
26.12.2016 10:29 di Stefano Bedeschi   vedi letture
Gli eroi in bianconero: Mario VARGLIEN
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La maglia della mia vita ha avuto due soli colori – raccontava – il bianco e il nero ed era a strisce. Adesso tutti quelli che non mi conoscono penseranno che io sono nato alla Juventus e alla Juventus sono morto, come calciatore, si intende. Allora mi accorgo che devo precisare. Non sono cresciuto alla Juventus, io sono di Fiume. I primi calci, lo sapete, si tirano senza importanza, sin da bambini. Se uno, però, è destinato a fare il calciatore di professione, ecco che prima o poi arrivano i suoi primi, calci ufficiali. Per me questi sono arrivati che avevo sedici o diciassette anni, non lo ricordo con assoluta esattezza, in ogni caso ero un pivello e giocavo per l’Olimpia e Gloria di Fiume e la mia maglia era appunto bianconera, come quella della Juventus. Così ora mi sono in parte già spiegato.
A un certo momento, Olimpia e Gloria si fusero nella Fiumana: eravamo in Serie B. Io gironzolavo di ruolo in ruolo. Ora all’attacco come mezzala, ora in difesa come mediano o centromediano. Ero, come tutti i giovani, in cerca di una posizione stabile, nella vita e nel calcio, che per me era la vita, anche se debbo confessare che ero abbastanza versatile come sportivo praticante: nuotavo discretamente, giocavo a basket, facevo ginnastica.
Qualcuno mi diceva che io ero un generico dello sport e che perciò ero destinato a non eccellere in un campo specifico. Io sapevo che il calcio l’avevo nel sangue e, siccome ritengo di essere sempre stato un duro, ancor più verso me stesso che verso gli altri, ho puntato i piedi ed ho vinto la mia battaglia, anche se non è stato facile.
Avevo superato da poco i diciassette anni, quando giocai (in maglia azzurra) con la rappresentativa della Venezia Giulia contro quella del Veneto, a Udine. Mi misi in luce, tanto è vera che la Pro Patria, che era stata promossa in Serie A, mi acquistò. Ed io, ancora giovanissimo, esordii in Serie A, udite udite, con la Pro Patria a Bologna. Il Bologna era Campione d’Italia! Quel giorno, memorabile anche per i bolognesi, io ero centromediano. Si perdeva, logicamente, si perdeva per 1-0 e fui proprio io che, a sei minuti dalla fine, segnai il goal del pareggio per la Pro. Avevo vent’anni, l’età dei sogni di gloria!
A casa mia mi dicevano: gioca pure al football, ma devi anche lavorare. Ed io lavoravo in banca, a Busto. Lavoravo, mi allenavo e la domenica giocavo. Poi, nel 1927-28, venne lo scossone decisivo della mia vita: venne a cercarmi la Juventus. Io ero ai sette cieli, mi sembra che fosse umano, ma la Pro Patria non voleva saperne di mollarmi. Mi chiamarono i dirigenti e mi dissero: «Varglien, resti, le daremo quel che le offre la Juventus».
I quattrini non hanno colore, le maglie sì, quella della pur amatissima Pro Patria non valeva quella della Juventus. Mi toccavano tutti sul sentimento, dicevano che sarei dovuto rimanere a Busto, lì mi volevano bene. Ero indeciso e, mentre ero indeciso, mi infortunai. La Juventus, intanto, stava aspettando, Quando arrivammo al dunque, seppi che la Pro Patria non era più disposta a mantenere le sue promesse finanziarie. Feci una sola cosa: le valige e me ne tornai a Fiume, ero un tipo abbastanza deciso. Ma, ricordo, il 31 agosto, mi arrivò un telegramma: finalmente era stato ceduto alla Juventus! La Juventus, ora, mi dava meno quattrini, ma a me la cosa non interessava: il passo era fatto e basta, la mia vita aveva avuto la svolta che tanto avevo desiderato. Avevo, in quei giorni, ventidue anni.
Venni a Torino, alla Juventus, e alla Juventus restai quattordici anni, dico quattordici; correva il 1928, l’anno in cui si fondarono le basi definitive della più grande Juventus di tutti i tempi. Io era titolare, mediano destro o sinistro. La Juventus aveva acquistato anche Orsi e Caligaris: i tre nuovi eravamo noi. Combi, Rosetta e Caligaris, Varglien I, Monti e Bertolini. Con Caligaris e Bertolini che giocavano a sinistra ed erano entrambi tutti destri, con Rosetta e Varglien che giocavano a destra e che preferivano calciare con il sinistro! Io, Orsi e Caligaris, i tre novellini, ci facevamo compagnia, avevamo fatto gruppo a sé, ma non tardammo a inserirci nella grande famiglia che, tutta unita, conquistò i cinque scudetti. Anni, quelli, che non scorderò mai, gli anni migliori della mia vita e della mia carriera. Fra l’altro, una volta giocai in Nazionale A, a Roma contro la Francia (e vincemmo 2-1) e undici o dodici volte giocai in Nazionale B.
Combi in porta, Rosetta non marca nessuno, io penso all’ala destra, Bertolini all’ala sinistra, Monti marca il centravanti. Se l’avversario che dobbiamo affrontare ha classe, allora la marcatura è seria, altrimenti si gioca come sappiamo noi, ignorando l’avversario. Quando dovevamo giocare contro Sindelar, il compito di marcarlo era mio, perché Monti non lo pigliava mai e si imbufaliva. Anche Braine e Meazza ci facevano soffrire. Le nostre bestie nere erano la Roma e la Lazio. Io davo del “lei” anche a Bigatto. Faotto, terzino del Palermo, voleva acciaccare Orsi. Orsi, muovendo il piedino fantastico che aveva, lo azzoppò. Quando si vinceva lo scudetto c’erano serate d’onore al Carignano. Orsi era il più pagato, prendeva 1.000 pesos, cioè 700 lire al mese più una villa e un’automobile. Quando il pesos andò giù, la Juventus gli corrispose sempre la stessa cifra.
Non so che significa classe. Io ho imparato dai campioni dello Spartak che venivano a giocare a Fiume, come Kada, Janda, Kelacef. Mi spaccavo gli occhi per capire come stavano in campo. Ho giocato tante volte centromediano nella conquista dei miei cinque scudetti.
Dopo ogni allenamento Rosetta andava ad asciugarsi e si curava le scarpe come cose sacre. Monti era sempre troppo serio e andava d’accordo solo con Bertolini. Combi nelle sue uscite dai pali ci terrorizzava. Una volta il suo pugno riuscì a beccare anche me. Rimasi svenuto cinque minuti. Rosetta si portava nella valigia in trasferta per scaramanzia il vestito nero, quello con il quale si era sposato. Era un grandissimo giocatore, però nella partita facile si sfaticava. Come terzino faceva in un tempo solo quello che gli altri facevano in due o tre tempi. Passava al volo di prima tutti i palloni. Non ne colpì mai uno di testa. Orsi era simpatico, suonava il violino, mi chiamava spesso al telefono e mi diceva: «Ascolta questo tanghito!» Cesarini era una testa pazza, ci faceva ammattire tutti.
A fine carriera, oramai nel 1941-42, giocai nella Sanremese, che era una dépendance della Juventus (campionato di guerra) e infine tornai a Trieste, dove disputai le mie ultime partite. Ricordo quella contro una squadra militare tedesca. Io ero il capitano, con me c’era anche Nereo Rocco. Invasione di campo, calci e pugni: non ci tiravamo indietro! Ho appeso le scarpe al chiodo a trentasei anni, nel 1942. Da allora sono diventato più juventino di prima.